A G A R
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Agar è la figura più controversa della Bibbia.
La tradizione ce la propone come schiava di Sara, la Sposa
Primaria del patriarca Abramo, fondatore del popolo degli Ibrihim (figli di
Abramo), ossia degli Ebrei, rifugiati in territorio egizio.
Sara, però, poteva avere come schiava l’egiziana Agar, una donna del popolo dominante?
Chi era, dunque, veramente Agar?
Sposa, sorella, serva, (ad eccezione di Madre, con ben altra funzione) erano termini che,
all’epoca, si attribuivano alla donna, indipendentemente.
Anche in Egitto, la Sposa era spesso chiamata: “Sorella del mio cuore”.
E allora: Agar, sposa o schiava?
E’ possibile sciogliere l’enigma, attraverso le pagine di un libro che narra le
vicende di questa straordinaria donna.
“A G A R” di Maria Pace reperibile presso:
Fai clic qui per effettuare modifiche.
La tradizione ce la propone come schiava di Sara, la Sposa
Primaria del patriarca Abramo, fondatore del popolo degli Ibrihim (figli di
Abramo), ossia degli Ebrei, rifugiati in territorio egizio.
Sara, però, poteva avere come schiava l’egiziana Agar, una donna del popolo dominante?
Chi era, dunque, veramente Agar?
Sposa, sorella, serva, (ad eccezione di Madre, con ben altra funzione) erano termini che,
all’epoca, si attribuivano alla donna, indipendentemente.
Anche in Egitto, la Sposa era spesso chiamata: “Sorella del mio cuore”.
E allora: Agar, sposa o schiava?
E’ possibile sciogliere l’enigma, attraverso le pagine di un libro che narra le
vicende di questa straordinaria donna.
“A G A R” di Maria Pace reperibile presso:
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A G A R ... prima femminista della Storia?
Proprio così!
Questa figura femminile biblica, che si pone in una posizione di
critica nei confronti delle consuetudini del suo tempo, potrebbe essere scelta
anche oggi quale simbolo per quelle donne che vogliono uscire da una condizione
di dipendenza ed immobilismo.
Chi volesse conoscerne la storia, può richiedere il libro “A G A R” presso:
www.lulu.com
www.amazon sez. book
www.Google sez. book
Proprio così!
Questa figura femminile biblica, che si pone in una posizione di
critica nei confronti delle consuetudini del suo tempo, potrebbe essere scelta
anche oggi quale simbolo per quelle donne che vogliono uscire da una condizione
di dipendenza ed immobilismo.
Chi volesse conoscerne la storia, può richiedere il libro “A G A R” presso:
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"A G A R" è il nome della protagonista di questo libro
Reperibile presso:
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Controversa figura femminile della Storia biblica e della Religione, la storia di questa donna è stata sempre tracciata da mano maschile, è, per la prima volta raccontata dalla sensibilità di una donna.
E’ un’opera a metà fra il mondo biblico e quello egizio e forse farà discutere per la presa di posizione dell’autrice: Agar è una figura di donna raccontata sempre e solo da uomini.
Agar, nasce a Tebe durante il regno di Thutmosis III da una sposa secondaria del Sovrano. Cresce fra gli agi della corte e la reclusione del gineceo reale, mal sopportando il ruolo impostole dal destino e dalla tradizione maschile.
La sua storia si intreccia con le vicende di alcuni Sovrani della XVIII Dinastia, tra cui Thutmosis III, suo figlio Amenopeth II, la famosa Regina-faraone Hutsepsuth.
Testarda e ribelle, cresce e raggiunge la maggiore età, evento che coincide sempre con un matrimonio combinato. Per Agar, però, lo sposo non è un uomo comune: il suo nome è Abramo e viene da Ur dei Caldei.
La vita che l’aspetta è assai diversa da quella condotta a Tebe. Un lungo viaggio la porterà a Mambre, dove incontrerà nuove genti, intreccerà nuove relazioni e conoscerà speranze e delusioni. Alla fine, però, scoprirà il vero ruolo della sua vita.
Questo personaggio, che la moderna tradizione vuole forzatamente remissivo, trova il riscatto attraverso le pagine di questo libro, che la presentano come una donna dinamica e forte, in lotta per la conquista di una dignità femminile. Potrebbe, per questo, anche oggi essere scelta come simbolo di tutte quelle donne che vogliono uscire da una condizione di dipendenza ed immobilismo sociale
Abbinati a questa Pagina troverete:
- brani del libro
- aneddoti e curiosità
- condizione della donna nell’Antico Egitto
- confronto civiltà egizia con quella biblica
- … e tante altre cose ancora…
Antico Egitto e Sacra Bibbia
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/9238203.gif?396)
ANTICO EGITTO e SACRA BIBBIA Da almeno due millenni la Bibbia è il Libro Sacro per eccellenza. Vi si narrano le vicende storiche e il percorso religioso del popolo ebraico: gli Ibrihim, (figli di Abramo).
Tutto ha inizio, dunque, con la figura del grande Patriarca: non ebreo, ma fondatore dell’Ebraismo e del popolo ebraico. Egli era, infatti, babilonese (irakeno, diremmo oggi) originario di Ur dei Caldei.
I testi biblici non sempre corrispondono con le testimonianze archeologiche egizie, ma è innegabile il legame fra le due culture.
Il nome Israele comparve per la prima volta nelle vicende storiche dell’Antico Egitto, intorno al 1.250 circa a. C. (le date, però, sono spesso controverse) su una stele rinvenuta a Tebe, in cui il faraone Meremptha, figlio del più celebre Ramesse II, (XX Dinastia) cita le popolazioni e le città assoggettate in una delle sue campagne militari.
Facendo un po’ di conti, il più grande Patriarca della storia, Abramo, dev’essere vissuto un paio di secoli prima. (sempre tenendo conto della controversia delle date, che alcuni studiosi anticipano di altri due secoli) e cioè, ai tempi del faraone Thutmosis III, (XVIII Dinastia).
Proprio in questa epoca, Maria PACE, autrice del libro “AGAR”, colloca le vicende narrate nel suo ultimo lavoro.
L’egiziana AGAR, protagonista principale di questa storia, è la Sposa Secondaria di Abramo, madre di Ismaele, fondatore del popolo Ismaelita.
Israele, l’altro figlio del Patriarca, meglio conosciuto con il nome di Isacco , fu, invece, il fondatore del popolo israelita, cui dette il nome.
Per chi volesse approfondire le vicende che portarono alla formazione di questi due grandi popoli ( e conseguentemente alle moderne credenze religiose) può richiedere il libro: A G A R di
Maria Pace, presso
- www.Lulu.com
- www.Amazon.com sezione libri
- www.Google.com sezione libri
Tutto ha inizio, dunque, con la figura del grande Patriarca: non ebreo, ma fondatore dell’Ebraismo e del popolo ebraico. Egli era, infatti, babilonese (irakeno, diremmo oggi) originario di Ur dei Caldei.
I testi biblici non sempre corrispondono con le testimonianze archeologiche egizie, ma è innegabile il legame fra le due culture.
Il nome Israele comparve per la prima volta nelle vicende storiche dell’Antico Egitto, intorno al 1.250 circa a. C. (le date, però, sono spesso controverse) su una stele rinvenuta a Tebe, in cui il faraone Meremptha, figlio del più celebre Ramesse II, (XX Dinastia) cita le popolazioni e le città assoggettate in una delle sue campagne militari.
Facendo un po’ di conti, il più grande Patriarca della storia, Abramo, dev’essere vissuto un paio di secoli prima. (sempre tenendo conto della controversia delle date, che alcuni studiosi anticipano di altri due secoli) e cioè, ai tempi del faraone Thutmosis III, (XVIII Dinastia).
Proprio in questa epoca, Maria PACE, autrice del libro “AGAR”, colloca le vicende narrate nel suo ultimo lavoro.
L’egiziana AGAR, protagonista principale di questa storia, è la Sposa Secondaria di Abramo, madre di Ismaele, fondatore del popolo Ismaelita.
Israele, l’altro figlio del Patriarca, meglio conosciuto con il nome di Isacco , fu, invece, il fondatore del popolo israelita, cui dette il nome.
Per chi volesse approfondire le vicende che portarono alla formazione di questi due grandi popoli ( e conseguentemente alle moderne credenze religiose) può richiedere il libro: A G A R di
Maria Pace, presso
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Brano tratto dal libro
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INTRODUZIONE
Agar nasce a Tebe, durante il regno di
Thutmosis III, da una Sposa Secondaria del Sovrano. Cresce fra gli agi della
corte e la reclusione del gineceo reale, mal sopportando il ruolo impostole dal
destino e dalla tradizione maschile.
La sua storia personale si intreccia con le vicende di alcuni Faraoni, come Thutmosis III, suo figlio Amenopeth II, la Regina-Faraone Huthsepst.
Testarda e ribelle, raggiunge la maggiore età, evento che coincide sempre con un matrimonio combinato. Per Agar,
però, lo sposo non è un uomo comune: il suo nome è Abramo e viene dalla terra di Ur dei Caldei.
La vita che l’aspetta è assai diversa da quella condotta a Tebe. Un lungo viaggio la porterà a Mambre, dove incontrerà
nuove genti e intreccerà nuovi rapporti e dove conoscerà speranze e delusioni.
Alla fine, però, scoprirà il vero ruolo della sua vita.
Libro Primo - LE PALME DEL NILO
I
Arrivai nella terra dei Faraoni con la piena del Nilo. Il mio primo vagito fu un urlo di
gloria: ero convinta di aver conferito col mio arrivo, dignità e onore ad un giorno altrimenti destinato all'oblio. Non immaginavo, ahimè, che già al primo appuntamento con la vita, giungevo seconda: quello stesso giorno nella "Casa
della Nascita" del Tempio di Ammon, assistita dalle ancelle e dalle Divinità Protettrici della Maternità, la Grande Consorte Reale aveva dato alla luce l'erede al trono.
La principessa Menhet di Ugarit, mia madre, quarta moglie del Sovrano, ancora stremata dalla febbre e dallo strazio
del parto, considerò il mio arrivo come la più grande delle benedizioni; nel suo ingenuo candore, volle per me un nome augurale: Agar Ank Hathor, che significa Gioia generata da Hathor. Con quel nome sperava di guidare sul mio capo la
benevolenza di una Dea a lei straniera.
Un nome, dicono i sacerdoti, è lo scrigno che custodisce il carattere di una persona. Un nome, dicono, è
l’impronta destinata a guidare una vita e procura a chi lo porta, ciò che
promette. Il mio nome prometteva gioia, ma io non ho mai creduto troppo a quel che dicono i sacerdoti.
Mia madre invece sì! Eppure, nonostante le sue amorevoli intenzioni, mai nome fu meno profetico di quello. Lei, però,
non lo sapeva. Continuava a guardarmi con materno compiacimento mentre la levatrice reale mi scuoteva e percuoteva quella parte poco nobile del corpo, senza rispetto per la mia dignità; quando mi deposero sul suo morbido grembo, io
cominciai a piangere, a muovermi e a sgambettare in cerca di cibo.
A lungo continuai ad inondare il soffice seno della piccola principessa siriana; così come fa il Nilo con la terra d'Egitto. Le mani impietose della nutrice, infine, vennero ad esiliarmi da quel porto sicuro per attaccarmi con la
bocca ai capezzoli del suo seno; quando fui sazia, mi mise nella culla di giunchi che la principessa aveva intrecciato nei lunghi mesi dell'attesa.
Si trattava di intrecci e nodi particolari, un ordito di steli e giunchi di rara bellezza e bravura: nodi da
pescatore. Solo la gente della Valle del Cedro, che si stende sotto la collina di Shanza, in Siria, conosce quel modo di annodare giunchi. Ne sono assai gelosi e dicono che il dio Baal in persona abbia insegnato loro l'arte di quell'intreccio.
"La magia della Grande Signora è assai potente. - Sechet, l'ancella nubiana, si chinò sulla culla per appendermi al
collo i simboli della mia dignità: Sechem e Menit, Sistro e Collana della Vita, emblemi della Dea a cui ero stata votata - Già! - ripeté sistemandomeli con cura - Nel gineceo del nostro Signore, si continuano a generare femmine e mai un maschio... Ma Hathor la Splendente proteggerà la principessa da ogni insidia."
"La tua bocca è come un pollaio attaccato da una volpe, stupida ragazza! Tienila chiusa o, per il Sistro di
Hathor, o lo farà qualcuno." la rimproverò la nutrice che mia madre aveva condotto con sé dalla Siria, ma anche lei doveva nutrire gli stessi timori di Sechet, poiché si affrettò a rafforzare la protezione di Hathor con altri amuleti: con l’udjat e la nefer, capaci di
trasmettere felicità, salute e fortuna.
La gente del Nilo ripone grande fiducia negli amuleti e nelle magiche parole incise sulle loro superfici: le
hekau, che hanno il potere di tenere lontano nemici visibili ed invisibili.
Dalla Siria la principessa Menhet aveva portato anche un ricco corredo nuziale. Con la mia nascita, molti di quei doni
avrebbero preso la via del Tempio di Ammon e di quello di Hathor.
Un’unione, quella della principessa siriana e del principe di Tebe, nata per soddisfare disegni di altri: di
Thutmosis II, il padre di mio padre, e di Shuballa di Ugarit, il padre di mia madre. I due avevano apposto i loro sigilli sul Sacro Papiro, ancor prima che la principessa lasciasse il grembo materno: uno stratagemma ingenuo per stringere
un’alleanza precaria; appena gli egiziani voltavano le spalle, "quei principi barbari", riprendevano le armi. Per di più, i doni nuziali erano giunti dimezzati a Tebe: Shuballa accusava Thutmosis degli attacchi dei predoni alla carovana e questi accusava l’altro d’avarizia. Con queste nubi ad offuscare il suo cielo, non sarebbe stato facile per mia madre condurre una vita serena a
Tebe. Al principe Thut, però, s'era subito infiammato il cuore alla vista delle "gote di rose" e degli "strali luminosi" della principessa siriana. E mia madre ricambiava l'affetto dello sposo con molta sollecitudine ed aspettava ansiosa la sua visita.
Non preceduta dal sussiego protocollare, la visita del Faraone, portò scompiglio nell'harem. Molte donne si
lasciarono sorprendere in abbigliamenti ed atteggiamenti non conformi alla dignità del visitatore e un fuggi-fuggi generale, rese deserte stanze e corridoi. Sembrava, però, che avessero lasciato sulle pareti le loro figure, poiché Minmose, il riproduttore reale d’immagini, nel dipingere scene di vita quotidiana del gineceo reale, le aveva maliziosamente rubate alla realtà.
Thutmosis, però, era lì solo per me e mia madre e la visita fu strettamente privata. La figura imponente, i contorni
energici del volto, gli alti zigomi e il mento arrotondato sotto la pelle abbronzata, mio padre avanzò nella stanza a lunghi passi e con un sorriso smagliante sulle labbra.
"Piccola sorella del mio cuore." disse chinandosi a sfiorarle le labbra piene di grazia; l'ombra che aveva appannato il verde smalto degli occhi di lei parve allontanarsi.
"Forse il mio Signore desiderava un figlio maschio da condurre con sé nelle battute di caccia." disse la
principessa, ma lui:
"Ammom-Ra è sceso sopra di noi." la rassicurò sorridendo.
Se anche avesse desiderato un maschio, in verità, mio padre non aveva motivo di lagnarsi: in questo Paese le figlie femmine sono preziose quanto e forse più dei maschi. Qui le figlie femmine sono "moneta di scambio" nei Trattati di Alleanza con altri Sovrani e… ma perché parlare di cose che dovrò riferire poi?
Dicevo che Thutmosis appariva soddisfatto; l'aureo usekh, luccicanti pietre preziose tagliate a forma
di gocce e tenute insieme da una maglia d'oro, splendeva intorno al suo poderoso collo. Lui se lo tolse e lo pose sul seno di mia madre poi si accostò alla culla a fianco del letto.
(continua)
INTRODUZIONE
Agar nasce a Tebe, durante il regno di
Thutmosis III, da una Sposa Secondaria del Sovrano. Cresce fra gli agi della
corte e la reclusione del gineceo reale, mal sopportando il ruolo impostole dal
destino e dalla tradizione maschile.
La sua storia personale si intreccia con le vicende di alcuni Faraoni, come Thutmosis III, suo figlio Amenopeth II, la Regina-Faraone Huthsepst.
Testarda e ribelle, raggiunge la maggiore età, evento che coincide sempre con un matrimonio combinato. Per Agar,
però, lo sposo non è un uomo comune: il suo nome è Abramo e viene dalla terra di Ur dei Caldei.
La vita che l’aspetta è assai diversa da quella condotta a Tebe. Un lungo viaggio la porterà a Mambre, dove incontrerà
nuove genti e intreccerà nuovi rapporti e dove conoscerà speranze e delusioni.
Alla fine, però, scoprirà il vero ruolo della sua vita.
Libro Primo - LE PALME DEL NILO
I
Arrivai nella terra dei Faraoni con la piena del Nilo. Il mio primo vagito fu un urlo di
gloria: ero convinta di aver conferito col mio arrivo, dignità e onore ad un giorno altrimenti destinato all'oblio. Non immaginavo, ahimè, che già al primo appuntamento con la vita, giungevo seconda: quello stesso giorno nella "Casa
della Nascita" del Tempio di Ammon, assistita dalle ancelle e dalle Divinità Protettrici della Maternità, la Grande Consorte Reale aveva dato alla luce l'erede al trono.
La principessa Menhet di Ugarit, mia madre, quarta moglie del Sovrano, ancora stremata dalla febbre e dallo strazio
del parto, considerò il mio arrivo come la più grande delle benedizioni; nel suo ingenuo candore, volle per me un nome augurale: Agar Ank Hathor, che significa Gioia generata da Hathor. Con quel nome sperava di guidare sul mio capo la
benevolenza di una Dea a lei straniera.
Un nome, dicono i sacerdoti, è lo scrigno che custodisce il carattere di una persona. Un nome, dicono, è
l’impronta destinata a guidare una vita e procura a chi lo porta, ciò che
promette. Il mio nome prometteva gioia, ma io non ho mai creduto troppo a quel che dicono i sacerdoti.
Mia madre invece sì! Eppure, nonostante le sue amorevoli intenzioni, mai nome fu meno profetico di quello. Lei, però,
non lo sapeva. Continuava a guardarmi con materno compiacimento mentre la levatrice reale mi scuoteva e percuoteva quella parte poco nobile del corpo, senza rispetto per la mia dignità; quando mi deposero sul suo morbido grembo, io
cominciai a piangere, a muovermi e a sgambettare in cerca di cibo.
A lungo continuai ad inondare il soffice seno della piccola principessa siriana; così come fa il Nilo con la terra d'Egitto. Le mani impietose della nutrice, infine, vennero ad esiliarmi da quel porto sicuro per attaccarmi con la
bocca ai capezzoli del suo seno; quando fui sazia, mi mise nella culla di giunchi che la principessa aveva intrecciato nei lunghi mesi dell'attesa.
Si trattava di intrecci e nodi particolari, un ordito di steli e giunchi di rara bellezza e bravura: nodi da
pescatore. Solo la gente della Valle del Cedro, che si stende sotto la collina di Shanza, in Siria, conosce quel modo di annodare giunchi. Ne sono assai gelosi e dicono che il dio Baal in persona abbia insegnato loro l'arte di quell'intreccio.
"La magia della Grande Signora è assai potente. - Sechet, l'ancella nubiana, si chinò sulla culla per appendermi al
collo i simboli della mia dignità: Sechem e Menit, Sistro e Collana della Vita, emblemi della Dea a cui ero stata votata - Già! - ripeté sistemandomeli con cura - Nel gineceo del nostro Signore, si continuano a generare femmine e mai un maschio... Ma Hathor la Splendente proteggerà la principessa da ogni insidia."
"La tua bocca è come un pollaio attaccato da una volpe, stupida ragazza! Tienila chiusa o, per il Sistro di
Hathor, o lo farà qualcuno." la rimproverò la nutrice che mia madre aveva condotto con sé dalla Siria, ma anche lei doveva nutrire gli stessi timori di Sechet, poiché si affrettò a rafforzare la protezione di Hathor con altri amuleti: con l’udjat e la nefer, capaci di
trasmettere felicità, salute e fortuna.
La gente del Nilo ripone grande fiducia negli amuleti e nelle magiche parole incise sulle loro superfici: le
hekau, che hanno il potere di tenere lontano nemici visibili ed invisibili.
Dalla Siria la principessa Menhet aveva portato anche un ricco corredo nuziale. Con la mia nascita, molti di quei doni
avrebbero preso la via del Tempio di Ammon e di quello di Hathor.
Un’unione, quella della principessa siriana e del principe di Tebe, nata per soddisfare disegni di altri: di
Thutmosis II, il padre di mio padre, e di Shuballa di Ugarit, il padre di mia madre. I due avevano apposto i loro sigilli sul Sacro Papiro, ancor prima che la principessa lasciasse il grembo materno: uno stratagemma ingenuo per stringere
un’alleanza precaria; appena gli egiziani voltavano le spalle, "quei principi barbari", riprendevano le armi. Per di più, i doni nuziali erano giunti dimezzati a Tebe: Shuballa accusava Thutmosis degli attacchi dei predoni alla carovana e questi accusava l’altro d’avarizia. Con queste nubi ad offuscare il suo cielo, non sarebbe stato facile per mia madre condurre una vita serena a
Tebe. Al principe Thut, però, s'era subito infiammato il cuore alla vista delle "gote di rose" e degli "strali luminosi" della principessa siriana. E mia madre ricambiava l'affetto dello sposo con molta sollecitudine ed aspettava ansiosa la sua visita.
Non preceduta dal sussiego protocollare, la visita del Faraone, portò scompiglio nell'harem. Molte donne si
lasciarono sorprendere in abbigliamenti ed atteggiamenti non conformi alla dignità del visitatore e un fuggi-fuggi generale, rese deserte stanze e corridoi. Sembrava, però, che avessero lasciato sulle pareti le loro figure, poiché Minmose, il riproduttore reale d’immagini, nel dipingere scene di vita quotidiana del gineceo reale, le aveva maliziosamente rubate alla realtà.
Thutmosis, però, era lì solo per me e mia madre e la visita fu strettamente privata. La figura imponente, i contorni
energici del volto, gli alti zigomi e il mento arrotondato sotto la pelle abbronzata, mio padre avanzò nella stanza a lunghi passi e con un sorriso smagliante sulle labbra.
"Piccola sorella del mio cuore." disse chinandosi a sfiorarle le labbra piene di grazia; l'ombra che aveva appannato il verde smalto degli occhi di lei parve allontanarsi.
"Forse il mio Signore desiderava un figlio maschio da condurre con sé nelle battute di caccia." disse la
principessa, ma lui:
"Ammom-Ra è sceso sopra di noi." la rassicurò sorridendo.
Se anche avesse desiderato un maschio, in verità, mio padre non aveva motivo di lagnarsi: in questo Paese le figlie femmine sono preziose quanto e forse più dei maschi. Qui le figlie femmine sono "moneta di scambio" nei Trattati di Alleanza con altri Sovrani e… ma perché parlare di cose che dovrò riferire poi?
Dicevo che Thutmosis appariva soddisfatto; l'aureo usekh, luccicanti pietre preziose tagliate a forma
di gocce e tenute insieme da una maglia d'oro, splendeva intorno al suo poderoso collo. Lui se lo tolse e lo pose sul seno di mia madre poi si accostò alla culla a fianco del letto.
(continua)
IL FARAONE
Faraone: da dove arriva questo termine
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Il termine Faraone è la traduzione del greco PHAR-ON; traduzione, a sua volta, dell’antico termine egizio: PER-Aa, ossia, PALAZZO-DIVINO o CASA-DIVINA.
Il FARAONE, dunque, non era considerato DIO oppure Figlio di DIO (come nelle prime Dinastie), bensì: Incarnazione di DIO.
Il corpo del Faraone era, cioè, il “Palazzo” in cui viveva lo Spirito del Dio: il dio Horo, per la precisione, figlio di Iside ed Osiride, i quali, tutti e tre insieme, formavano la TRIADE o Sacra Famiglia… niente di nuovo sotto questo Cielo!
FARAONE: INCARNAZIONE DI DIO
Abbiamo, oggi, l’abitudine di indicare con il termine FARAONE, Sovrani come Keope o Sesostri, vissuti in epoca della storia egizia piuttosto lontana.
In realtà, quello di FARAONE è un titolo attribuito ai sovrani del Nuovo Regno e, secondo alcuni studiosi, precisamente a Thutmosis III, sovrano della XVIII Dinastia, 1.200 anni circa a.C.
Erano cinque i titoli attribuiti ad un sovrano al momento della sua incoronazione:
- Horo: il Falco Divino di cui il sovrano era la manifestazione in terra.-
- Le Due Signore: (Uadjet – Cobra e Nekhbeth - Avvoltoio) Dee del Basso e Alto Egitto
- Horo d’Oro (evocazione della vittoria di Horo su Seth)
- Colui che appartiene al giunco e all’ape (simboli del Sud e del Nord dell’Egitto)
- Figlio di Ra
Qual è il significato della parola Faraone?
E’ la traduzione, effettuata da un gruppo di studiosi ebrei ad Alessandria d’Egitto, dell’antico termine egizio Per-aat in Far-aw
Per-aat, letteralmente significa: Palazzo Divino
Per meglio comprendere il concetto esaminiamo i seguenti termini egizi:
- Hut: significa dimora in senso lato
- Per: significa, invece, dimora in senso fisico e materiale (casa, palazzo, edificio..)
- Mer : infine, è la dimora, sempre in senso fisico, del defunto (piramide, mastaba..)
Il corpo del Sovrano era, dunque, la “dimora” dello spirito di Dio: la sua incarnazione.
Egli era il tramite fra Dio e l’Uomo ed era la manifestazione della “ma’at” ossia l’ Ordine Cosmico Naturale. Era colui che esercitava il potere sugli elementi della natura ed in particolare sulle Acque, sulle Piene e sull’avvicendarsi delle Stagioni.
Le origini del concetto di Regalità Divina risalgono ai tempi preistorici.
A quell’epoca, però, che segnava la fine del Matriarcato e l’inizio del Patriarcato, quella di un Re era una vera lotta contro il tempo.
Quando il potere cominciava a mancargli, a causa di malattie o decadimento fisico, il Sovrano veniva ucciso e il suo sangue o le ceneri, venivano sparse sui terreni per favorirne la fertilità.
In verità, tale consuetudine era presente in tutte le società preistoriche e non solo in quella egizia.
Solamente in epoca storica, la cruenta usanza del sacrificio del Re fu sostituita da un rituale magico.
Consisteva, questo rituale, chiamato Festa “Sed” o Giubileo Reale, in una cerimonia attraverso cui il Re riusciva a recuperare le forze vitali.
Erano celebrate dopo i 30 anni di regno, ma assai spesso anche ad intervalli più ravvicinati.
La Cerimonia durava quattro o cinque giorni, durante i quali venivano innalzate cappelle alle Divinità Protettrici del Paese (la dea Cobra e la dea Avvoltoio) e il Faraone cingeva le due Corone: del Nord e del Sud del Paese.
Il rituale comprendeva offerte alle Dee e processioni, ma anche un prova di vigore da parte del Sovrano, il quale doveva procedere ad una corsa simbolica per quattro volte: i quattro punti cardinali entro cui era racchiuso il territorio del Regno.
Feste del Giubileo, in realtà, si celebrano ancora oggi: vedi la regina Elisabetta d’Inghilterra, vedi i Papi, ecc.
Il FARAONE, dunque, non era considerato DIO oppure Figlio di DIO (come nelle prime Dinastie), bensì: Incarnazione di DIO.
Il corpo del Faraone era, cioè, il “Palazzo” in cui viveva lo Spirito del Dio: il dio Horo, per la precisione, figlio di Iside ed Osiride, i quali, tutti e tre insieme, formavano la TRIADE o Sacra Famiglia… niente di nuovo sotto questo Cielo!
FARAONE: INCARNAZIONE DI DIO
Abbiamo, oggi, l’abitudine di indicare con il termine FARAONE, Sovrani come Keope o Sesostri, vissuti in epoca della storia egizia piuttosto lontana.
In realtà, quello di FARAONE è un titolo attribuito ai sovrani del Nuovo Regno e, secondo alcuni studiosi, precisamente a Thutmosis III, sovrano della XVIII Dinastia, 1.200 anni circa a.C.
Erano cinque i titoli attribuiti ad un sovrano al momento della sua incoronazione:
- Horo: il Falco Divino di cui il sovrano era la manifestazione in terra.-
- Le Due Signore: (Uadjet – Cobra e Nekhbeth - Avvoltoio) Dee del Basso e Alto Egitto
- Horo d’Oro (evocazione della vittoria di Horo su Seth)
- Colui che appartiene al giunco e all’ape (simboli del Sud e del Nord dell’Egitto)
- Figlio di Ra
Qual è il significato della parola Faraone?
E’ la traduzione, effettuata da un gruppo di studiosi ebrei ad Alessandria d’Egitto, dell’antico termine egizio Per-aat in Far-aw
Per-aat, letteralmente significa: Palazzo Divino
Per meglio comprendere il concetto esaminiamo i seguenti termini egizi:
- Hut: significa dimora in senso lato
- Per: significa, invece, dimora in senso fisico e materiale (casa, palazzo, edificio..)
- Mer : infine, è la dimora, sempre in senso fisico, del defunto (piramide, mastaba..)
Il corpo del Sovrano era, dunque, la “dimora” dello spirito di Dio: la sua incarnazione.
Egli era il tramite fra Dio e l’Uomo ed era la manifestazione della “ma’at” ossia l’ Ordine Cosmico Naturale. Era colui che esercitava il potere sugli elementi della natura ed in particolare sulle Acque, sulle Piene e sull’avvicendarsi delle Stagioni.
Le origini del concetto di Regalità Divina risalgono ai tempi preistorici.
A quell’epoca, però, che segnava la fine del Matriarcato e l’inizio del Patriarcato, quella di un Re era una vera lotta contro il tempo.
Quando il potere cominciava a mancargli, a causa di malattie o decadimento fisico, il Sovrano veniva ucciso e il suo sangue o le ceneri, venivano sparse sui terreni per favorirne la fertilità.
In verità, tale consuetudine era presente in tutte le società preistoriche e non solo in quella egizia.
Solamente in epoca storica, la cruenta usanza del sacrificio del Re fu sostituita da un rituale magico.
Consisteva, questo rituale, chiamato Festa “Sed” o Giubileo Reale, in una cerimonia attraverso cui il Re riusciva a recuperare le forze vitali.
Erano celebrate dopo i 30 anni di regno, ma assai spesso anche ad intervalli più ravvicinati.
La Cerimonia durava quattro o cinque giorni, durante i quali venivano innalzate cappelle alle Divinità Protettrici del Paese (la dea Cobra e la dea Avvoltoio) e il Faraone cingeva le due Corone: del Nord e del Sud del Paese.
Il rituale comprendeva offerte alle Dee e processioni, ma anche un prova di vigore da parte del Sovrano, il quale doveva procedere ad una corsa simbolica per quattro volte: i quattro punti cardinali entro cui era racchiuso il territorio del Regno.
Feste del Giubileo, in realtà, si celebrano ancora oggi: vedi la regina Elisabetta d’Inghilterra, vedi i Papi, ecc.
La famiglia: supporto indispensabile per un Faraone
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Il concetto di Dio-Re, in Egitto, andò mutando e perdendo potere fin dal Primo Periodo Intermedio. (seguito all’Antico Regno).
Durante il Nuovo Regno furono molti i Sovrani che conquistarono il potere attraverso guerre, lotte, intrighi di corte e non solo per nomina divina.
Ne consegue che un Faraone non sarebbe stato in grado di regnare se non avesse goduto di un grande sostegno: quello della famiglia.
E’ evidente, perciò, la necessità di un Sovrano di avere tante mogli, tanti figli, tanti fratelli e sorelle a sostenerlo.
Ramesse II aveva una ventina di mogli (tra Primarie e Secondarie) ed altrettante concubine, che lo resero padre di 200, circa, tra figli maschi e figlie femmine.
Funzionari, Dignitari di corte, Sacerdoti di massimo grado, generali… erano quasi sempre imparentati tra loro.
Il prescelto a sedere sul trono, non era necessariamente il primogenito, (non lo è stato quasi mai) ma quello designato dall’intero collegio familiare.
Così, Ramesse II, quartogenito di Sethy, fu fatto Faraone al posto del fratello primogenito il quale, però, non la prese molto bene e gli mosse guerra.
Anche Kafra (meglio conosciuto come Kefren) , divenne Faraone dopo che uno dei fratelli gli usurpò per una decina di anni il trono, mentre invece il fratello maggiore, il primogenito di Khufu, (Keope) fu suo fedele alleato.
Alleato e sostenitore, oltre che architetto e progettista nella costruzione della Grande Piramide, fu anche il fratello maggiore di Khufu (noto come Keope)
I matrimoni incestuosi dei Faraoni
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I MATRIMONI INCESTUOSI dei FARAONI Perché i Faraoni sposavano figlie e sorelle, praticando, così, l’incesto?
La domanda è legittima e la risposta pare scontata:
“Per preservare la purezza del sangue.”
Un fondo di verità c’è, in questo, ma ci sono anche altre cause: tradizione, politica, religione…
Sappiamo che l’Egitto non era il solo Paese a seguire tale consuetudine: il babilonese Abramo aveva per Sposa Primaria la sorella Sarai e l’ittita Suppilulumia, di sorelle ne aveva sposate addirittura due.
In realtà, in Egitto l’incesto era considerato un reato e come tale punito, ma solo per la gente comune.
Perché, dunque, quella pratica contro natura nelle Famiglie Reali?
In Egitto ( e non solo in Egitto) il trono si ereditava per via femminile: durante il matriarcato prima e in retaggio di tale sistema, dopo.
Era nelle vene della Grande Consorte Reale che scorreva il “sangue divino” ed era lei ad essere, da sempre, considerata “Figlia di Dio”. (basta dare uno sguardo alle iscrizioni del Tempio di Deir El Bahary, il Complesso Funereo di Huthsepsut, la Regina-Faraone)
La Grande Consorte Reale trasmetteva alla principessa ereditaria il suo sangue divino assieme al diritto al trono: questo, dunque, era “proprietà” della Grande Regina e passava in eredità a sua figlia.
Il principe ereditario, designato dal Faraone in carica, lo riceveva dopo un complesso cerimoniale che possiamo riassumere in tre momenti:
- Le Nozze Divine: tra la principessa ereditaria e il Dio Dinastico (Ammon, in questo caso), celebrate nel Tempio Dinastico di Karnak, a Tebe: uno dei misteri più impenetrabili dell’Antico Egitto.
- Le Nozze regali: della principessa e futura Regina con il principe ereditario
- L’atto sessuale: e il conseguente mescolamento di sangue.
Attraverso tale cerimoniale lo spirito del Dio-Dinastico passava dal corpo della principessa in quello del principe: il futuro Faraone. (Per-oa, ossia Palazzo Divino: il luogo in cui si incarnava la Divinità. Faraone, che vuol dire Incarnazione di Dio )
In teoria, ogni uomo poteva, sposando la principessa ereditaria, diventare Faraone.
Il pericolo di guerre dinastiche tra principi era reale ed elevato; non esisteva diritto di primogenitura, ma solo quello di designazione da parte del Faraone, anche se di norma ad essere designato era, ma non sempre, il primogenito.
Reale ed elevato era anche quello costituito da guerre di conquista da parte di stranieri.
Il Faraone in carica, dunque, alla nascita della principessa ereditaria le assegnava un marito: uno dei principi ereditari. Accadeva, però, anche che la prendesse in sposa egli stesso, in assenza di fratelli.
Così fece il faraone Amenopeth IV (conosciuto anche come Akhenaton), che sposò tutte e sei le figlie; Sua Maestà Sety I, invece, fece sposare due sorelle al suo successore designato: Ramesse II (che pure era già sposato con la bellissima ma molto borghese Nefertari)
Lo stesso fece il faraone Thutmosis I con il figlio Thutmosis II, che diede come marito alla celeberrima Huthsepsut, Regina-Faraone.
nota: si suppone che sia stato per impedire una guerra dinastica che la principessa Maritammon, figlia del più celebre Thut-ank-Ammon, abbia finito per sposare il generale Haremhab diventato, in seguito a ciò, Faraone: un Faraone usurpatore.
Come lo erano tutti i suoi discendenti: i Ramessidi.
La domanda è legittima e la risposta pare scontata:
“Per preservare la purezza del sangue.”
Un fondo di verità c’è, in questo, ma ci sono anche altre cause: tradizione, politica, religione…
Sappiamo che l’Egitto non era il solo Paese a seguire tale consuetudine: il babilonese Abramo aveva per Sposa Primaria la sorella Sarai e l’ittita Suppilulumia, di sorelle ne aveva sposate addirittura due.
In realtà, in Egitto l’incesto era considerato un reato e come tale punito, ma solo per la gente comune.
Perché, dunque, quella pratica contro natura nelle Famiglie Reali?
In Egitto ( e non solo in Egitto) il trono si ereditava per via femminile: durante il matriarcato prima e in retaggio di tale sistema, dopo.
Era nelle vene della Grande Consorte Reale che scorreva il “sangue divino” ed era lei ad essere, da sempre, considerata “Figlia di Dio”. (basta dare uno sguardo alle iscrizioni del Tempio di Deir El Bahary, il Complesso Funereo di Huthsepsut, la Regina-Faraone)
La Grande Consorte Reale trasmetteva alla principessa ereditaria il suo sangue divino assieme al diritto al trono: questo, dunque, era “proprietà” della Grande Regina e passava in eredità a sua figlia.
Il principe ereditario, designato dal Faraone in carica, lo riceveva dopo un complesso cerimoniale che possiamo riassumere in tre momenti:
- Le Nozze Divine: tra la principessa ereditaria e il Dio Dinastico (Ammon, in questo caso), celebrate nel Tempio Dinastico di Karnak, a Tebe: uno dei misteri più impenetrabili dell’Antico Egitto.
- Le Nozze regali: della principessa e futura Regina con il principe ereditario
- L’atto sessuale: e il conseguente mescolamento di sangue.
Attraverso tale cerimoniale lo spirito del Dio-Dinastico passava dal corpo della principessa in quello del principe: il futuro Faraone. (Per-oa, ossia Palazzo Divino: il luogo in cui si incarnava la Divinità. Faraone, che vuol dire Incarnazione di Dio )
In teoria, ogni uomo poteva, sposando la principessa ereditaria, diventare Faraone.
Il pericolo di guerre dinastiche tra principi era reale ed elevato; non esisteva diritto di primogenitura, ma solo quello di designazione da parte del Faraone, anche se di norma ad essere designato era, ma non sempre, il primogenito.
Reale ed elevato era anche quello costituito da guerre di conquista da parte di stranieri.
Il Faraone in carica, dunque, alla nascita della principessa ereditaria le assegnava un marito: uno dei principi ereditari. Accadeva, però, anche che la prendesse in sposa egli stesso, in assenza di fratelli.
Così fece il faraone Amenopeth IV (conosciuto anche come Akhenaton), che sposò tutte e sei le figlie; Sua Maestà Sety I, invece, fece sposare due sorelle al suo successore designato: Ramesse II (che pure era già sposato con la bellissima ma molto borghese Nefertari)
Lo stesso fece il faraone Thutmosis I con il figlio Thutmosis II, che diede come marito alla celeberrima Huthsepsut, Regina-Faraone.
nota: si suppone che sia stato per impedire una guerra dinastica che la principessa Maritammon, figlia del più celebre Thut-ank-Ammon, abbia finito per sposare il generale Haremhab diventato, in seguito a ciò, Faraone: un Faraone usurpatore.
Come lo erano tutti i suoi discendenti: i Ramessidi.
Brano tratto dal libro: VENTI di GUERRA
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Le donne del seguito e le sacerdotesse furono fatte allontanare dal campo. Io
ero con loro. Da una di quelle colline seguivo ogni movimento, ogni gesto,
ogni azione della truppa all’approssimarsi della battaglia: il balenare degli scudi
e dei pugnali, l’ordinarsi delle schiere, l’allinearsi dei carri, gli ordini degli ufficiali e del comandante supremo. Vidi avanzare il Faraone, con la pelle di leone appoggiata alla corazza. Appariva possente e divino; gagliardo come la pietra in cui si faceva riprodurre dallo scultore di corte. Non aveva più nulla dell’umile mortale prostrato davanti all’altare. In testa portava la Khepresh, il copricapo azzurro da condottiero, e con la destra reggeva la Khopesh, la spada ricurva.
Restai a guardarlo mentre andava verso il carro e vi saliva a bordo con un balzo.
Guardavo i due cavalli ittiti aggiogati e la loro irrequietezza resa smaniosa dal vino dato loro da bere e ammiravo il suo assoluto dominio su quelle splendide creature.
Furono distribuite le armi: asce, pugnali e corsetti di cuoio per i combattimenti corpo a corpo; lance, giavellotti, archi, frecce e scudi e corazze per gli assalti da lontano.
Sul campo calò il silenzio e il Faraone parlò alla truppa. Non potevo udire le sue parole, ma ne indovinavo gli accenti vibranti e gli sguardi ardenti mentre incitava, esortava, comandava, minacciava.
Vidi il suo giovane auriga, il principe Iteti, armato di ascia e pugnale, prendere posto al suo fianco e rimanere immobile e in attesa. Vidi, poi, il Faraone che si chinava sulla faretra appoggiata al parapetto di destra del carro e ne tirava fuori una freccia. Seguì immediatamente il segnale di Perpetew il trombettiere.
Iteti si chinò sull’asta a cui erano aggiogati i cavalli, afferrò le redini collegate al morso e tirò; sotto la bardatura, i muscoli dei nobili animali fremettero.
La truppa si allineò, davanti i carri e dietro i fanti; gli alfieri aprivano la marcia reggendo le insegne. Le trombe squillarono, precedendo il brusio e la marcia dei combattenti.
Per primi avanzarono i carri; seguì la fanteria: lancieri egiziani e arcieri nubiani; i primi con il perizoma bianco, le armature di cuoio e la lancia in resta, i secondi con il gonnellino di pelle, scudo e arco a doppia curva.
Gli avversari, disposti lungo un terrapieno davanti alle mura, erano già in attesa. Non lo udii, ma capii che il Faraone aveva dato l’ordine di attacco, non appena la truppa levò il grido di guerra. Subito dopo lo vidi lanciarsi in avanti con i suoi soldati, come il Dio delle Battaglie che trascina le sue armate.
Un nugolo di frecce partì immediatamente dal terrapieno e ricadde sul tetto formato dagli scudi alzati dei nostri arcieri. Seguì una seconda raffica di frecce e caddero i primi soldati; alcuni si alzarono, altri rimasero a terra.
Un leggero brivido mi attraversò la schiena; l’aria del mattino era assai fresca e il mio mantello troppo leggero, ma non era la brezza la causa del mio improvviso turbamento. Perché le donne non combattevano, mi domandavo. Di donne guerriere conoscevo solo un popolo, quello della terra di Colchide, che Hiram chiamava Amazzoni, ma mi chiedevo se non fosse anche quello un altro dei suoi fantastici racconti.
Lo scatto dei carri che partivano alla carica, l’urto dei fanti che sciamavano lungo i viottoli delle colline, le scarne mura brulicanti di uomini, simili a termiti guerriere fuori dal termitaio, riassorbirono la mia attenzione.
Alla testa dei nostri carri vidi Amenopeth al fianco del Faraone: sembravano entrambi l’incarnazione di Montu. Li attorniavano i “Bravi del Faraone” guidati dal valoroso Amenemhab.
Il principe ereditario combatteva da temerario. Era stato iniziato alle armi all’età di sei anni e sapeva guidare il carro da guerra, tirar di lancia e battersi col pugnale.
Amosis, aveva dodici anni e partecipava per la prima volta ad una battaglia.
(continua)
Le donne del seguito e le sacerdotesse furono fatte allontanare dal campo. Io
ero con loro. Da una di quelle colline seguivo ogni movimento, ogni gesto,
ogni azione della truppa all’approssimarsi della battaglia: il balenare degli scudi
e dei pugnali, l’ordinarsi delle schiere, l’allinearsi dei carri, gli ordini degli ufficiali e del comandante supremo. Vidi avanzare il Faraone, con la pelle di leone appoggiata alla corazza. Appariva possente e divino; gagliardo come la pietra in cui si faceva riprodurre dallo scultore di corte. Non aveva più nulla dell’umile mortale prostrato davanti all’altare. In testa portava la Khepresh, il copricapo azzurro da condottiero, e con la destra reggeva la Khopesh, la spada ricurva.
Restai a guardarlo mentre andava verso il carro e vi saliva a bordo con un balzo.
Guardavo i due cavalli ittiti aggiogati e la loro irrequietezza resa smaniosa dal vino dato loro da bere e ammiravo il suo assoluto dominio su quelle splendide creature.
Furono distribuite le armi: asce, pugnali e corsetti di cuoio per i combattimenti corpo a corpo; lance, giavellotti, archi, frecce e scudi e corazze per gli assalti da lontano.
Sul campo calò il silenzio e il Faraone parlò alla truppa. Non potevo udire le sue parole, ma ne indovinavo gli accenti vibranti e gli sguardi ardenti mentre incitava, esortava, comandava, minacciava.
Vidi il suo giovane auriga, il principe Iteti, armato di ascia e pugnale, prendere posto al suo fianco e rimanere immobile e in attesa. Vidi, poi, il Faraone che si chinava sulla faretra appoggiata al parapetto di destra del carro e ne tirava fuori una freccia. Seguì immediatamente il segnale di Perpetew il trombettiere.
Iteti si chinò sull’asta a cui erano aggiogati i cavalli, afferrò le redini collegate al morso e tirò; sotto la bardatura, i muscoli dei nobili animali fremettero.
La truppa si allineò, davanti i carri e dietro i fanti; gli alfieri aprivano la marcia reggendo le insegne. Le trombe squillarono, precedendo il brusio e la marcia dei combattenti.
Per primi avanzarono i carri; seguì la fanteria: lancieri egiziani e arcieri nubiani; i primi con il perizoma bianco, le armature di cuoio e la lancia in resta, i secondi con il gonnellino di pelle, scudo e arco a doppia curva.
Gli avversari, disposti lungo un terrapieno davanti alle mura, erano già in attesa. Non lo udii, ma capii che il Faraone aveva dato l’ordine di attacco, non appena la truppa levò il grido di guerra. Subito dopo lo vidi lanciarsi in avanti con i suoi soldati, come il Dio delle Battaglie che trascina le sue armate.
Un nugolo di frecce partì immediatamente dal terrapieno e ricadde sul tetto formato dagli scudi alzati dei nostri arcieri. Seguì una seconda raffica di frecce e caddero i primi soldati; alcuni si alzarono, altri rimasero a terra.
Un leggero brivido mi attraversò la schiena; l’aria del mattino era assai fresca e il mio mantello troppo leggero, ma non era la brezza la causa del mio improvviso turbamento. Perché le donne non combattevano, mi domandavo. Di donne guerriere conoscevo solo un popolo, quello della terra di Colchide, che Hiram chiamava Amazzoni, ma mi chiedevo se non fosse anche quello un altro dei suoi fantastici racconti.
Lo scatto dei carri che partivano alla carica, l’urto dei fanti che sciamavano lungo i viottoli delle colline, le scarne mura brulicanti di uomini, simili a termiti guerriere fuori dal termitaio, riassorbirono la mia attenzione.
Alla testa dei nostri carri vidi Amenopeth al fianco del Faraone: sembravano entrambi l’incarnazione di Montu. Li attorniavano i “Bravi del Faraone” guidati dal valoroso Amenemhab.
Il principe ereditario combatteva da temerario. Era stato iniziato alle armi all’età di sei anni e sapeva guidare il carro da guerra, tirar di lancia e battersi col pugnale.
Amosis, aveva dodici anni e partecipava per la prima volta ad una battaglia.
(continua)
Brano tratto dal libro: IL MISTERO della SCRITTURA
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Con il primo giorno del mese di Thot cominciò il periodo che per il resto della
mia giovinezza avrei ritenuto il più sereno e straordinario di tutta la mia vita:
quello che mi accostava alla scrittura, il più grande dei misteri.
Divenni una seba, un’allieva di Thot, e assieme ad altre ragazze fui ammessa a frequentare la Ot-seba, la Camera d’Insegnamento. In verità, le nostre sebau, le maestre sacerdotesse, o nebef, come preferivano farsi chiamare, per rafforzare nei nostri spiriti il loro ruolo di superiorità, preferivano tenere le lezioni all’aperto, in giardino.
Sedute in circolo intorno alla maestra, seguivamo le lezioni all’ombra di un sicomoro e al termine andavamo tutte all’assalto dei
frutti di cui l’albero era carico; maturi e succosi, in quella stagione. Quanta emozione, quel primo mattino, quando ci consegnarono gli attrezzi per scrivere: la tavoletta di legno ricoperta di gesso, la tavolozza con i colori rosso e nero, la borsa con l’acqua e la penna in stelo di papiro. Ci misero tra le mani anche il “Libro di Menit”, un sussidiario per imparare a leggere e scrivere, pieno di segni, disegni e linee strane e contorte: i medu neter, i “geroglifici”, che per noi non avevano ancora alcun significato.
Per realizzarli bisognava copiarli e ricopiarli. A lungo e con infinita pazienza. Occorreva raggiungere
grande precisione perché a distinguere un segno dall’altro poteva essere anche un minimo dettaglio apparentemente insignificante. La più piccola inesattezza poteva creare confusione.
Nella rappresentazione di un’anatra, ad esempio, la coda più sottile poteva dare al segno un suono e un significato diverso. Non era
davvero facile né semplice impadronirsi del potere magico della parola scritta.
Tutte quelle regole, la composizione dei segni, la loro pronuncia, i loro molti significati, finivano a volte per creare nelle nostre testoline una gran confusione.
Qualche volta mi chiedevo se non ci fossero accorgimenti che contribuissero a rendere un poco più agevole la lettura e perché mai Thot non mi venisse incontro con un sistema più semplice.
Ero felice. Ero felice di sciogliere enigmi che per molti erano pericolosi o addirittura proibiti; felice che il velo di quel mistero si stesse squarciando per mostrarmi tutte le sue meraviglie.
Come un vero scriba, mi affezionai ai miei strumenti di scrittura che tenevo sempre puliti e ordinati così come un medico
con i suoi strumenti chirurgici.
Non tutte, però, incontravano le stesse difficoltà. Alcune di noi riuscivano a scrivere con tanta perfezione, come la mia amica Shannaz, da far pensare che fosse nata con un papiro in mano, ma per altre era difficile perfino reggere correttamente la penna. Come Nofret, che aveva fama di essere distratta e pasticciona e con la mente costantemente occupata a inseguire sogni e fantasie
fuori da quelle mura.
“Perché sei venuta qui se ami tanto startene lontana?” le chiesi..
“Nella mia famiglia ci sono sempre state ragazze destinate a servire la dea Hathor.- mi rispose – Così nella casa di mio padre e prima ancora nella casa di suo padre e del padre di suo padre. La sorte è toccata a me, ma io farei volentieri a meno di riempirmi la testa con questi segni incomprensibili.”
Nofret era la figlia minore di Menkperreseneb, Primo Profeta di Ammon e vecchio amico del Faraone; era, dunque, nipote della nutrice reale Tayun, la qual cosa le dava diritto di rivolgersi con familiarità a un membro della famiglia reale.
In verità, quasi tutte le ragazze al Santuario, dopo i primi timidi approcci, avevano finito, con disappunto della sacerdotessa Kara, per rivolgersi a me con rispetto ma familiarmente. Non sarei stata certamente io a mortificare quello che ognuna di loro considerava un onore inaspettato. Quanto a Nofret, proprio per quella specie di parentela di latte con la famiglia reale, era riuscita a farsi
assegnare il posto accanto a me nella Ot-seba. Per questo motivo mi capitava di sbirciare sulle sue tavolette e di riscontrarvi la gran quantità di errori; come la volta in cui, dovendo fare un esercizio di composizione, ci fu ordinato di scrivere una frase d’elogio al Faraone.
Invece di scrivere Sa-ra, che significa “Figlio di Ra”, e utilizzare il segno dell’anatra, che nella scrittura corrisponde alla parola Sa, “figlio”, Nofret disegnò un passero che, piccolo e distruttore, serviva a rappresentare il segno del male.
“Gli Dei ci liberino da simile flagello.” scherzai.
Qualcuna delle ragazze tentò di riderci sopra, ma la maestra ci ammonì tutte, assumendo un tono assai severo:
“Capite adesso l’importanza della scrittura, figlie mie? I medu neter, sono “bastoni divini” a cui potrete appoggiarvi per meglio percorrere la vita che vi attende.”
Per giorni facemmo pratica di “parole divine”, ripetendo quelle più difficili e imparando a memoria quelle d’uso comune. Quando fummo in grado di leggere e di copiare correttamente ogni segno della scrittura dei sacerdoti,
passammo ai Testi Classici e agli Scritti Sapienziali degli antichi Saggi.
Ogni parola, ogni verso degli “Ammaestramenti di Imhotep”, degli “Insegnamenti di Pthahotep” o delle “Lamentazioni di Ipu-ur”, ci divennero familiari e facili come i nostri stessi nomi.
Mi ritrovai a consumare il tempo copiando e ricopiando massime moralistiche che avevano un triplice scopo: farci apprendere l’uso della scrittura, temprare il nostro carattere e assicurare al Tempio cospicui guadagni dalla loro vendita.
“Raddoppia il pane che
brano tratto dal libro: LE INSIDIE del DESERTO
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immagine di Agar e Ismaele nel deserto - di F. J. Naves
Lasciai Mambre quello stesso giorno. Nell'accomiatarmi dalle donne e ad Abramo, che assicurava per me e mio figlio
la protezione del suo Dio, risposi che non ne avevo bisogno. A lui che piangeva il figlio che stava scacciando, dissi che il suo era un pianto che non lavava la colpa.
Scortati da un gruppo di pastori guerrieri con il compito di accompagnarci fino alla pista del Sinai, dove era accampato l'esercito egiziano, una volta ancora mobilitato in Siria, Abramo ci lasciò andare, me, Ismaele e Shannaz.
In una bisaccia appesa al dorso di un asino c'era il necessario per affrontare un viaggio che, secondo le sue previsioni, doveva essere breve e senza pericoli.
Conteneva acqua, cibo, coperte, ma anche sacchetti con medicamenti contro punture d’insetti, serpi e scorpioni, che il giovane Kaleb aveva preparato per noi.
Superammo le querce e i magri campi di grano maturo e prossimo alla mietitura. Prima di mettere piede sulla strada polverosa e gialla, guardata a vista da scheletriche sentinelle che tendevano al cielo i rami secchi e magri, congedai la scorta. Qualche timida protesta e gli uomini di Abramo ci lasciarono in quella terra desolata che non ero riuscita mai ad amare.
Nell'allontanarmene, cercavo soltanto l'oblio, che è il miglior rimedio contro ogni sentimento. Cercavo la malinconia, quella profonda e piena, che non ama essere consolata e che aspetta di esaurirsi in se stessa.
"Andiamo, madre." disse Ismaele afferrando la corda che legava l'asino e insieme affrontammo il cammino.
Da lontano giungevano angosciosi latrati: qualche sciacallo in cerca di cibo.
Ismaele d'istinto pose mano al coltello in metallo ittita. Era un dono del Faraone e il suo valore era dieci volte superiore a quello dell'oro. Abramo ne aveva fatto ricoprire il manico con una foglia d'argento, secondo l’uso mitanne.
“Non angustiarti, madre.- m’incoraggiò - Raggiungeremo presto l’avamposto egiziano e il nostro amico Osor avrà cura di noi."
Le sue parole parevano rotolare sulle sabbie come sassi roventi. Non erano di rimprovero per il padre, ma solo di sollecitudine nei miei confronti. Ma io non ero angustiata.
“Presto sarò a Tebe! Presto sarò nuovamente a casa insieme a mio figlio.” continuavo a ripetermi.
In realtà, non sapevo davvero cosa sarebbe accaduto d’ora in avanti. Il futuro è un'ombra sbiadita che precede il cammino di ognuno di noi.
Nella vita ci si separa per prendere strade diverse. A volte si torna, a volte no. Quali immagini, quali ombre, quali sogni, quali delusioni ci sarebbero venuti incontro dal futuro? Chi parte e non è ricordato, chi muore e non è rimpianto, chi torna e non è riconosciuto, è come colui che non è mai nato. Cosa sarebbe stato di noi? Chi mi avrebbe riconosciuto, a Tebe?
"Madre..."
Ismaele mi richiamò al presente e mi bastò uno sguardo attento su quanto ci circondava per capire che avevamo smarrito la strada per la pista del Sinai. Il deserto non offre punti di riferimento, come la campagna o la città. Perdersi è
facile. Miraggi di cose in lontananza, sfocate e fluttuanti, distorcono la realtà e la dimensione delle cose. Lasciarsi catturare dai meandri di visioni ed illusioni, è molto facile.
Continuammo a vagare. Intorno a noi il silenzio assoluto era rotto solo dal rumore della sabbia smossa dal vento. In alto nel cielo, sopra le nostre teste, il sole picchiava implacabile. Vagammo come la sabbia ed insieme alla sabbia, che costruiva e demoliva cumuli e piccole dune, secondo il capriccio del vento; una sabbia sottile e rovente, che penetrava ovunque: nei sandali, sotto le vesti, tra i capelli e perfino in bocca tra i denti.
"Ho sete, madre." Ismaele rallentò il passo.
Shannaz fermò l'asino e staccò un orcio dalla soma; l'acqua al suo interno era dimezzata, la sabbia era entrata pure là dentro e dal becco usciva mista all'acqua. Cercai nella tasca del mantello qualcuno dei chicchi di sale che Keturah vi aveva messo assieme ad un amuleto e purificai l'acqua prima di porgerla a Ismaele.
Lui avanzava a capo chino e senza un lamento. Lo avvolsi col mantello e lo guardai procedere, quasi soffocato dalla trama fitta di quel grezzo tessuto di lana, ma protetto da tanta ingiuria.
Anche io e Shannaz ci coprimmo il capo con un telo di lana grezza; l'asino avanzava dondolando e Shannaz dondolava dietro di lui, aggrappata ad una delle bisacce.
“Ci siamo persi, madre?” domandò Ismaele girandosi verso di me; il mio silenzio gli fu eloquente.- Non temere, madre. - mi sorrise rassicurante – Non temere. Ritroveremo la pista.”
Non trovammo piste. Ad ogni passo il deserto, aspro e irrequieto, arso e rischioso, andava inghiottendoci come in un ventre ingordo. Sparse ovunque, intorno a noi, c’erano carcasse di animali e ossa spolpate. Forse umane. Il vento dopo un pò cessò di tormentarci, ma la calma che ne seguì, assoluta e quasi innaturale, mi spaventò ancora di più. L'aria calda che si levava dal suolo diventava rovente e la luce accecante. Un’ombra, d’improvviso, si materializzò
CONTINUA...
Brano tratto dal Libro. DIVENTARE ADULTA
Venne a distrarmi il pensiero del banchetto che le donne stavano preparando per festeggiare l'avvenimento.
Stavo osservando le ancelle che adunavano sui tavoli gli ingredienti per i dolci rituali quando vennero ad avvertirmi che mi si doveva acconciare per il banchetto. Venne una piccola folla: Iter, Nefrure, Subad, Nefer, Maritammon e le altre, tutte giulivamente cicalanti e tutte con un dono per me.
Il primo impulso fu di fuggire, ma non c'era alcuna possibilità di sottrarsi all'avvenimento e così mi concessi loro con rassegnazione e l'espressione di una prefica.
Oltre al prodigioso unguento messo a punto dal Profumiere reale, la regina Meritre mi aveva inviato un altro dono: Tanit e Carite, due ancelle con il compito di occuparsi della mia persona.
Si misero subito al lavoro.
Tanit aveva pressappoco la mia età. Forse più giovane di un anno o due.
Piccola e minuta, aveva un visetto dai lineamenti delicati e un sorriso radioso; l’espressione era assai dolce e nello sguardo brillava un pizzico di vivacità e di malizia. Troppo giovane per avere un incarico nella cura della toeletta della mia persona, le fu dato un ventaglio di piume di pavone affinché ci liberasse un po’ dalla calura ancora assai grande di quegli ultimi giorni d'estate.
Carite, che avevo già visto da lontano al Santuario Dinastico al servizio personale della regina Meritre, mostrò doti di gusto e raffinatezza sia nel drappeggio delle vesti lungo il corpo, che nella combinazione degli accessori.
Aiutò Merit a scegliere le lacche per le unghie dei piedi e delle mani, poi mi sistemò sulle spalle e lungo i fianchi, le pieghe del calasiris, leggero e trasparente, che mi fu fatto indossare sopra la tunica aderente.
In verità, nel sistemare le maniche della veste e nel lasciare le braccia e il collo scoperti per i gioielli, Carite suggerì di lasciare scoperto anche il seno.
“I tuoi seni, principessa Agar, sono ancora piccoli, ma di bella forma.” disse porgendomi una ciotola di latte e aggiunse:
“Bevi! I tuoi seni cresceranno turgidi e rigogliosi e saranno la gioia degli occhi che li guarderanno.”
Avvampai. Alle parole e all’idea che qualcuno potesse ancora violare l’intimità appena recuperata.
“Bevilo tu.- risposi in tono acido respingendo la ciotola con un gesto brusco della mano - Nessuno sguardo riuscirà mai più a penetrare sotto le mie vesti.”
Scoppiarono tutte a ridere.
“Oh! Qualcuno lo farà, mia piccola Dea.- rispose lei deponendo il latte su un tavolino dove c’erano tutti gli arnesi per il trucco - Qualcuno lo farà e non è escluso che la cosa possa piacerti.”
“Ah,ah,ah...” continuavano a ridere tutte.
“Smettetela! Smettetela di ridere e ghignare.- gridai esasperata alle donne e a
Carite dissi - Quanto a te, bevilo, il tuo latte e mettiti in mostra se la cosa ti piace tanto.”
“Oh! - fece lei con un sospiro - Io sono vecchia e le mie armi sono ormai spuntate e non riescono più a concupire un uomo.”
“Non sei più giovane - interloquì Tanit - ma sei ancora assai piacente, a mio avviso, Carite. Sono sicura che qualche vecchio e glorioso guerriero non disdegnerebbe, ah,ah,ah... di mettersi a riposo sul tuo seno ancora rigoglioso.”
“Le mie battaglie le ho combattute tutte, mia cara. Adesso tocca a te e alla principessa Agar. – Carite sospirò ancora - Presto verranno principi stranieri a chiederla in sposa.”
“Ecco perché - riprese Tanit - bisogna che la pelle della nostra principessa sia ben chiara e levigata.” e indicò le ginocchia sbucciate e i gomiti dalla pelle ruvida.
“Lasciate in pace la piccola.- inteloquì Merit venendomi in sostegno, ma anche lei sorrideva. - Avrà tempo per certe cose. Che si goda questa
Qualcosa di buono in quella giornata, dovevo ammetterlo, c’era davvero: le attenzioni, i doni. Tanti doni: dolcetti, fiori, anelli e bracciali. Due, fra tutti, mi furono particolarmente graditi: la bambola, con cui Merit mi fece capire che per lei sarei rimasta per sempre la "sua bambina" e il prezioso Nodo di Hathor con cui la mia cara Nefrure mi augurava fortuna.
Come erano le donne adulte, continuavo a chiedermi.
Non conoscevo altre donne che quelle del gineceo, ma sapevo che tutte le altre, tessitrici, mugnaie o spigolatrici, nel lavoro non erano affatto seconde agli uomini e non lo erano neppure nella condizione sociale. Merit mi ripeteva sempre che per questa ragione potevamo ritenerci fortunate, noi donne egiziane, rispetto alle donne straniere. Quando al gineceo giungeva una straniera, questa si mostrava sempre sorpresa nel costatare come in Egitto una donna potesse difendersi davanti ad un giudice, ereditare beni o lasciarli in eredità, amministrare proprietà private o pubbliche ed altre cose ancora, esattamente come facevano gli uomini.
Intanto mi chiedevo quali fossero, per una donna adulta, le consuetudini da rispettare, i ruoli da ricoprire, i compiti da svolgere. Tutte le donne adulte che conoscevo non avevano che un pensiero: piacere ad un uomo, giacere con lui e dargli dei figli.
Perfino la Grande Consorte Reale.
Sposarsi! Era questo l'imperativo principale d’ogni ragazza. Sposarsi! Tutte le donne che conoscevo erano contente di sposarsi e non facevano che parlare di matrimonio, di uomini, di figli. Bastava ascoltare le conversazioni di Iter, Nefrure, Maritammon e perfino Nefer, la piccola Nefer. E delle ancelle, naturalmente. Da qualche tempo, però, mi chiedevo se anche per i maschi diventare adulti significasse qualcosa. Da quando, abbracciando Amosis, avevo scoperto la sua diversità, un improvviso, insospettato interesse in quella direzione cominciava a crescere dentro di me. Il desiderio di scoprire, di saperne di più su quel mistero, faceva salire in me l'empito di una strana eccitazione anche se il solo pensiero, per un inconscio pudore, mi copriva il volto di rossore.
Forse sposarsi non era poi così terribile, ma di sicuro non era un negozio adatto a me. Io mi sentivo votata a qualcosa di mirabile. Io volevo sfuggire all'ordine precostituito delle cose e delle azioni.
Sapere, invece, di essere prigioniera delle consuetudini, sapere di essere destinata a qualche principe alleato straniero, mi faceva sentire come la scimmietta di Nefrure.
Forse, se fossi stata un maschio... I maschi avevano il potere, avevano lalibertà. Con la scusa di farsi la guerra, andavano in giro per il mondo... ma, forse era solo il gran mal di pancia...
brano tratto dal libro A G A R di Maria PACE
Branotratto dal libro: Una Sposa per il Faraone
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/9062164.jpg?387)
immagine di A, Bridgman
C'era sempre un certo subbuglio per l'arrivo di una nuova Sposa del Faraone.
“Perché - chiesi in piena innocenza, affondando i dentini in una frittella ancora
fumante - il Faraone desidera un'altra sposa?"
"Perché un sovrano deve avere molte figlie e molti figli." spiegò Iter assumendo un'irritante aria di sussiego.
"Non gli bastano i figli e le figlie che ha già"
"Che domande mi fai?” m’interruppe lei sbuffando ed agitando il capo, il che fece tintinnare gli orecchini d'oro ornati di lapislazzuli, che sparsero una luce azzurrina sulla sua carnagione bruna ed olivastra.
“Vieni.- riprese - Andiamo a vedere da dove arriva questo frastuono. Sarà certamente il corteo della principessa Subad."
Si accostò alla ringhiera della terrazza e si sporse in avanti per guardare di sotto.
La imitai subito e intanto continuavo a chiedermi con infantile ostinazione perché mai a un Faraone servissero tanti figli e tante figlie.
Mi chiedevo anche come facesse il vecchio Pentaur, il Direttore degli appartamenti del gineceo reale, a sistemare tutte le ragazze e le principesse, egiziane e straniere, che continuavano a giungere qua. Sentivo continuamente ripetere quale grande onore, fosse per qualunque ragazza essere scelta per entrare a far parte del gineceo del Faraone, ma mi chiedevo come si potesse
offrire loro una degna sistemazione.
Forse se lo chiedeva anche Pentaur, e perfino lo stesso Faraone, dal momento che ogni tanto qualcuna lasciava quella
prigione dorata per andare sposa a quel valoroso soldato o questo fedele funzionario.
La principessa Subad comparve tra le colonne che reggevano il giardino pensile e scomparve subito dopo, seguita dal corteo nuziale. Ricomparve poco dopo tra le palme della terrazza.
Tra i molti doni per il Faraone, la principessa ittita aveva portato anche centocinquanta bellissime fanciulle che avrebbero arricchito di grazia l'harem reale e recato gioia al Signore di Tebe.
Erano così graziose, assicurò il funzionario di corte Pentaur, che sicuramente il Faraone avrebbe commemorato il gioioso l’evento.
Due occhi spauriti, un viso trasudante stanchezza, l'espressione oppressa da sguardi critici e curiosi, Subad non aveva davvero nulla di regale, nonostante lo sguardo altezzoso e la fronte altera.
L'accompagnava la regina Meritre, che per l'occasione aveva indossato la veste da sacerdotessa dell’Ipet, la Signora del gineceo, aderente e lunga fino alle caviglie; ai piedi portava sandali dorati.
Sicura di sé, lo sguardo rapace sotto la parrucca ad ali d’avvoltoio, l'acconciatura delle regine, la Grande Sposa Reale
ostentava il suo ruolo e la sua potenza nel gineceo e sulle altre Spose Reali.
Sorrideva alla giovanissima rivale, con cordialità e quasi tenerezza. Senza più l'inquietudine che traspariva dal suo volto, tutte le volte che, nei giorni scorsi, si pronunciava il nome della nuova sposa del Faraone.
Negli ultimi tempi Meritare era diventata assai esigente con se stessa. Per conservarsi giovanile, si sottoponeva a vere torture con massaggi e creme. Le sperimentava apposta per lei il suo profumiere e le garantivano una pelle morbida e senza rughe. Gli splendidi recipienti per il trucco, decorati per lei da artisti di corte con scene erotiche ed amorose, negli ultimi tempi andavano
continuamente aumentando di numero.
Iter mi spiegò che nostro padre aveva stretto alleanza col re ittita e mosso guerra al popolo di Naharim, che molti chiamano anche Mitanni.
Come farà a dare figli e figlie al Faraone, mi domandavo osservando Subad: era lei stessa una bambina e il principe Amosis la superava in altezza di quasi mezzo palmo. Subad mi passò vicino e mi guardò dal basso verso l'alto, rovesciandomi
addosso uno scroscio di altezzosità.
Subad non mi piacque. Nè io piacqui a lei!
(continua)
Brano tratto dal libro: Sulla via di Mambre
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/4090735.jpg?338)
SULLA VIA PER MAMBRE
Proseguimmo senza interruzioni per tutto il giorno, salvo brevi soste perabbeverare il bestiame; di rado, ma si scorgevano ancora le sagome delle capanne e i recinti di qualche villaggio lontano.
I bambini più piccoli riuscivano ad inventare nuovi giochi e le loro grida gioiose scandivano il tempo. Anche i più grandicelli parevano
divertirsi, ma cercavano al contempo di rendersi utili conducendo per mano gli animali o rincorrendo e recuperando quelli che tendeva a staccarsi dalla colonna per brucare i radi cespugli che spuntavano lungo i letti asciutti dei torrenti. Perfino gli adulti parevano affrontare con entusiasmo quel viaggio.
Keturah continuava a parlare di valli dove il latte e il miele scorrevano a fiumi e dove l’acqua scendeva copiosa dal cielo. Io, però, vedevo solo pietre, pietre e ancora pietre. Vedevo bassi cespugli e secchi arbusti contendersi l’umidità della rugiada del mattino e immaginavo quello che doveva succedere in mancanza di piogge autunnali e rugiade primaverili. Non volevo contraddirla, però, né mortificarla con alcunché. A questo ci pensava Sarai, gelosa del suo ventre fecondo: Keturah mostrava i segni di una nuova
gravidanza..
Ammon colorava il cielo di rosso, ma le ombre attesero ancora, prima di invadere la valle di Gerar. Abramo diede l’ordine di fermarsi.
Ci accampammo per la prima notte di bivacco, al riparo dei carri adunati a circolo e protetti da uomini armati; intorno a noi molti fuochi di sterco animale fendevano l’oscurità.
Guardavo la mia nuova gente che innalzava tende, raccoglieva mandrie e greggi per l’abbeverata. Alcune donne si erano allontanate alla ricerca di arbusti e legna da ardere e altre preparavano la cena: carne bollita e focacce di miglio. Altre erano occupate a mungere mucche, pecore e capre; accovacciate per terra con le ciotole tra le gambe, ridevano e scherzavano.
Guardavo i loro volti ingiuriati dal sole, affaticati dal viaggio, ma sereni e fiduciosi. Li guardavo e cercavo serenità anch’io.
Era davvero una grande tribù, pensavo, quella che Abramo aveva messo insieme: gente venuta con lui da Nahor, servi comprati ad
Harran, altri avuti in risarcimento a Gheon e poi egiziani, cananei e perfino il gruppo di Shasu.
Mi chiedevo, guardando tutta quella gente, quali regole avrebbe adottato Abramo per imporre disciplina e moralità a un popolo così stranamente assortito.
Il silenzio assediava le tende, ma la notte aveva una voce misteriosa e fonda, che arrivava ovattata attraverso l’imbocco aperto. I miei occhi inseguivano le immagini che da quello spiraglio riuscivano a rubare: immagini di uno spettacolo magico che solo la notte del deserto, nera come la pece e striata di blu, sapeva confezionare.
Ero inquieta e non riuscivo a prender sonno; i piedi mi dolevano e gli occhi mi bruciavano, cosicché, l’alba mi colse ancora sveglia e più stanca di quanto non fossi stata la sera prima.
La carovana si destò col grigiore che precede l’alba. Gli uomini radunarono il bestiame e disposero i carri in assetto di marcia; Seir dette il segnale di partenza e la colonna si mosse.
Seir era il primogenito di Abramo, avuto da una concubina prima di lasciare Ur, ma Sarai, molto gelosa dei figli di Keturah, mostrava per lui la più assoluta indifferenza. Forse perché lo stesso Abramo, pur amandolo e stimandolo molto, non essendo il suo erede, non lo teneva in sufficiente considerazione. O, forse, considerava di nessuna minaccia per il suo prestigio di sposa primaria, il grembo da cui era uscito. Nessuna tra le mogli secondarie di Abramo poteva vantare diritti di ereditarietà per i figli.
Ultimamente, però, Abramo aveva espresso l’intenzione di nominare suo erede Elezier, figlio di un fidato consigliere. Sarai sapeva che si trattava solo di uno sfogo, ma temeva che ubbidendo alle consuetudini della sua terra, Abramo finisse per scegliere uno dei figli avuti da Keturah. Zimram, forse, il primogenito.
Sarai temeva soprattutto che la principessa cananea la insidiasse nel ruolo di “Grande Madre”: Sarai non aveva concepito figli.
Marciammo per alcuni giorni. Intorno a noi c’era solo deserto, una distesa grigia e pietrosa, ben più desolata e riarsa della Terra
d’Occidente, in Egitto; niente vegetazione, all’infuori di radi e bassi arbusti dal fusto contorto.
Attraversavo quella terra solo da qualche giorno e già rimpiangevo Tebe, verde di palmizi e canneti. Dovetti ammettere, però, che c’era un fascino inquietante in quel mondo aspro ed esercitava sul mio spirito un’attrazione misteriosa: quello spazio immenso, interrotto solo da crostoni di roccia in lontananza, mi suggeriva il senso e la misura della libertà.
Giorno dopo giorno, a piedi o su un carro, la notte a guardare le stelle, finii sorprendentemente con l’abituarmi a quel ritmo di vita. Le
piante dei sandali avevano cominciato ad assottigliarsi e le vesti erano sempre impolverate e attaccaticce. Ben presto le cosce divennero arrossate e doloranti; Keturah mi dette un unguento con cui spalmarle. Esposta al sole, la pelle di volto e braccia, prima si arrossò e poi si colorì di un sano bruno-dorato di cui cominciai ad andare orgogliosa: del pallore del gineceo paterno non c’era più
nemmeno il ricordo; anche i capelli diventarono presto più forti e lucenti, nonostante non avessero più le cure riservate loro a Tebe.
In verità, non ero io la sola a subire quei cambiamenti. Sarai e tutte le donne di Ur e Harran, avevano perso quell’incarnato roseo, così
apprezzato a Tebe, Con quel leggero velo bronzeo sui volti e sulle braccia, però, avevano tutte, a mio parere, un aspetto sano e florido..
Brano tratto dal libro
... Togliere a una madre il figlio...
.
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/8450076.png?377)
Due mesi dopo misi al mondo la mia creatura.
Era un maschio e gli fu dato il nome di Ismaele, che significa: "Il Signore ha esaudito", proprio come il mio amatissimo Amosis mi aveva predetto la notte in cui avevo lasciato Tebe.
Fu tutto come un sogno: il sorriso di Abramo, i doni di Sarai, il mio pianto di gioia. E poi, il ventre vuoto, il seno gonfio, il cuore triste.
Nella profonda tristezza che nasceva da un dolore nuovo e nel rimpianto che veniva dalla rinuncia, scoprii la solitudine alimentata dal rancore.
Partorii sulle ginocchia di Sarai; lei stessa aveva reciso il cordone ombelicale e per questo mio figlio le spettava di diritto:erano le consuetudini.
Di tutte le consuetudini che Abramo aveva spezzato, di quelle portate dalla Terra di Nahor, quella che permetteva ad una donna di portar via il figlio a un'altra donna, continuava a resistere.
A Tebe no! A nessuna madre sarebbe accaduto mai: Hathor l'avrebbe impedito!
Sarai reclamò il suo diritto di Grande Madre del popolo di Jhwh.
La guardavo, mentre recideva il cordone che ancora legava mio figlio alla mia carne. Era di nuovo bella; quasi come mi era apparsa nel giardino del principe Abimelech, ma più radiosa. I simboli della dignità matriarcale, trionfavano sul suo petto e sulla fronte. Il volto, felice ed appagato, era il volto di una donna diventata madre.
"Il mio bambino.- disse tendendo le braccia verso mio figlio - Guarda il mio bambino, Agar, sorella mia."
"Non chiamarmi Agar. - proruppi - Non chiamatemi mai più Agar, che vuol dire Gioia..Chiamatemi Mara:... Amarezza."
Lei mi fece una carezza e si allontanò col frutto del mio grembo ed io mi sentii il più spoglio degli arbusti e il più solitario dei loti.
Le facce mute della gente, il deserto grigio, il cielo, il silenzio, parevano attendere le mie grida di dolore.
Nelle notti che seguirono, la clessidra accanto alla stuoia chioccolava lenta e ogni goccia mi teneva sveglia e teneva sveglia la mia pena alimentata dal dolore. Un dolore nuovo; diverso da ogni altro dolore patito prima. Diverso da quello per i bimbi della fornace del Santuario di Hathor; diverso da quello per la morte di Amosis e di Merit; diverso anche da quello per la perdita di Hiram: era il dolore che tiene vivo il mondo!
Cosa è il Nilo, se non le lacrime di dolore di Iside per lo smembramento del corpo di Osiride? E non è, forse, una vena aperta sul corpo di Hapy?
Anche il mio corpo e il mio spirito sanguinavano come il Nilo.
Il dolore sprofondò nel rancore e mi aggredì lo spirito come un insetto attacca le radici delle piante nella stagione secca.
Non sentivo più il canto degli uccelli e le tende del campo mi parevano vele alla deriva.
Ne fui atterrita. Conoscevo la devastazione di quel sentimento. Gli oscuri fantasmi, generati in me dagli Dei di Ugarit, di Gerar e perfino dal Dio di Abramo, insidiavano ancora la parte più profonda del mio spirito, ma io decisi di deporre rancori e atteggiamenti di ribellione.
Fu per questo, forse, che Sarai mi concesse di allattare il mio bambino.
Mentre porgevo il seno al mio piccolo, che mi trafiggeva il cuore col suo sguardo innocente, mi domandavo se ero proprio io quella donna sottomessa.
Dov'era andata a nascondersi la principessa di Tebe, che seguiva il volo degli ibis sognando di volare un giorno con loro?
Ma non c'erano ibis a Mambre, solo corvi e civette.
Personaggi - Fatti - Curiosità
La regina Hutsepsuth
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Huthsepsut – la Regina-Faraone
Questa figura di Regina ha sempre affascinato studiosi e scrittori e di lei si è molto discusso e si continua a farlo. Dei fatti che la riguardano, la versione più attendibile ed universalmente accettata da studiosi ed egittologi è, forse, quella che segue.
Figlia del faraone Thutmosis III, della XVIII Dinastia, sposò, come consuetudine, il fratello Thumosis II. Alla morte di questi, essendo l’erede, il futuro, grande faraone Tutmosis III, ancora troppo giovane per governare il Paese, la Regina ne assunse la Reggenza.
Huthsepsut, però, non si accontentò di questo ruolo e quel che seguì fu uno degli esempi di intrighi di corte più clamorosi della storia.
Attraverso una messa in scena assai teatrale, occupò il trono senza colpo ferire e vi regnò per più di 20 anni come Regina-Faraone. Un mattino, mentre officiava in onore del dio Ammon, questi le apparve e, fra tuoni, fulmini e saette, così proclamò (pressappoco):
“In Te voglio compiacermi, figlia mia. Da oggi il tuo nuovo nome sarà Kem-hut-Ra: Colei che regna su Kem (Egitto) con il favore di Ra.”
Donna bella, colta e ambiziosa, era dotata anche di una acutezza politica e molte furono le riforme sociali da lei introdotte nel Paese. Era anche molto coraggiosa. Si narra che da bambina il padre la portasse spesso a caccia con sé.
Nell’assumere il potere, (si dice) si attaccò alla schiena la coda del leone da lei stessa cacciato e si pose al mento la “barba rituale”, per mostrare di essere coraggiosa e capace non meno di un uomo.
A sostenerla in questo progetto c’era, naturalmente, una corte di fedelissimi, sia a Palazzo Reale che al Tempio di Ammon. Primo fra tutti, fu Senenmut, architetto e Gran Dignitario, da cui ebbe anche una figlia: Nefrure, che in seguito fece sposare all’erede, Thutmosis III.
Per la sua tomba non scelse la Set-Maaty (Sede della Giustizia), oggi meglio conosciuta con il nome di “Valle dei Re”, dove erano sepolti tutti i Sovrani, ma non volle neppure la Set-Nefrure,(Sede della Bellezza) dove erano sepolte le Regine. Lei scelse un sito diverso, l’attuale Deir-el-Bahari, dove si fece costruire uno dei più straordinari Complessi Funerari: il Sublime dei Sublimi.
Sulle pareti e sulle colonne fece trascrivere la sua storia, quelle delle sue conquiste militari e, soprattutto, l’accoglienza, alla nascita, da parte del dio Ammon, Patrono di Tebe, che la riconosceva come “Sua Figlia” e ne legittimava il diritto ad occupare il trono d’Egitto.
Morì all’età di 60 anni circa, dopo quasi 22 anni di regno.
La tradizione vuole che il successore, dopo la sua morte, si sia accanito nel voler cancellare di lei perfino la memoria, per vendicarsi di averlo per così tanto tempo tenuto lontano dal trono. In realtà, il faraone Thutmosis III, fece vaghi cenni, in alcune iscrizioni, ad un “periodo di disaccordo” con la Regina.
Certo è che non era facile far cancellare tutte le iscrizioni dai colossali monumenti fatti erigere dalla Regina; più devastante fu l’intervento del faraone Akhenaton, che ordinò di cancellare il nome di Ammon da tutti gli edifici del Paese, compresi quelli della Regina-Faraone.
Questa figura di Regina ha sempre affascinato studiosi e scrittori e di lei si è molto discusso e si continua a farlo. Dei fatti che la riguardano, la versione più attendibile ed universalmente accettata da studiosi ed egittologi è, forse, quella che segue.
Figlia del faraone Thutmosis III, della XVIII Dinastia, sposò, come consuetudine, il fratello Thumosis II. Alla morte di questi, essendo l’erede, il futuro, grande faraone Tutmosis III, ancora troppo giovane per governare il Paese, la Regina ne assunse la Reggenza.
Huthsepsut, però, non si accontentò di questo ruolo e quel che seguì fu uno degli esempi di intrighi di corte più clamorosi della storia.
Attraverso una messa in scena assai teatrale, occupò il trono senza colpo ferire e vi regnò per più di 20 anni come Regina-Faraone. Un mattino, mentre officiava in onore del dio Ammon, questi le apparve e, fra tuoni, fulmini e saette, così proclamò (pressappoco):
“In Te voglio compiacermi, figlia mia. Da oggi il tuo nuovo nome sarà Kem-hut-Ra: Colei che regna su Kem (Egitto) con il favore di Ra.”
Donna bella, colta e ambiziosa, era dotata anche di una acutezza politica e molte furono le riforme sociali da lei introdotte nel Paese. Era anche molto coraggiosa. Si narra che da bambina il padre la portasse spesso a caccia con sé.
Nell’assumere il potere, (si dice) si attaccò alla schiena la coda del leone da lei stessa cacciato e si pose al mento la “barba rituale”, per mostrare di essere coraggiosa e capace non meno di un uomo.
A sostenerla in questo progetto c’era, naturalmente, una corte di fedelissimi, sia a Palazzo Reale che al Tempio di Ammon. Primo fra tutti, fu Senenmut, architetto e Gran Dignitario, da cui ebbe anche una figlia: Nefrure, che in seguito fece sposare all’erede, Thutmosis III.
Per la sua tomba non scelse la Set-Maaty (Sede della Giustizia), oggi meglio conosciuta con il nome di “Valle dei Re”, dove erano sepolti tutti i Sovrani, ma non volle neppure la Set-Nefrure,(Sede della Bellezza) dove erano sepolte le Regine. Lei scelse un sito diverso, l’attuale Deir-el-Bahari, dove si fece costruire uno dei più straordinari Complessi Funerari: il Sublime dei Sublimi.
Sulle pareti e sulle colonne fece trascrivere la sua storia, quelle delle sue conquiste militari e, soprattutto, l’accoglienza, alla nascita, da parte del dio Ammon, Patrono di Tebe, che la riconosceva come “Sua Figlia” e ne legittimava il diritto ad occupare il trono d’Egitto.
Morì all’età di 60 anni circa, dopo quasi 22 anni di regno.
La tradizione vuole che il successore, dopo la sua morte, si sia accanito nel voler cancellare di lei perfino la memoria, per vendicarsi di averlo per così tanto tempo tenuto lontano dal trono. In realtà, il faraone Thutmosis III, fece vaghi cenni, in alcune iscrizioni, ad un “periodo di disaccordo” con la Regina.
Certo è che non era facile far cancellare tutte le iscrizioni dai colossali monumenti fatti erigere dalla Regina; più devastante fu l’intervento del faraone Akhenaton, che ordinò di cancellare il nome di Ammon da tutti gli edifici del Paese, compresi quelli della Regina-Faraone.
La donna nella società egizia
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/2307073.jpg?320)
LA DONNA NELLA SOCIETA' EGIZIA Rispetto alle donne appartenenti ad altre culture del suo tempo, la donna dell’Antico Egitto ha sempre goduto di grande considerazione all’interno della società. Basti citare la donna biblica, romana o medioevale; perfino i Greci si stupivano della sua libertà ed eguaglianza.
Nella vita pubblica quanto in quella privata, la troviamo impegnata in ruoli di prestigio e responsabilità.
In campo religioso ricopriva spesso cariche di “Divina Adoratrice” o “Grande Sacerdotessa” di Divinità importanti come Sekhmet, Iside, Hathor; in campo amministrativo la si poteva trovare perfino a capo di un Dicastero come quello degli “Unguenti e Profumi”.
Dal punto di vista giuridico, la donna egizia godeva di totale indipendenza: poteva disporre di beni economici, conservare quelli ottenuti da un divorzio, fare testamento, difendersi in tribunale, frequentare scuole, ecc…
Nel privato si occupava della conduzione della propria casa, dell’educazione dei figli, dell’amministrazione di beni in proprietà con il marito e di altro ancora. La sua vita era facile e piacevole, vissuta quasi nell’ozio, tessendo o filando, tra feste e banchetti.
Tutto ciò, naturalmente, se si trattava di donne benestanti. Le donne di più umile origine, invece, avevano vita assai meno facile. Tessevano e filavano anch’esse, ma oltre a ciò, si occupavano dei lavori domestici e di quelli dei campi e facevano mille altre cose… come tutte le donne del mondo, prima e dopo di loro.
Diverse, però, era l’esistenza all’interno di un Ipet, il gineceo reale.
Qui, le donne vivevano in una condizione di recluse, all’interno di una gabbia dorata, con il solo scopo di arrecar piacere al Sovrano e senza nessuno dei diritti riservati alle donne comuni; scelte in tutto il Regno, quella condizione, però, era un grande onore per se stesse e le loro famiglie.
Nella vita pubblica quanto in quella privata, la troviamo impegnata in ruoli di prestigio e responsabilità.
In campo religioso ricopriva spesso cariche di “Divina Adoratrice” o “Grande Sacerdotessa” di Divinità importanti come Sekhmet, Iside, Hathor; in campo amministrativo la si poteva trovare perfino a capo di un Dicastero come quello degli “Unguenti e Profumi”.
Dal punto di vista giuridico, la donna egizia godeva di totale indipendenza: poteva disporre di beni economici, conservare quelli ottenuti da un divorzio, fare testamento, difendersi in tribunale, frequentare scuole, ecc…
Nel privato si occupava della conduzione della propria casa, dell’educazione dei figli, dell’amministrazione di beni in proprietà con il marito e di altro ancora. La sua vita era facile e piacevole, vissuta quasi nell’ozio, tessendo o filando, tra feste e banchetti.
Tutto ciò, naturalmente, se si trattava di donne benestanti. Le donne di più umile origine, invece, avevano vita assai meno facile. Tessevano e filavano anch’esse, ma oltre a ciò, si occupavano dei lavori domestici e di quelli dei campi e facevano mille altre cose… come tutte le donne del mondo, prima e dopo di loro.
Diverse, però, era l’esistenza all’interno di un Ipet, il gineceo reale.
Qui, le donne vivevano in una condizione di recluse, all’interno di una gabbia dorata, con il solo scopo di arrecar piacere al Sovrano e senza nessuno dei diritti riservati alle donne comuni; scelte in tutto il Regno, quella condizione, però, era un grande onore per se stesse e le loro famiglie.
La donna nella cultura biblica
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/8485370.jpg?473)
Presso l’antico popolo ebraico, i costumi familiari erano senza ombra di dubbio improntati sul Patriarcato. I nomi dei grandi Patriarchi sono noti a tutti: Abramo, Isacco, Giacobbe…
Notevole rilievo viene, dunque, dato all’uomo nell’ambito della famiglia e assai meno alla donna.
Bisogna, però, tener presente che il fondamento del Patriarcato aveva come fine la forza strutturale della tribù.
Ma vediamo nel dettaglio quella che era la condizione della donna biblica.
Non aveva alcuna potestà sui figli, essendo, questa, esercitata quasi esclusivamente dal padre.
Alla donna non era consentito ripudiare il marito; viceversa, questi poteva farlo in qualunque momento.
Soprattutto in caso di sterilità: un difetto fisico imputabile solo alla donna.
Rimasta vedova, la legge le imponeva di sposare il fratello del marito.
In caso di necessità (e talvolta anche senza tale esigenza) il padre poteva vendere la figlia come concubina… consolante, però, sapere che a questo padre (sempre in caso di necessità) veniva concessa la facoltà di vendersi anche i figli maschi…
Qualcosa di buono per la donna?… sembra che la somma versata dallo sposo per procurarsi una moglie, restasse a lei, invece che aggiungersi al patrimonio dei nuovi parenti.
Qualcosa di simile accadeva anche alle donne romane, specialmente in epoca imperiale, le quali seppero farne buon uso (come vedremo in seguito) per affrancarsi (i primi tentativi, in verità) da secolari tradizioni.
Notevole rilievo viene, dunque, dato all’uomo nell’ambito della famiglia e assai meno alla donna.
Bisogna, però, tener presente che il fondamento del Patriarcato aveva come fine la forza strutturale della tribù.
Ma vediamo nel dettaglio quella che era la condizione della donna biblica.
Non aveva alcuna potestà sui figli, essendo, questa, esercitata quasi esclusivamente dal padre.
Alla donna non era consentito ripudiare il marito; viceversa, questi poteva farlo in qualunque momento.
Soprattutto in caso di sterilità: un difetto fisico imputabile solo alla donna.
Rimasta vedova, la legge le imponeva di sposare il fratello del marito.
In caso di necessità (e talvolta anche senza tale esigenza) il padre poteva vendere la figlia come concubina… consolante, però, sapere che a questo padre (sempre in caso di necessità) veniva concessa la facoltà di vendersi anche i figli maschi…
Qualcosa di buono per la donna?… sembra che la somma versata dallo sposo per procurarsi una moglie, restasse a lei, invece che aggiungersi al patrimonio dei nuovi parenti.
Qualcosa di simile accadeva anche alle donne romane, specialmente in epoca imperiale, le quali seppero farne buon uso (come vedremo in seguito) per affrancarsi (i primi tentativi, in verità) da secolari tradizioni.
EVA: primo clone umano?
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| Edit E V A - Primo clone umano? SACRA BIBBIA – EVA: primo clone umano?
EVA in ebraico significa: Madre dei viventi.
EVA, secondo la Bibbia (Genesi – III) fu la prima donna
che Dio formò con una costola di Adamo mentre questi dormiva: un clone, dunque.
Formata e non creata.
Questo dicono le Sacre Scritture.
Sono io che non ho capito?
Sono gli interpreti delle Scritture a non aver capito?… La Bibbia, si sa, è frutto di racconti tramandati oralmente e scritti solo intorno al IV secolo prima di Cristo.
Se è questo che io ho capito leggendo la Bibbia e la mia è un’errata interpretazione, qualcuno mi smentisca.
Lo faccia, per favore, perché, io, discendente di quella “donna”, non mi sento un clone.
Al contrario!
E aggiungo: Dio, forse, non aveva argilla sufficiente per “creare” due esseri e cioè, l’uomo e la donna?
O, forse aveva in spregio la parte femminile dell’umanità per pensare di utilizzarne anche per lei?
Smentitemi, per favore e spiegatemi l’arcano.
Spiegatemi perché in culture più antiche, chiamate pagane, come quella Egizia, ad esempio, PTHA, il Dio della Creazione, utilizzò argilla per entrambe le sue creature, ne plasmò la forma con il Torchio Sacro e ne infuse l’alito della vita con la LINGUA, ossia il VERBO, attraverso le narici.
Spiegatemi perché qualche migliaio di anni più tardi si ebbe il bisogno di ridimensionare la parte femminile partecipante alla Creazione della vita.
Il Dio delle moderne religioni non ha, forse, in dovuta considerazione la donna?
E’ il Dio degli uomini? E’ il Dio degli Eserciti?
Ptha non era solo il Dio della Creazione, ma non era neanche il Dio degli Eserciti ed era invece il Dio delle Scienze e delle Conoscenze… dell’Arte e della Cultura…
Era il Protettore di quelli che oggi chiameremmo INTELLETTUALI.
EVA in ebraico significa: Madre dei viventi.
EVA, secondo la Bibbia (Genesi – III) fu la prima donna
che Dio formò con una costola di Adamo mentre questi dormiva: un clone, dunque.
Formata e non creata.
Questo dicono le Sacre Scritture.
Sono io che non ho capito?
Sono gli interpreti delle Scritture a non aver capito?… La Bibbia, si sa, è frutto di racconti tramandati oralmente e scritti solo intorno al IV secolo prima di Cristo.
Se è questo che io ho capito leggendo la Bibbia e la mia è un’errata interpretazione, qualcuno mi smentisca.
Lo faccia, per favore, perché, io, discendente di quella “donna”, non mi sento un clone.
Al contrario!
E aggiungo: Dio, forse, non aveva argilla sufficiente per “creare” due esseri e cioè, l’uomo e la donna?
O, forse aveva in spregio la parte femminile dell’umanità per pensare di utilizzarne anche per lei?
Smentitemi, per favore e spiegatemi l’arcano.
Spiegatemi perché in culture più antiche, chiamate pagane, come quella Egizia, ad esempio, PTHA, il Dio della Creazione, utilizzò argilla per entrambe le sue creature, ne plasmò la forma con il Torchio Sacro e ne infuse l’alito della vita con la LINGUA, ossia il VERBO, attraverso le narici.
Spiegatemi perché qualche migliaio di anni più tardi si ebbe il bisogno di ridimensionare la parte femminile partecipante alla Creazione della vita.
Il Dio delle moderne religioni non ha, forse, in dovuta considerazione la donna?
E’ il Dio degli uomini? E’ il Dio degli Eserciti?
Ptha non era solo il Dio della Creazione, ma non era neanche il Dio degli Eserciti ed era invece il Dio delle Scienze e delle Conoscenze… dell’Arte e della Cultura…
Era il Protettore di quelli che oggi chiameremmo INTELLETTUALI.