IL RAIS
Fiamme sul deserto
(cap. I - VIII)
CAP. I - L'oasi di Sahab
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CAP. I - L'oasi di SAhab L’oasi di Sahab!
Quando i poeti arabi cantarono la bellezza del Paradiso Terrestre, certo dovevano riferirsi a qualche oasi verdeggiante. Forse un’oasi come Sahab, tanto più bella, in quanto sorta nel cuore di un mondo millenariamente immoto e desolato come può esserlo soltanto il deserto di Ar-Rimal.
Depresso e ancora semi inesplorato, era l’espressione più calzante della desolazione eppure erano in pochi a conoscenza della esistenza di quel magnifico gioiello con cui la Natura lo aveva voluto compensare di tanta avarizia.
In nessun luogo al mondo, come in un’oasi del deserto, l’ombra di un palmeto o l’umidità della rugiada possono dare uguale refrigerio. Nulla, quanto un palmeto che prende vita dall’acqua di un pozzo miracolosamente vivo in mezzo all’aridità, nulla quanto l’atmosfera di un posto come Ar-Rimal esiste in nessun’altra parte della Terra.
Sahab sorgeva intorno ad una mezza dozzina di pozzi, il più grande dei quali era di proporzioni davvero notevoli.
Arcaico nella forma, monumentale e rettangolare, era protetto da un muro alto quasi un metro.
All’estremità orientale dell’oasi sorgeva un’altra costruzione imponente: uno di quei tipici castelli disseminati nei deserti e fatti costruire da emiri e sultani per le soste nelle interminabili traversate nel deserto.
Quadrato e con tre cupole ad ellissi, il castello emergeva dal muro di cinta che lo circondava assieme ad un enorme cortile. Al centro del cortile si ergeva una quarta cupola cui si accedeva attraverso un grande portone. La parte orientale del muro di cinta era quasi in rovina, segno di secolare abbandono, ma il resto era in ottimo stato di conservazione.
Gli abitanti dell’oasi e il loro rais, presero tutti quella direzione.
Era stato proprio Rashid, alcuni anni addietro, a scegliere quell’oasi come posto sedentario per la potente tribù dei Kinda che per secoli aveva conosciuto solo l’interminabile peregrinare tra le sabbie.
Quell’oasi era diventata il covo dello sceicco Harith e di Rashid, il suo formidabile rais e la vecchia costruzione serviva per le adunanze dei capi e degli anziani: il beduino non avrebbe rinunciato mai alla sua tenda.
In quel cortile, però, ci si riuniva anche per festeggiamenti e ricorrenze e il ritorno del capo e della sua donna, era un evento da festeggiare.
Entrarono tutti nel cortile, le donne trillando con la lingua, secondo l’uso arabo e gli uomini continuando a far roteare sopra la testa pugnali e fucili; alcuni bambini stavano giocando con ciotole e bricchi lasciati incustoditi, ma lasciarono i giochi per correre festanti incontro ai nuovi arrivati.
“Si danzerà e canterà, questa sera, a Sahab! – Ibrahim, il vice di Rashid, si avvicinò al suo capo con il fucile levato sul capo e da cui fece partire un colpo - Si ballerà e danzerà!”
“Si ballerà e canterà!” altre voci si alzarono, subito seguite dal rombo di fucili e carabine e immediatamente dopo, l’oasi non fu che un unico grido ed un unico rombo, fragoroso come quello di cento cannoni.
Quando i poeti arabi cantarono la bellezza del Paradiso Terrestre, certo dovevano riferirsi a qualche oasi verdeggiante. Forse un’oasi come Sahab, tanto più bella, in quanto sorta nel cuore di un mondo millenariamente immoto e desolato come può esserlo soltanto il deserto di Ar-Rimal.
Depresso e ancora semi inesplorato, era l’espressione più calzante della desolazione eppure erano in pochi a conoscenza della esistenza di quel magnifico gioiello con cui la Natura lo aveva voluto compensare di tanta avarizia.
In nessun luogo al mondo, come in un’oasi del deserto, l’ombra di un palmeto o l’umidità della rugiada possono dare uguale refrigerio. Nulla, quanto un palmeto che prende vita dall’acqua di un pozzo miracolosamente vivo in mezzo all’aridità, nulla quanto l’atmosfera di un posto come Ar-Rimal esiste in nessun’altra parte della Terra.
Sahab sorgeva intorno ad una mezza dozzina di pozzi, il più grande dei quali era di proporzioni davvero notevoli.
Arcaico nella forma, monumentale e rettangolare, era protetto da un muro alto quasi un metro.
All’estremità orientale dell’oasi sorgeva un’altra costruzione imponente: uno di quei tipici castelli disseminati nei deserti e fatti costruire da emiri e sultani per le soste nelle interminabili traversate nel deserto.
Quadrato e con tre cupole ad ellissi, il castello emergeva dal muro di cinta che lo circondava assieme ad un enorme cortile. Al centro del cortile si ergeva una quarta cupola cui si accedeva attraverso un grande portone. La parte orientale del muro di cinta era quasi in rovina, segno di secolare abbandono, ma il resto era in ottimo stato di conservazione.
Gli abitanti dell’oasi e il loro rais, presero tutti quella direzione.
Era stato proprio Rashid, alcuni anni addietro, a scegliere quell’oasi come posto sedentario per la potente tribù dei Kinda che per secoli aveva conosciuto solo l’interminabile peregrinare tra le sabbie.
Quell’oasi era diventata il covo dello sceicco Harith e di Rashid, il suo formidabile rais e la vecchia costruzione serviva per le adunanze dei capi e degli anziani: il beduino non avrebbe rinunciato mai alla sua tenda.
In quel cortile, però, ci si riuniva anche per festeggiamenti e ricorrenze e il ritorno del capo e della sua donna, era un evento da festeggiare.
Entrarono tutti nel cortile, le donne trillando con la lingua, secondo l’uso arabo e gli uomini continuando a far roteare sopra la testa pugnali e fucili; alcuni bambini stavano giocando con ciotole e bricchi lasciati incustoditi, ma lasciarono i giochi per correre festanti incontro ai nuovi arrivati.
“Si danzerà e canterà, questa sera, a Sahab! – Ibrahim, il vice di Rashid, si avvicinò al suo capo con il fucile levato sul capo e da cui fece partire un colpo - Si ballerà e danzerà!”
“Si ballerà e canterà!” altre voci si alzarono, subito seguite dal rombo di fucili e carabine e immediatamente dopo, l’oasi non fu che un unico grido ed un unico rombo, fragoroso come quello di cento cannoni.
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Assopita nella calura del primo pomeriggio, Sahab sonnecchiava ancora, ma il primo pensiero dello sceicco Harith era stato per Letizia, la figlia del mercante greco.
Gli dissero che si trovava sotto la grande tenda di Alina, madre di Ibrahim, braccio destro di Rashid.
Alina era anche la donna più influente della tribù per la parentela con lo sceicco, ma soprattutto per la numerosa figliolanza che le aveva dato potere e prestigio.
Riunite nel centro del maq'ad , la zona riservata agli ospiti, allegre e cicalanti, le ragazze erano occupate negli ultimi preparativi per festeggiare l'arrivo della principessa Jasmine e consumavano l'attesa sgranocchiando uva passa e tracannando bicchieri di acqua, the e carkadè.
C'era Zaira, la figlia di Mayrana, l'asceta indiano e c'erano Agar e Amina, le figlie minori della padrona di casa; c'era Letizia, la figlia minore del mercante greco e seduta al suo fianco c'era Fatima, figlia dello sceicco della tribù degli Aws e promessa sposa dello sceicco Harith, dal volto velato come voleva la consuetudine.
Fianco a fianco, le due ragazze lasciavano scivolare di tanto in tanto le gambe sull'immenso tappeto senza abbandonare le tazze non più fumanti che reggevano in mano: Fatima, che pareva guardarsi intorno con profondo distacco e Letizia che, al contrario, sembrava voler cogliere ogni sfumatura di quanto la circondava, come in attesa di qualcosa. Continuava a girare il capo in direzione dell'entrata come se qualcuno dovesse fare da un momento all'altro la sua comparsa.
Qualcuno, infatti, scostò il lembo della tenda che fungeva da entrata e stagliò nel vano la possente figura, gettando l'ombra alle proprie spalle: lo sceicco Harith che in quel posto unico al mondo, dall'asprezza e selvaggia bellezza, sembrava esservi stato messo come parte integrante, tale era la perfetta sintonia con esso.
Il beduino avanzò di qualche passo, nobile e fiero, l'esclusivo atteggiamento da animale selvaggio, che tanto timore incuteva in avversari e nemici e tanta ammirazione negli altri.
Era senza dubbio l'uomo più attraente della tribù, ma schivo e scontroso; un misto di dolcezza e violenza, vendetta e perdono, comprensione ed implacabilità. Tenacia e pazienza erano commiste in lui insieme a spregiudicatezza e buonsenso, astuzia diplomatica e capacità d'azione, qualità che aveva l'abilità di utilizzare sempre al momento giusto. Un uomo ambizioso, dunque, intelligente e scaltro, gran combattente ed ottimo diplomatico: il capo giusto per un popolo inquieto ed irrequieto come i Kinda.
Da ragazzo suo padre, lo sceicco Amud Alì, della tribù dei Kinda, lo aveva spedito in Inghilterra in un collegio militare da dove era tornato pronto a guidare la sua gente.
Alto, atletico, la possente figura avvolta nell'ampio Ksa, il mantello bianco marocchino senza maniche ed ornato di passamanerie, ancora impolverato di sabbia:
"Inshallah!" salutò, facendo convergere su di sé gli sguardi di tutte le ragazze.
Fatima e Letizia scattarono in piedi entrambe per andargli incontro e sul bel volto abbronzato del giovane comparve un'espressione indecifrabile; le sopracciglie, congiunte sul naso adunco, parvero fremere e stormire come piccoli cespugli. Contrasse la mascella
mentre un lampo di titubanza gli attraversava lo sguardo.
Si fermò quasi al centro della grande stanza; le due ragazze, invece, avanzarono con passo sempre più veloce. Soprattutto Letizia, il cui sguardo sfavillava come un cielo irrorato dalla luce dell'Aurora: brillante e quasi acccecante.
Scuro e di una dolcezza schiva, quasi color caffé, quello della figlia dello sceicco degli Aws, che il nero jasmac, trasparente appena da lasciar intravvedere i contorni del volto, rendeva un pò misterioso; sotto il velo si intravvedeva una folta capigliatura nera e sapientemente acconciata.
Provocatorio e tentatore, come soleva ripetere sir Richard, l'amico inglese dello sceicco, quando si esprimeva a proposito del volto velato della donna islamica. In realtà, a Sahab quasi nessuna aveva il volto velato. Quella del velo era una delle innumerevoli regole cui la donna doveva sottostare per essere rispettata e per sentirsi al sicuro, ma le donne di Sahab conoscevano una libertà sconosciuta alle donne della costa e delle città.
La vecchia Alina ed altre poche donne della sua generazione, però, difendevano ancora con accanimento quell'imposizione.
"Gli uomini - diceva - non desiderano mancare di rispetto ad una donna, ma se ne incontrano una a viso scoperto, possono cadere in tentazione."
"E' un problema degli uomini! - replicava Letizia che, da ribelle occidentale non intendeva sottomettersi a quei dettami - Se un uomo non sa controllare i propri istinti e le proprie debolezze, non è colpa della donna che gli sta di fronte!"
Naturalmente Alina rispndeva sempre scuotendo la testa: le sue figlie, infatti, non portavano veli, se non qualche volta, per pura civetteria.
Le due ragazze continuarono ad avanzare; Harith era sempre fermo.
Piuttosto graziosa, le forme un po' abbondanti, Fatima esibiva una veste della più pura tradizione islamica. Doveva prediligere il colore verde, poiché sopra la veste di prezioso damasco giallo indossava una sopraveste senza maniche, verde e riccamente ricamata con fili d'oro e sotto la veste, aperta sul davanti, ampi pantaloni di leggerissima seta. Anche questi di colore verde. Collo, caviglie, polsi e mani erano letteralmente coperti da vistosi gioielli.
Priva di qualunque gioiello, invece, la figura di Letizia. Nemmeno un esile cerchietto intorno alle affusolate dita da artista: nel suo Paese, in Italia, Letizia aveva studiato pianoforte nel collegio militare presso cui aveva vissuto parte della adolescenza. E neppure gioielli di altra sorta, benché l'uomo che l'aveva adottata, il mercante Aristeo Callas, fosse stato un gioielliere. Né fasce ai polsi, né filigrane intorno alle caviglie. Solamente un medaglione legato al collo con le immagini dei cari perduti.
Ma come sempre, la sua bellezza rifulgeva su chiunque come un cigno in uno stagno in mezzo alle anatre.
Harith spostò più volte lo sguardo da lei all'altra ragazza, dallo sguardo di Fatima, scuro e tranquillo, a quello di Letizia, azzurro e pieno di magia e di splendore.
Anche Letizia aveva un velo; il suo, però, era azzurro cielo e ugualmente trasparente e lei ne reggeva i lembi tra le mani trastullandosene, mentre con delizioso rossore fissava il volto del giovane, al contrario di Fatima che aveva abbassato gli occhi.
Il suo abbigliamento era un felice abbinamento dello stile islamico a quello occidentale.
Su un corpetto di tessuto damascato, che metteva in risalto il seno rigoglioso e l'armoniosa figura avvolta in una gonna a vita alta, di un incantevole colore blu-cobalto, aveva appoggiato una sopraveste di squisita fattura islamica, ampia e senza maniche, leggerissima e fluida e sul capo aveva posato una leggerissima ghirlanda di foglie di palma intrecciate. Avanzò, nel balenio degli occhi azzurri, brillanti come preziosi e sfolgoranti di gioia. Il sorriso smagliante, la pelle luccicava di riflessi ambrati.
Bellissima, di una bellezza ineguagliabile sotto lo splendore dei capelli biondi, tese le braccia.
Anche le braccia di Fatima si tesero in avanti; le dita delle mani tintinnarono dei numerosi gioielli che le coprivano e fu con quelle che andarono ad intrecciarsi le dita delle mani, grandi e forti, di Harith che aveva fatto un passo in avanti.
Letizia si fermò di colpo, poi indietreggiò di un passo, di un altro e di un altro ancora, senza voltarsi. Il sorriso le si spense sul bel volto e lo sguardo, smarrito e assente, catturò quello di colui che considerava il suo uomo e ve lo trattenne in maniera così intensa da costringerlo a spostare altrove il proprio ed a stringere le dita di Fatima così forte da strapparle un gemito.
"Letizia..." chiamò, tornando a convergere lo sguardo su di lei e affondandolo nei due pezzi di cielo, velati e puri, che lei si era messo negli occhi... erano lacrime?
Quel bisogno, però, antico e irrinunciabile di piangere, abbandonò presto la figlia del mercante greco. Le sue difese erano pronte a sorreggerla: il silenzio e lo sguardo, nudo e vulnerabile come quello di un bambino.
"Letizia..." chiamò per la seconda volta Harith.
Letizia però s'era calata il velo sul capo, sottraendo ai suoi sguardi la cascata d'oro dei capelli e lo splendore del volto; lo fissò con negli occhi, l'unica parte di sé che gli aveva concesso ancora di guardare, quella luce che una volta sola sfavilla negli occhi di una ragazza quando, cioè, crede che il sole irradi soltanto per lei, ma che si smorza appena la luce si spegne.
"Letizia..." la chiamò per la terza volta, ma Letizia s'era già allontanata.
Gli dissero che si trovava sotto la grande tenda di Alina, madre di Ibrahim, braccio destro di Rashid.
Alina era anche la donna più influente della tribù per la parentela con lo sceicco, ma soprattutto per la numerosa figliolanza che le aveva dato potere e prestigio.
Riunite nel centro del maq'ad , la zona riservata agli ospiti, allegre e cicalanti, le ragazze erano occupate negli ultimi preparativi per festeggiare l'arrivo della principessa Jasmine e consumavano l'attesa sgranocchiando uva passa e tracannando bicchieri di acqua, the e carkadè.
C'era Zaira, la figlia di Mayrana, l'asceta indiano e c'erano Agar e Amina, le figlie minori della padrona di casa; c'era Letizia, la figlia minore del mercante greco e seduta al suo fianco c'era Fatima, figlia dello sceicco della tribù degli Aws e promessa sposa dello sceicco Harith, dal volto velato come voleva la consuetudine.
Fianco a fianco, le due ragazze lasciavano scivolare di tanto in tanto le gambe sull'immenso tappeto senza abbandonare le tazze non più fumanti che reggevano in mano: Fatima, che pareva guardarsi intorno con profondo distacco e Letizia che, al contrario, sembrava voler cogliere ogni sfumatura di quanto la circondava, come in attesa di qualcosa. Continuava a girare il capo in direzione dell'entrata come se qualcuno dovesse fare da un momento all'altro la sua comparsa.
Qualcuno, infatti, scostò il lembo della tenda che fungeva da entrata e stagliò nel vano la possente figura, gettando l'ombra alle proprie spalle: lo sceicco Harith che in quel posto unico al mondo, dall'asprezza e selvaggia bellezza, sembrava esservi stato messo come parte integrante, tale era la perfetta sintonia con esso.
Il beduino avanzò di qualche passo, nobile e fiero, l'esclusivo atteggiamento da animale selvaggio, che tanto timore incuteva in avversari e nemici e tanta ammirazione negli altri.
Era senza dubbio l'uomo più attraente della tribù, ma schivo e scontroso; un misto di dolcezza e violenza, vendetta e perdono, comprensione ed implacabilità. Tenacia e pazienza erano commiste in lui insieme a spregiudicatezza e buonsenso, astuzia diplomatica e capacità d'azione, qualità che aveva l'abilità di utilizzare sempre al momento giusto. Un uomo ambizioso, dunque, intelligente e scaltro, gran combattente ed ottimo diplomatico: il capo giusto per un popolo inquieto ed irrequieto come i Kinda.
Da ragazzo suo padre, lo sceicco Amud Alì, della tribù dei Kinda, lo aveva spedito in Inghilterra in un collegio militare da dove era tornato pronto a guidare la sua gente.
Alto, atletico, la possente figura avvolta nell'ampio Ksa, il mantello bianco marocchino senza maniche ed ornato di passamanerie, ancora impolverato di sabbia:
"Inshallah!" salutò, facendo convergere su di sé gli sguardi di tutte le ragazze.
Fatima e Letizia scattarono in piedi entrambe per andargli incontro e sul bel volto abbronzato del giovane comparve un'espressione indecifrabile; le sopracciglie, congiunte sul naso adunco, parvero fremere e stormire come piccoli cespugli. Contrasse la mascella
mentre un lampo di titubanza gli attraversava lo sguardo.
Si fermò quasi al centro della grande stanza; le due ragazze, invece, avanzarono con passo sempre più veloce. Soprattutto Letizia, il cui sguardo sfavillava come un cielo irrorato dalla luce dell'Aurora: brillante e quasi acccecante.
Scuro e di una dolcezza schiva, quasi color caffé, quello della figlia dello sceicco degli Aws, che il nero jasmac, trasparente appena da lasciar intravvedere i contorni del volto, rendeva un pò misterioso; sotto il velo si intravvedeva una folta capigliatura nera e sapientemente acconciata.
Provocatorio e tentatore, come soleva ripetere sir Richard, l'amico inglese dello sceicco, quando si esprimeva a proposito del volto velato della donna islamica. In realtà, a Sahab quasi nessuna aveva il volto velato. Quella del velo era una delle innumerevoli regole cui la donna doveva sottostare per essere rispettata e per sentirsi al sicuro, ma le donne di Sahab conoscevano una libertà sconosciuta alle donne della costa e delle città.
La vecchia Alina ed altre poche donne della sua generazione, però, difendevano ancora con accanimento quell'imposizione.
"Gli uomini - diceva - non desiderano mancare di rispetto ad una donna, ma se ne incontrano una a viso scoperto, possono cadere in tentazione."
"E' un problema degli uomini! - replicava Letizia che, da ribelle occidentale non intendeva sottomettersi a quei dettami - Se un uomo non sa controllare i propri istinti e le proprie debolezze, non è colpa della donna che gli sta di fronte!"
Naturalmente Alina rispndeva sempre scuotendo la testa: le sue figlie, infatti, non portavano veli, se non qualche volta, per pura civetteria.
Le due ragazze continuarono ad avanzare; Harith era sempre fermo.
Piuttosto graziosa, le forme un po' abbondanti, Fatima esibiva una veste della più pura tradizione islamica. Doveva prediligere il colore verde, poiché sopra la veste di prezioso damasco giallo indossava una sopraveste senza maniche, verde e riccamente ricamata con fili d'oro e sotto la veste, aperta sul davanti, ampi pantaloni di leggerissima seta. Anche questi di colore verde. Collo, caviglie, polsi e mani erano letteralmente coperti da vistosi gioielli.
Priva di qualunque gioiello, invece, la figura di Letizia. Nemmeno un esile cerchietto intorno alle affusolate dita da artista: nel suo Paese, in Italia, Letizia aveva studiato pianoforte nel collegio militare presso cui aveva vissuto parte della adolescenza. E neppure gioielli di altra sorta, benché l'uomo che l'aveva adottata, il mercante Aristeo Callas, fosse stato un gioielliere. Né fasce ai polsi, né filigrane intorno alle caviglie. Solamente un medaglione legato al collo con le immagini dei cari perduti.
Ma come sempre, la sua bellezza rifulgeva su chiunque come un cigno in uno stagno in mezzo alle anatre.
Harith spostò più volte lo sguardo da lei all'altra ragazza, dallo sguardo di Fatima, scuro e tranquillo, a quello di Letizia, azzurro e pieno di magia e di splendore.
Anche Letizia aveva un velo; il suo, però, era azzurro cielo e ugualmente trasparente e lei ne reggeva i lembi tra le mani trastullandosene, mentre con delizioso rossore fissava il volto del giovane, al contrario di Fatima che aveva abbassato gli occhi.
Il suo abbigliamento era un felice abbinamento dello stile islamico a quello occidentale.
Su un corpetto di tessuto damascato, che metteva in risalto il seno rigoglioso e l'armoniosa figura avvolta in una gonna a vita alta, di un incantevole colore blu-cobalto, aveva appoggiato una sopraveste di squisita fattura islamica, ampia e senza maniche, leggerissima e fluida e sul capo aveva posato una leggerissima ghirlanda di foglie di palma intrecciate. Avanzò, nel balenio degli occhi azzurri, brillanti come preziosi e sfolgoranti di gioia. Il sorriso smagliante, la pelle luccicava di riflessi ambrati.
Bellissima, di una bellezza ineguagliabile sotto lo splendore dei capelli biondi, tese le braccia.
Anche le braccia di Fatima si tesero in avanti; le dita delle mani tintinnarono dei numerosi gioielli che le coprivano e fu con quelle che andarono ad intrecciarsi le dita delle mani, grandi e forti, di Harith che aveva fatto un passo in avanti.
Letizia si fermò di colpo, poi indietreggiò di un passo, di un altro e di un altro ancora, senza voltarsi. Il sorriso le si spense sul bel volto e lo sguardo, smarrito e assente, catturò quello di colui che considerava il suo uomo e ve lo trattenne in maniera così intensa da costringerlo a spostare altrove il proprio ed a stringere le dita di Fatima così forte da strapparle un gemito.
"Letizia..." chiamò, tornando a convergere lo sguardo su di lei e affondandolo nei due pezzi di cielo, velati e puri, che lei si era messo negli occhi... erano lacrime?
Quel bisogno, però, antico e irrinunciabile di piangere, abbandonò presto la figlia del mercante greco. Le sue difese erano pronte a sorreggerla: il silenzio e lo sguardo, nudo e vulnerabile come quello di un bambino.
"Letizia..." chiamò per la seconda volta Harith.
Letizia però s'era calata il velo sul capo, sottraendo ai suoi sguardi la cascata d'oro dei capelli e lo splendore del volto; lo fissò con negli occhi, l'unica parte di sé che gli aveva concesso ancora di guardare, quella luce che una volta sola sfavilla negli occhi di una ragazza quando, cioè, crede che il sole irradi soltanto per lei, ma che si smorza appena la luce si spegne.
"Letizia..." la chiamò per la terza volta, ma Letizia s'era già allontanata.
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Seduti in circolo a gambe incrociate nel grande piazzale davanti alla tenda di Rashid, l'amato rais, tutta la tribù era presente: bianchi mantelli, abiti sgargianti, pugnali, fucili e strumenti musicali; alle loro spalle la luna illuminava la sabbia.
Sir Richard, gambe incrociate, pugnale infilato alla cintola, parlava con lo sceicco Harith seduto alla sua destra. Parlavano dell'ultimo acquisto di armi, una mezza dozzina di fucili provenienti dall'Italia appena riunita, precisamente da quello che, ancor meno di una decade prima, il professor Marco Starti chiamava Stato Pontificio, cui qualche trafficante d'armi era riuscito a portar via.
A Sahab arrivavano armi da ogni parte d'Europa, come ad ogni altra tribù del deserto, le quali facevano affari con italiani, francesi, tedeschi e inglesi, naturalmente.
Harith mostrò al lord il fucile che teneva in mano e sir Richard non riuscì a trattenere la mordace e pacata ironia di cui era dotato:
"Ecco una canna che è passata dal servizio di Cristo a quello di Allah!" disse, da buon miscredente qual era.
Si aspettava la replica, naturalmente, ma le note del tandir di Selima, la Favorta di Rashid, lo salvarono dall'imbarazzo.
"Oh, brava Selima. - esordì Zaira, la figlia dell'asceta indiano, rivolta verso la ragazza - Allietaci con la tua musica... é dolce e malinconica, ma assai bella."
Selima restituì il sorriso.
"E' una melodia che mi ha insegnato Letizia. - spiegò - E' il canto d'amore di una fanciulla che si strugge per un amore non corrisposto..."
Di fronte al lord inglese, dall'altro lato del circolo, Letizia appariva assorta e distante. Irraggiungibile; neppure il suono del suo nome parve scuoterla.
Aveva di fianco le due donne di Rashid: la principessa Jasmine alla sua destra e Selima alla sinistra; di fronte, invece, sedevano Harith e Fatima, la sua promessa sposa. Parve scuotersi, infine e fece convergere lo sguardo sulle corde dello strumento che le mani di Selima pizzicavano con maestria.
Sollevò il capo e lasciò vagare d'intorno lo sguardo sulle note dolcissimamente malinconiche della musica, ma finì per naufragare in quello di Harith, scuro e penetrante, che la fissava con intensità tale da farla arrossire.
Si guardarono, con quella tenerezza e quell'amore schivo ma potente come la forza di una tempesta di sabbia, ma lei si sottrasse a quel richiamo e guardò la donna seduta al suo fianco.
"E' bella! - pensava - E' grassa e opulenta come piace a loro... agli uomini... Come piace ad Harith... "
Guardava la rivale; fissava la sua figura fin troppo opulenta che si perdeva nell'ombra di sete e damaschi e su cui, qua e là, al lume della luna comparsa in cielo, balenavano discreti, orecchini, collane e bracciali. E supponeva, mentre la guardava, di non avere strumenti per contrastarne le segrete, sapienti insidie amorose : dietro quel velo sapientemente calato sul viso, pensava, dovevano nascondersi fascini segreti e pratiche amorose a lei sconosciuti.
Fatima era la sola donna col volto velato; tutte le altre portavano solo un velo sui capelli.
Fu per questo, forse, che con un gesto di ribellione se lo lasciò scivolare sulle spalle, mettendo in mostra la luminosità dorata dei lunghi capelli biondi e attirando immediatamente su di sé tutti gli sguardi e cogliendo fuggevolmente quello di disapprovazione di Harith, che lei continuava ostinatamente a sfuggire. E intanto, quel tarlo, la gelosia, correva nel sangue e nelle vene e raggiungeva il cuore, sottile e penetrante, capace di rodere l'animo con un sol respiro.
Soffriva e la mente vacillò e una sola cosa riusciva a pensare: appartenere a lui le era più necessario e vitale della vita stessa e per questo non poté impedirsi di tornare a rituffare lo sguardo in quello di lui, nero e ardente, colmo di illusorie promesse.
D'improvviso, però, un piacere quasi folle la colse: la sensazione che anche lui soffrisse.
Dopotutto, c'era una certa "giustizia morale" nella sofferenza di lui, si disse.
Ma poi, Fatima che gli si accostava e lui che si chinava verso di lei, riaccese la sua pena. Chiuse gli occhi e si attanagliò le mani intorno alle braccia premendo con forza e provando un piacere sadico nel conficcarsi le unghia nella carne per placare la pena dello spirito.
Quasi si stupì che qualcuno ridesse e scherzasse, proprio accanto a lei, ignaro della sua sofferenza: la principessa Jasmine protesa in avanti per dire qualcosa a Selima.
Letizia le guardò entrambe; le fissò stupita e interdetta... Gelose! Non erano gelose l'una dell'altra? Soprattutto Selima per le attenzioni che Rashid riservava quasi esclusivamente alla principessa Jasmine.
E Jasmine? Non era gelosa di Selima?
Avevano la stessa età, lei e Jasmine e quando Harith la guardava con quello sguardo inafferrabile, all'inseguimento di pensieri audaci e proibiti che la riguardavano e la facevano arrossire, lei sentiva la propria carne contrarsi dal piacere e non avrebbe voluto vederlo guardare un'altra donna con quello stesso sguardo.
Rashid non l'aveva mai guardata quel modo? Non era mai balenato, nella mente di Jasmine, il pensiero che Rashid avesse guardato la sua Favorita proprio a quel modo, facendole sentire quello spasimo proibito e furtivo nel desiderare le sue carezze?
Lei sì! Non poteva evitarsi di pensare alle mani dolcemente brutali di Harith mentre percorrevano il corpo di Fatima, così come aveva fatto con lei; alla presa intensa e dolce, tenera e predace con cui le faceva intendere che la voleva solo per sé, mentre lei non sopportava che lui potesse volere per sé anche Fatima.
I fuochi dei bivacchi, d'intorno, baluginavano; a spezzare il suo taciturno disagio arrivarono risate, voci e gridolini: un gruppo di ragazze con piatti fumanti e vassoi pieni di coppe e brocche.
Letizia si alzò per andare loro incontro; dalle mani di una delle ragazze prese un grosso piatto di terracotta contenente del cus-cus e cominciò a distribuirlo, con gentilezza aggraziata, muovendosi agile nella tunica di seta blu-indaco.
Gridolini, bisbigli, risate, confusione e il tintinnio delle brocche che si toccavano e l'allegria conquistò tutti.
Letizia cominciò a servire quelli che stavano seduti alla sua sinistra; riempì per primo il piatto di Selima, poi passò ad Ibrahim, che con disinvoltura cominciò a frugare nel piatto, lasciandovi, però, i pezzi migliori.
Era la volta di Fatima, che sporse verso di lei la piccola mano grassoccia per afferrare dal vassoio e portarlo nel proprio piatto, una polputa coscia d'anatra; la ragazza sollevò su di lei lo sguardo e le sorrise.
Letizia rispose al sorriso e mentre si rialzava sul busto e distrattamente lanciava un'occhiata sulla sinistra, il vassoio, semivuoto, le tremò in mano, tanto che dovette sorregerlo con entrambe: le mani di Fatima e quelle di Ibrahim erano teneramente intrecciate.
La ragazza non proferì verbo, ma un senso di ingiustizia morale, quasi fisico, fece emergere dai meandri più profondi del suo intimo quel sentimento di velato rancore che, una volta innescato, era impossibile dominare: Harith la preferiva ad una donna che lo tradiva con un altro!
Impassibile in volto, oltrepassò la figura accovacciata della rivale e si fermò alle spalle di Harith, sporgendo in avanti la grossa ciotola del cus-cus; dall'altra parte del circolo, il piccolo Akim stava strabiliando con qualcuno dei suoi giochetti.
Harith si servì; Letizia ritirò il vassoio. China su di lui, gli sfiorò le spalle possenti e dai muscoli nervosamente vibranti e lui la trattenne per un braccio.
Pulsazioni incontrollate, a quel contatto, che non riusciva nè voleva reprimere, l'assalirono di colpo: la parte più misteriosa ed attraente del suo intimo, quella che suo malgrado doveva restare in ombra, insorse.
Con gesto brusco si divincolò, liberandosi della stretta, ma il vassoio le sfuggì di mano, cadendo rovinosamente a terra con il resto del contenuto. Soffocando un singhiozzo, si portò le mani al volto, poi si allontanò di corsa, non prima di aver lanciato al giovane uno sguardo indefinibile.
"Torna qui, Letizia. - la richiamò la voce di Zaira - E' soltanto un po' di cibo!"
"Ma che cosa è successo?" la voce di Akim.
"Letizia ha rovesciato il vassoio del cus-cus - la voce di Jasmine - e adesso..."
Altre voci, tutte benevoli e gentili, la seguirono, ma la loro eco si perse alle sue spalle; Harith balzò in piedi e la seguì immediatamente.
Seduti in circolo a gambe incrociate nel grande piazzale davanti alla tenda di Rashid, l'amato rais, tutta la tribù era presente: bianchi mantelli, abiti sgargianti, pugnali, fucili e strumenti musicali; alle loro spalle la luna illuminava la sabbia.
Sir Richard, gambe incrociate, pugnale infilato alla cintola, parlava con lo sceicco Harith seduto alla sua destra. Parlavano dell'ultimo acquisto di armi, una mezza dozzina di fucili provenienti dall'Italia appena riunita, precisamente da quello che, ancor meno di una decade prima, il professor Marco Starti chiamava Stato Pontificio, cui qualche trafficante d'armi era riuscito a portar via.
A Sahab arrivavano armi da ogni parte d'Europa, come ad ogni altra tribù del deserto, le quali facevano affari con italiani, francesi, tedeschi e inglesi, naturalmente.
Harith mostrò al lord il fucile che teneva in mano e sir Richard non riuscì a trattenere la mordace e pacata ironia di cui era dotato:
"Ecco una canna che è passata dal servizio di Cristo a quello di Allah!" disse, da buon miscredente qual era.
Si aspettava la replica, naturalmente, ma le note del tandir di Selima, la Favorta di Rashid, lo salvarono dall'imbarazzo.
"Oh, brava Selima. - esordì Zaira, la figlia dell'asceta indiano, rivolta verso la ragazza - Allietaci con la tua musica... é dolce e malinconica, ma assai bella."
Selima restituì il sorriso.
"E' una melodia che mi ha insegnato Letizia. - spiegò - E' il canto d'amore di una fanciulla che si strugge per un amore non corrisposto..."
Di fronte al lord inglese, dall'altro lato del circolo, Letizia appariva assorta e distante. Irraggiungibile; neppure il suono del suo nome parve scuoterla.
Aveva di fianco le due donne di Rashid: la principessa Jasmine alla sua destra e Selima alla sinistra; di fronte, invece, sedevano Harith e Fatima, la sua promessa sposa. Parve scuotersi, infine e fece convergere lo sguardo sulle corde dello strumento che le mani di Selima pizzicavano con maestria.
Sollevò il capo e lasciò vagare d'intorno lo sguardo sulle note dolcissimamente malinconiche della musica, ma finì per naufragare in quello di Harith, scuro e penetrante, che la fissava con intensità tale da farla arrossire.
Si guardarono, con quella tenerezza e quell'amore schivo ma potente come la forza di una tempesta di sabbia, ma lei si sottrasse a quel richiamo e guardò la donna seduta al suo fianco.
"E' bella! - pensava - E' grassa e opulenta come piace a loro... agli uomini... Come piace ad Harith... "
Guardava la rivale; fissava la sua figura fin troppo opulenta che si perdeva nell'ombra di sete e damaschi e su cui, qua e là, al lume della luna comparsa in cielo, balenavano discreti, orecchini, collane e bracciali. E supponeva, mentre la guardava, di non avere strumenti per contrastarne le segrete, sapienti insidie amorose : dietro quel velo sapientemente calato sul viso, pensava, dovevano nascondersi fascini segreti e pratiche amorose a lei sconosciuti.
Fatima era la sola donna col volto velato; tutte le altre portavano solo un velo sui capelli.
Fu per questo, forse, che con un gesto di ribellione se lo lasciò scivolare sulle spalle, mettendo in mostra la luminosità dorata dei lunghi capelli biondi e attirando immediatamente su di sé tutti gli sguardi e cogliendo fuggevolmente quello di disapprovazione di Harith, che lei continuava ostinatamente a sfuggire. E intanto, quel tarlo, la gelosia, correva nel sangue e nelle vene e raggiungeva il cuore, sottile e penetrante, capace di rodere l'animo con un sol respiro.
Soffriva e la mente vacillò e una sola cosa riusciva a pensare: appartenere a lui le era più necessario e vitale della vita stessa e per questo non poté impedirsi di tornare a rituffare lo sguardo in quello di lui, nero e ardente, colmo di illusorie promesse.
D'improvviso, però, un piacere quasi folle la colse: la sensazione che anche lui soffrisse.
Dopotutto, c'era una certa "giustizia morale" nella sofferenza di lui, si disse.
Ma poi, Fatima che gli si accostava e lui che si chinava verso di lei, riaccese la sua pena. Chiuse gli occhi e si attanagliò le mani intorno alle braccia premendo con forza e provando un piacere sadico nel conficcarsi le unghia nella carne per placare la pena dello spirito.
Quasi si stupì che qualcuno ridesse e scherzasse, proprio accanto a lei, ignaro della sua sofferenza: la principessa Jasmine protesa in avanti per dire qualcosa a Selima.
Letizia le guardò entrambe; le fissò stupita e interdetta... Gelose! Non erano gelose l'una dell'altra? Soprattutto Selima per le attenzioni che Rashid riservava quasi esclusivamente alla principessa Jasmine.
E Jasmine? Non era gelosa di Selima?
Avevano la stessa età, lei e Jasmine e quando Harith la guardava con quello sguardo inafferrabile, all'inseguimento di pensieri audaci e proibiti che la riguardavano e la facevano arrossire, lei sentiva la propria carne contrarsi dal piacere e non avrebbe voluto vederlo guardare un'altra donna con quello stesso sguardo.
Rashid non l'aveva mai guardata quel modo? Non era mai balenato, nella mente di Jasmine, il pensiero che Rashid avesse guardato la sua Favorita proprio a quel modo, facendole sentire quello spasimo proibito e furtivo nel desiderare le sue carezze?
Lei sì! Non poteva evitarsi di pensare alle mani dolcemente brutali di Harith mentre percorrevano il corpo di Fatima, così come aveva fatto con lei; alla presa intensa e dolce, tenera e predace con cui le faceva intendere che la voleva solo per sé, mentre lei non sopportava che lui potesse volere per sé anche Fatima.
I fuochi dei bivacchi, d'intorno, baluginavano; a spezzare il suo taciturno disagio arrivarono risate, voci e gridolini: un gruppo di ragazze con piatti fumanti e vassoi pieni di coppe e brocche.
Letizia si alzò per andare loro incontro; dalle mani di una delle ragazze prese un grosso piatto di terracotta contenente del cus-cus e cominciò a distribuirlo, con gentilezza aggraziata, muovendosi agile nella tunica di seta blu-indaco.
Gridolini, bisbigli, risate, confusione e il tintinnio delle brocche che si toccavano e l'allegria conquistò tutti.
Letizia cominciò a servire quelli che stavano seduti alla sua sinistra; riempì per primo il piatto di Selima, poi passò ad Ibrahim, che con disinvoltura cominciò a frugare nel piatto, lasciandovi, però, i pezzi migliori.
Era la volta di Fatima, che sporse verso di lei la piccola mano grassoccia per afferrare dal vassoio e portarlo nel proprio piatto, una polputa coscia d'anatra; la ragazza sollevò su di lei lo sguardo e le sorrise.
Letizia rispose al sorriso e mentre si rialzava sul busto e distrattamente lanciava un'occhiata sulla sinistra, il vassoio, semivuoto, le tremò in mano, tanto che dovette sorregerlo con entrambe: le mani di Fatima e quelle di Ibrahim erano teneramente intrecciate.
La ragazza non proferì verbo, ma un senso di ingiustizia morale, quasi fisico, fece emergere dai meandri più profondi del suo intimo quel sentimento di velato rancore che, una volta innescato, era impossibile dominare: Harith la preferiva ad una donna che lo tradiva con un altro!
Impassibile in volto, oltrepassò la figura accovacciata della rivale e si fermò alle spalle di Harith, sporgendo in avanti la grossa ciotola del cus-cus; dall'altra parte del circolo, il piccolo Akim stava strabiliando con qualcuno dei suoi giochetti.
Harith si servì; Letizia ritirò il vassoio. China su di lui, gli sfiorò le spalle possenti e dai muscoli nervosamente vibranti e lui la trattenne per un braccio.
Pulsazioni incontrollate, a quel contatto, che non riusciva nè voleva reprimere, l'assalirono di colpo: la parte più misteriosa ed attraente del suo intimo, quella che suo malgrado doveva restare in ombra, insorse.
Con gesto brusco si divincolò, liberandosi della stretta, ma il vassoio le sfuggì di mano, cadendo rovinosamente a terra con il resto del contenuto. Soffocando un singhiozzo, si portò le mani al volto, poi si allontanò di corsa, non prima di aver lanciato al giovane uno sguardo indefinibile.
"Torna qui, Letizia. - la richiamò la voce di Zaira - E' soltanto un po' di cibo!"
"Ma che cosa è successo?" la voce di Akim.
"Letizia ha rovesciato il vassoio del cus-cus - la voce di Jasmine - e adesso..."
Altre voci, tutte benevoli e gentili, la seguirono, ma la loro eco si perse alle sue spalle; Harith balzò in piedi e la seguì immediatamente.
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![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/4781605.jpg?288)
"Tieni. - Harith pose un ginocchio a terra, ai piedi dell'immenso divano turco, tendendo il suo fazzoletto a scacchi bianco e nero - Prendi questo o il tuo velo resterà macchiato per sempre."
"lo so!... Ma mi ricorderà di tenere a freno il mio carattere ribelle e testardo." tornò a ferirlo lei e lui tese la mano per un carezza, ma lei si ritrasse, con un lampo di timore negli occhi.
"No! No! - proruppe lui - Non voglio farti del male. Volevo solo farti un carezza."
"Che io non voglio! - rispose lei in un improvviso ed inatteso singulto di pianto che lo colse dolorosamente di sorpresa e che lei trattenne subito - Io non voglio nulla da te. Io non sono una di voi, Harith... Non sono una delle vostre donne tranquille e silenziose, docili e sottomesse. No! - continuò trattenendo il pianto - Io non sono come Jasmine o come Fatima e... tanto meno come Selima... sempre sorridenti e remissive... "
"Lo so! - la sorprese lui - Ed è per questo che ti amo, piccola Letizia. Perché sei diversa da ogni altra donna che io abbia conosciuto."
"Ami me, però sposi un'altra donna... che di certo non ti ama quanto ti amo io."
Lui ebbe un sorriso; tentò nuovamente di accarezzarla, ma lei lo prevenne. Lasciò andare il velo e gli afferrò la mano con entrambe le sue, impedendogli il gesto affettuoso.
"Mi ami ancora, dunque?" disse lui lasciandosi serrare la mano.
"... anche se non ti impedirà di sposare Fatima. - singhiozzò lei - Ma non ti permetterà di avere anche me, - sottolineò - perché io fuggirò ancora, Harith, se oserai sfiorarmi anche solo per una carezza."
"Non piangere, ti prego. Io non sposerò Fatima. - replicò Harith, serio in volto - Io voglio sposere te, Letizia e questa mattina non ti ho ignorata... volevo... dovevo parlare con Fatima per chiarire ogni cosa. Ti ho cercata per tutto il giorno per dirtelo... poi ti ho vista arrivare e sedere di fronte a me.... quasi a volermi sfidare, ah.ah.ah..." sorrise, sollevando il ginocchio da terra ed alzandosi per sedere sul divano accanto a lei, poi, con estrema tenerezza la liberò del cuscino, che lasciò cadere per terra.
Letizia taceva; i bellissimi occhi azzurri seguirono l'evoluzione del cuscino che toccava terra alla sinistra di lui, poi lo sguardo, velato, umiliato e ferito converse sulla mano che lui tendeva verso la guancia colpita.
"Ti fa male?" lo sentì domandare con voce afflitta.
"Non era una carezza!" rispose per la seconda volta.
"Mi dispiace! Non sai quanto mi dispiace, piccola mia. Io non ho mai alzato un dito su una donna... Mai! E l'ho fatto proprio con te... Non me lo perdonerò mai."
"Non è stato lo schiaffo a ferirmi. - Letizia stentava a trattenere il pianto, liberatorio ed incontrolabile che, però, la faceva sentire debole e vulnerabile: proprio come lei non voleva mostrarsi - Ma non ho capito di quale colpa tu abbia voluto punirmi." replicò.
"Nessuna colpa, Luce degli occhi miei! - lui le passò un braccio intorno alla vita e l'altro sotto le ginocchia e l'attirò in grembo - Non volevo farti del male... - le accarezzò teneramente la guancia colpita - Come potrei fare del male proprio a te? E' stato come un attimo di follia.... Allah mi è testimone! Ero furioso. Sì, ero furioso, ma contro me stesso e contro tutti..."
"Capisco! " Letizia sollevò il capo.
"Non piangere, ti prego! - lui le asciugò gli occhi con l'indice della mano - Io non mi perdonerò mai per questo, ma mi farò perdonare da te... lo prometto! E non permetterò più a nessuno di farti del male... Quando sarai la mia sposa..."
"La tua sposa? - lo interruppe lei - Davvero non vuoi più sposare Fatima?"
"Non l'ho mai voluto..." rispose lui chinandosi a baciarle il bel volto proteso.
"Ma vi siete pubblicamente scambiati la promessa... Tu le hai presentato i tuoi doni... la sua dote! - replicò lei - Se tu ricusi questo matrimonio, che cosa accadrà fra le vostre tribù?... Fra i Kinda e gli Aws? Quale sarà la reazione degli Aws? Tu... tu davvero infrangeresti un accordo che per generazioni ha assicurato la pace fra la vostra gente? E... e lo faresti per me? No! No, Harith! Io non voglio essere causa di scontri fra la tua gente e gli Aws... perché questo accadrà quando Fatima tornerà tra la sua gente."
"Io non tornerò dalla mia gente. - la voce di Fatima, comparsa nel vano del lembo sollevato della tenda che fungeva da entrata, li fece volgere entrambi; Letizia balzò in piedi - Io aspetto un figlio!"
"Da Ibrahim?" fu l'istintiva domanda della figlia del mercante greco.
"E tu come fai a saperlo?" anche Harith si alzò; Letizia scosse il capo e Fatima assentì.
"Sì! Aspetto un figlio da Ibrahim, perciò, non sarai tu la causa di un conflitto fra le nostre tribù, Letizia. E' mia la colpa!"
"L'amore non è una colpa quando è vero e sincero. - la possente figura di Ibrahim illuminata dalla luce della luna che filtrava attraverso l'apertura, il più forte ed atletico della tribù Kinda, comparve alle spalle di Fatima - Noi due ci amiamo e aspettiamo un figlio... gli Anziani dovranno acconsentire al nostro matrimonio. Ma non saremo causa di conflitti e scontri - aggiunse -poiché lasceremo questa parte del deserto se non ci saranno consensi."
"No! - interloquì Harith in tono deciso - Sarà proprio il vostro matrimonio ad assicurare la pace fra le nostre tribù e questo figlio in arrivo è una benedizione per tutti!"
"lo so!... Ma mi ricorderà di tenere a freno il mio carattere ribelle e testardo." tornò a ferirlo lei e lui tese la mano per un carezza, ma lei si ritrasse, con un lampo di timore negli occhi.
"No! No! - proruppe lui - Non voglio farti del male. Volevo solo farti un carezza."
"Che io non voglio! - rispose lei in un improvviso ed inatteso singulto di pianto che lo colse dolorosamente di sorpresa e che lei trattenne subito - Io non voglio nulla da te. Io non sono una di voi, Harith... Non sono una delle vostre donne tranquille e silenziose, docili e sottomesse. No! - continuò trattenendo il pianto - Io non sono come Jasmine o come Fatima e... tanto meno come Selima... sempre sorridenti e remissive... "
"Lo so! - la sorprese lui - Ed è per questo che ti amo, piccola Letizia. Perché sei diversa da ogni altra donna che io abbia conosciuto."
"Ami me, però sposi un'altra donna... che di certo non ti ama quanto ti amo io."
Lui ebbe un sorriso; tentò nuovamente di accarezzarla, ma lei lo prevenne. Lasciò andare il velo e gli afferrò la mano con entrambe le sue, impedendogli il gesto affettuoso.
"Mi ami ancora, dunque?" disse lui lasciandosi serrare la mano.
"... anche se non ti impedirà di sposare Fatima. - singhiozzò lei - Ma non ti permetterà di avere anche me, - sottolineò - perché io fuggirò ancora, Harith, se oserai sfiorarmi anche solo per una carezza."
"Non piangere, ti prego. Io non sposerò Fatima. - replicò Harith, serio in volto - Io voglio sposere te, Letizia e questa mattina non ti ho ignorata... volevo... dovevo parlare con Fatima per chiarire ogni cosa. Ti ho cercata per tutto il giorno per dirtelo... poi ti ho vista arrivare e sedere di fronte a me.... quasi a volermi sfidare, ah.ah.ah..." sorrise, sollevando il ginocchio da terra ed alzandosi per sedere sul divano accanto a lei, poi, con estrema tenerezza la liberò del cuscino, che lasciò cadere per terra.
Letizia taceva; i bellissimi occhi azzurri seguirono l'evoluzione del cuscino che toccava terra alla sinistra di lui, poi lo sguardo, velato, umiliato e ferito converse sulla mano che lui tendeva verso la guancia colpita.
"Ti fa male?" lo sentì domandare con voce afflitta.
"Non era una carezza!" rispose per la seconda volta.
"Mi dispiace! Non sai quanto mi dispiace, piccola mia. Io non ho mai alzato un dito su una donna... Mai! E l'ho fatto proprio con te... Non me lo perdonerò mai."
"Non è stato lo schiaffo a ferirmi. - Letizia stentava a trattenere il pianto, liberatorio ed incontrolabile che, però, la faceva sentire debole e vulnerabile: proprio come lei non voleva mostrarsi - Ma non ho capito di quale colpa tu abbia voluto punirmi." replicò.
"Nessuna colpa, Luce degli occhi miei! - lui le passò un braccio intorno alla vita e l'altro sotto le ginocchia e l'attirò in grembo - Non volevo farti del male... - le accarezzò teneramente la guancia colpita - Come potrei fare del male proprio a te? E' stato come un attimo di follia.... Allah mi è testimone! Ero furioso. Sì, ero furioso, ma contro me stesso e contro tutti..."
"Capisco! " Letizia sollevò il capo.
"Non piangere, ti prego! - lui le asciugò gli occhi con l'indice della mano - Io non mi perdonerò mai per questo, ma mi farò perdonare da te... lo prometto! E non permetterò più a nessuno di farti del male... Quando sarai la mia sposa..."
"La tua sposa? - lo interruppe lei - Davvero non vuoi più sposare Fatima?"
"Non l'ho mai voluto..." rispose lui chinandosi a baciarle il bel volto proteso.
"Ma vi siete pubblicamente scambiati la promessa... Tu le hai presentato i tuoi doni... la sua dote! - replicò lei - Se tu ricusi questo matrimonio, che cosa accadrà fra le vostre tribù?... Fra i Kinda e gli Aws? Quale sarà la reazione degli Aws? Tu... tu davvero infrangeresti un accordo che per generazioni ha assicurato la pace fra la vostra gente? E... e lo faresti per me? No! No, Harith! Io non voglio essere causa di scontri fra la tua gente e gli Aws... perché questo accadrà quando Fatima tornerà tra la sua gente."
"Io non tornerò dalla mia gente. - la voce di Fatima, comparsa nel vano del lembo sollevato della tenda che fungeva da entrata, li fece volgere entrambi; Letizia balzò in piedi - Io aspetto un figlio!"
"Da Ibrahim?" fu l'istintiva domanda della figlia del mercante greco.
"E tu come fai a saperlo?" anche Harith si alzò; Letizia scosse il capo e Fatima assentì.
"Sì! Aspetto un figlio da Ibrahim, perciò, non sarai tu la causa di un conflitto fra le nostre tribù, Letizia. E' mia la colpa!"
"L'amore non è una colpa quando è vero e sincero. - la possente figura di Ibrahim illuminata dalla luce della luna che filtrava attraverso l'apertura, il più forte ed atletico della tribù Kinda, comparve alle spalle di Fatima - Noi due ci amiamo e aspettiamo un figlio... gli Anziani dovranno acconsentire al nostro matrimonio. Ma non saremo causa di conflitti e scontri - aggiunse -poiché lasceremo questa parte del deserto se non ci saranno consensi."
"No! - interloquì Harith in tono deciso - Sarà proprio il vostro matrimonio ad assicurare la pace fra le nostre tribù e questo figlio in arrivo è una benedizione per tutti!"
Cap. II - La principessa Jasmine
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/2069231.jpg?381)
Raschid scostò il lembo della tenda che fungeva da apertura e guardò fuori.
C’era la principessa Jasmine nel piazzale, ad alcune decine di metri più avanti; era seduta all’ombra di un grosso telone, attorniata da un bel numero di bambini; una trentina almeno che, contrariamente alle proprie abitudini, stavano ad ascoltare la sua musica, quieti quieti.
Un bel quadretto, la vista di quei visetti sorridenti ei gioiosi, sporchi di sabbia e succo di melone, dagli sguardi vivaci e birichini, piccoli corpi seminudi e piedini scalzi. Un quadretto che strappò un sorriso al grande predone di Ar-Rimal.
Lo splendido volto incorniciato dalla massa setosa dei lunghi capelli neri, Jasmine guardava con lo stesso sorriso il suo festoso auditorio.
Il capo non era velato e non impediva al riverbero della luce sul terreno di strappare riflessi azzuro-argento ai capelli di un nero corvino.
Stava suonando il liuto e le sue dita si muovevano con maestria sulle corde dello strumento.
Dopo un po’, però, lasciò il liuto ed aprì il libro che teneva sulle ginocchia; e, come ubbidendo ad un tacito comando, i bambini si affannarono tutti a scarabocchiare qualcosa sulle tavolette che tenevano in mano.
“I bambini di Sahab hanno trovato il loro Maestro. Qualcuno già legge il Corano.” esordì sir Richard, alle spalle di Raschid, sbirciando anch’e gli fuori della tenda.
Il suo sguardo, però, oltre il gruppo raccolto intorno al “Maestro” e si spinse oltre, fino a raggiungere l’argine di uno wady che scorreva tra sassi e pietre e dove un gruppo di lavandaie ridevano e scherzavano battendo i panni su rocce grosse e lisce.
Sguardi di donne, d’intorno, brillanti e accesi. Donne dal sorriso timido e l’espressione ardita. e consapevole: consapevole di essere importanti per gli uomini quanto questi lo erano per loro.
Nessuna di loro portava veli, come invece la consuetudine comandava di fare alla donna islamica e nessuno di loro mostrava sottomissione: tutte libertà sconosciute alla donna araba-islamica.
“E Akim è un ottimo assistente del “Maestro”. Guardatelo, sir! – sorrise Rashid tendendo una mano in avanti – Guardate con quanto interesse segue i suoi piccoli scolari. E… - aggiunse dopo una breve pausa - è stato lui a procurare tutte quelle tavolette e quei gessetti.”
“Oh.Oh… - fece il lord – Mi chiedo dove abbia scovato tutto quel materiale.”
“Dentro una grossa cassa abbandonata in deposito, - rispose Rashid - che ha completamente svuotato, trovandovi un mucchio di cose interessanti… Non pare anche a voi, sir, di essere in una Madrasa?” aggiunse.
“Che cos’è una Madrasa?”
“Una scuola. – spiegò Rashid – Una scuola dove si insegna a leggere il Corano.”
“Perché?… Ci sono scuole specializzate per questo?”
“Sono scuole dove si insegna a capire il significato delle cose e se non ci fosse un Maestro a spiegare il loro significato nascosto…. Ma ci sono altre Scuole – s’affrettò a chiarire il beduino, cogliendo l’espressione stupita e scettica comparsa sul volto del suo ospite, poi continuò – Sono scuole per imparare a leggere e scrivere… Sono le Kuttab... ma sono meno numerose delle prime.”
“Capisco! - commentò senza troppo convincimento il lord, poi pensò alle Scuole Religiose europee e replicò -E’ quel che succede anche in Europa.”
“A Sahab, però, i nostri bambini non hanno bisogno di quelle scuole: Jasmine è molto saggia ed Akim era il discepolo prediletto del vecchio Mayrana. Impareranno molte cose da loro.”
“Tutti imparano qualcosa da tutti, qui a Sahab!” una voce fece dirottare l’attenzione dei due amici verso il piazzale intorno a cui erano sistemate le tende.
Era Ibrahim, figlio di Abu Ibrahim, che stava sopraggiungendo e che indicava un gruppo di ragazze indaffarate intorno a telai, fusi, pietre da macina, lana da cardare e altro.
“Mi hai fatto chiamare, Rashid? - domandò - Abdel ha detto che volevi parlare con me.”
Alcune giovani donne, intanto, dalle vesti dai colori tenui, brocche di biblica forma in testa o contro i fianchi, stavano tornando da uno dei pozzi al limitare dell’oasi; Ibrahim le guardò: una di loro era sua sorella Agar.
Le ragazze si fermarono qualche attimo ad ascoltare la musica del liuto che la principessa Jasmine aveva ripreso in mano.
“Sì, Ibrahim. C'è il fratello di Fatima che aspetta sotto la tenda di Harith... ”
Rashid dirottò sulla propria persona l’attenzione del giovane.
Ibrahim, sempre pronto, sempre attivo, intuitivo, che alle qualità diplomatiche assommava la notevole prestanza fisica, era tenuto in grande considerazione dal suo capo, cosa che, naturalmente, inorgogliva molto suo padre Abdel.
E questo, soprattutto dopo gli scontri con la sanguinaria setta dei Figli della Dea-Vivente, che lo aveva visto sempre in prima linea.
Per di più, quel figlio così audace e da tutti rispettato come un’autorità, aveva fatto accrescere notevolmente il suo prestigio in seno alla tribù dei Kinda. Il suo parere, adesso, nei Consigli degli Anziani, godeva di maggior prestigio. Egli stesso non era più solo un uomo, ma era
l’ abu: il padre di suo figlio. Quando gli altri si rivolgevano a lui, non lo chiamavano più semplicemente Abdel, ma Adel abu Ibrahim e del suo Ibrahim, Abel era davvero fiero.
Nel suo thob di lino bianco, che sua madre Alina aveva tessuto e confezionato durante tutta la primavera scorsa, Ibrahim, a capo scoperto, seguì Rachid che, con il lord inglese aveva lasciato la tenda.
Il thob era una lunga tunica bianca aperta sul petto e stretta sui fianchi e costituiva l’abbigliamento predominante del beduino; sopra di esso spiccava il burnus di vario colore; quello di Ibrahim era color dattero.
I tre giovani attraversarono il campo;
Passando accanto al gruppetto di scolari il rais si fermò.
“Vi raggiungerò da Harith. – disse, si staccò dal gruppo e si avvicinò a Jasmine .
“I tuoi allievi fanno progressi.” disse fermandosi alle spalle della ragazza.
Jasmine girò il capo e sollevò lo sguardo su di lui; un dolce tremore sulle labbra e un lieve rossore sul bellissimo volto; s’infiammò, invece quello del giovane , bello di maschia bellezza, dai contorni energici e dallo sguardo da animale da preda.
“Vediamo quello che questi scolari hanno scritto sulle loro tavolette.” disse.
Ognuno dei piccoli scribi mostrò con orgoglio i propri scarabocchi; ognuno voleva dire, parlare, scherzare, mostrare, turbolenti, ma felici di apprendere
“Sono molto orgogliosa dei miei alunni. – esclamò Jasmine, tendendo una mano che Rashid raccolse con gesto affettuoso per aiutarla a rialzarsi dalla stuoia su cui era seduta – Sono curiosi e diligenti e cominciano a fare tante domande.”
“Sono molto attenti.” riconobbe il giovane.
“Ho letto loro la più bella pagina del Corano.” sorrise la principessa.
“Quale pagina?” domandò lui, sempre sorridendo.
“Quella di Agar e di suo figlio Ismaele che lasciano le querce di Mambre per tornare in Egitto.”
“Oh! – esclamò il grande predone – Piaceva anche a me quella storia… - poi, indicando il Corano – Molto bello! – osservò – Chi te lo ha donato?”
“Io. – esordì il piccolo Akim – Un Maestro deve possedere un testo e io l’ho cercato fino a quando non l’ho trovato.”
“Bravo Akim!”
Rashid tese una mano verso la zazzera scura, scomposta e contorta come tanti piccoli serpentelli; anche Jasmine gli accarezzò il capo, poi gli porse il libro con il compito di continuare la lettura e seguì Rashid che la condusse verso l’ombra di una palma.
“Vedi, Rashid… - la principessa ruppe il silenzio - E’ destino che tutti gli oggetti più cari tornino nelle mie mani… Quel Corano è mio... sulla prima pagina vi è inciso il mio nome. Akim l’ha trovato in una cassa che viaggiava con la carovana di Sayed Alì. - spiegò, tendendo una mano verso il gruppo di scolari che si era già scomposto e di Akim che si stava allontanando con uno di loro ed a cui stava mostrando qualcosa - Quell’uomo infame… - Jasmine non riuscì a trattenere un sospiro amaro - Ho vissuto inconsapevole, una vita di inganni.” sussurrò.
“Adesso, mio bene, ti attende una vita piena d’amore e serenità.” disse con enfasi il giovane, avvolgendola in uno sguardo che era una carezza.
“Vivevo serena a Doha. – spiegò lei in tono quasi di scusa – Vivevo serena ed ignara, nelle mani del mio più grande nemico, artefice di tutte le sciagure mie e della mia famiglia … E pensare che credevo te e la tua gente, la causa di ogni mia tragedia… Oh,che orrore! Che orrore!”
Jasmine scoppiò in lacrime; era la prima volta che Rashid la vedeva piangere e ne restò sconvolto.
“Cancellerò dalla tua mente tutti i ricordi tristi, mio tesoro e ti restituirò, invece, quelli lieti e le cose liete che ti sono state tolte… - la strinse forte a sé – Un giorno ti porterò a Doha.”
“A Doha?” esclamò Jasmine in tono inquieto ed allarmato, sollevando lo sguardo sul giovane ed accogliendo in un unico colpo d’occhio le tende assediate da palme, a loro volta assediate da sabbia, ma assi più sicure delle mura fortificate di Doha da cui era fuggita.
“Sì, Jasmine. Nella reggia dove hai vissuto per anni e dove io sono nato.”
“Rashid!…” proruppe lei al colmo dello stupore; sulle cime delle palme, il sole prossimo al tramonto brillava in una calma insolita mentre invece, sotto l’ombrello delle larghe foglie, si udivano leggeri fruscii, pacifici e familiari.
“Sì!… Sì, Jasmine. Io sono l’unico sopravvissuto al massacro della mia famiglia – una pausa, per acquietare il cupo rancore che il ricordo di quegli eventi dovevano ancora scatenare nel suo cuore e nel suo cervello - Mio padre, Hamad Mohammed Al Thani…”
“Tu… tu sei, dunque, il figlio del sultano Mohammed Al Thani?” lo interruppe la principessa sgranando gli splendidi occhi dall’indefinibile colore.
“Il maggiore Honey, di Sua Maestà Britannica e gli uomini di Sayed Alì hanno massacrato la mia famiglia… mio padre, mia madre, mio fratello Tamin e altri… Io… io sono l’unico sopravvissuto…”
“Tu… tu, mio adorato, sei il solo sopravvissuto al massacro della tua famiglia?”
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Era la prima volta che lei lo chiamava con quel tenero appellativo e Rashid si intenerì. I suoi sguardi si fecero intensi e il volto proteso di Jasmine si imporporò, mentre raccoglieva il velo di mussola trasparente impreziosito da pietre, ognuna delle quali per proteggersi da qualcosa.
Come aveva già fatto sulla terrazza de palazzo di Doha, Rashid la trattenne, ma il suo sguardo era così penetrante ed audace da giustificare, pensò la principessa, il dettame islamico per la donna di coprirsi il volto… ma quegli sguardi erano un dono inestimabile, dopo tanta sofferenza.
“La corte, i sostenitori di mio padre… tutti massacrati o venduti schiavi – ruggì il giovane, con quello sguardo tremendo e fiammeggiante che Jasmine gli aveva visto solo una volta: nei sotterranei della Grotta Maledetta – Non dimenticherò mai lo spettacolo di quella mattina… nel piazzale del palazzo di Sayed… un mucchio di teste accatastate per terra e in mezzo quelle di mio padre, mia madre, mia sorella…”
“Che orrore!
“Sì, Jasmine!… Terrificante!”
“Tu sei sfuggito al massacro.”
“Per pura avidità! – scandì con accento durissimo ed espressione temporalesca l’uomo davanti a cui tutto il deserto tremava – Ero solo un ragazzo e chi avrebbe dovuto curarsi della mia salvezza mi cedette in cambio di una borsa d’oro ad un mercante di schiavi… - ancora una pausa, per un lungo respiro e per raccogliere l’emozione – Iniziò proprio su quel palco infame la storia del Rais della tribù dei Kinda… la tribù più temuta di tutta Ar-Rimal”
Rashid fece seguire ancora una pausa, che Jasmine riempì con tutta la sua tenerezza, sfiorandogli la guancia un po’ ispida con la punta delle dita; egli raccolse fra le sue quella mano e se la portò alle labbra.
“Ero sul palco degli schiavi – il racconto riprese – ad Al-Hufu, quando i Kinda piombarono sul villaggio… Allah mi consentì di salvare la vita al principe Harith e suo padre, lo sceicco Abdel Assan, mi condusse in questo angolo di mondo che è diventata la mia tenda. Siamo cresciuti insieme, io e Harith. Come fratelli. Lo sceicco Assan ci avviò entrambi all’uso delle armi e quando Harith, alla morte di suo padre mi propose la carica di Rais della tribù dei Kinda, io non esitai un attimo ad accettare.”
“… diventando l’incubo di molta gente. – sorrise lei, sempre accarezzandogli il bel volto proteso – Primo fra tutti – aggiunse, con una punta di compiacimento nella voce – lo stesso Sayed Alì che aveva perfino il terrore di pronunciare il nome di Rashid e che parlava della tribù dei Kinda come di razziatori da catturare ed impiccare.”
“Ah.ah.ah… - rise il giovane - … soprattutto se i razziatori si portavano via preziosi, cavalli e donne.”
“Proprio quello che diceva Sayed.”
“I cavalli sono il premio per i razziatori… come dice Sayed, ah.ah.ah… più valenti. Mi sono guadagnato in questo modo il cavallo più conteso d’Arabia.”
“Parli del tuo Dahys?” domandò lei.
Raschid fece un cenno affermativo del capo, poi spiegò:
“Conteso da principi e sceicchi quando era ancora un puledro. – spiegò – Pronti a ricompensare a peso d’oro chi fosse riuscito a mettergli le briglie al collo. - sorrise, poi fece seguire una pausa per accarezzare il mento arrotondato di lei e sfiorare con infinita tenerezza le labbra colorate e morbide, rosse come un fiore di melograno ed indugiare sulla pelle morbida e levigata come l’avorio. – Conteso anche dai capi delle tribù del deserto, primo fra gli altri, lo sceicco dei Baqr.”
“Lo sceicco Harun?” domandò lei.
“Lo conosci?”
“”L’ho conosciuto molto tempo fa sotto la tenda di mio padre. So che è venuto a chiedere protezione allo sceicco Harith, dopo la contesa con il fratello Abd.”
“E’ così, infatti. Lo sai bene anche tu.”
Lotte tribali e guerre fratricide, lo sapeva bene la principessa di Shammar, erano frequenti fra le tribù del deserto: il possesso di un pozzo, di un’oasi o magari di un cavallo ed erano pronti ad incendiare gli orizzonti. Ma anche il diritto ad un titolo, come era accaduto ad Harun ed Abd, figli dello sceicco della tribù dei Baqr, che alla morte del capo se ne contesero il titolo scatenando un duro confronto, fino all’intervento di Harith, sceicco dei Kinda. che si era schierato con Harun.
“Già!… A Doha si parlava di Dahis, il cavallo del Rais dei Kinda. – assentì lei – Anche Sayed Alì l’avrebbe pagato a peso d’oro.”
“Quell’avvoltoio ha usato sempre due monete per raggiungere i suoi scopi: l’oro e la menzogna.” scandì Rashid con estremo disprezzo.
“Oh! – sospirò lei – Se ripenso alle orribili menzogne che mi disse di te, quando lasciasti Doha.”
“Avrei dovuto portarti via con me quello stesso giorno. – anche Rashid si lasciò andare in un sospiro profondo – Ti avrei evitato tanta sofferenza e… ne avrei evitata anchea me. – sorrise, mettendo in mostra la splendida chiostra di denti da giovane leopardo del deserto – Oh, Jasmine… Ricordi la sera in cui arrivasti al campo con quel vecchio Ibrahim, nei panni del povero pastorello Ahmud?”
“Quel travestimento mi salvò da tanti pericoli…”
“Se solo avessi immaginato, mia dolce Jasmine. – Rashid appariva commosso al ricordo - La tua vicinanza, il tuo dolce profumo, mio bene infinito, quando venisti a stenderti accanto a me sulla stuoia, mi procuravano un’emozione cui non riuscivo a dar un nome… e quanta tristezza, l’indomani mattina, nel non ritrovarti più sotto la tenda…”
“Ero angosciata e piena di paure. – confessò lei, levando il volto il cerca di carezze – Dopo tanti inganni non riuscivo a fidarmi di nessuno… Tutti mi facevano paura…perfino il vecchio Ibrahim… Come avrei potuto non aver paura di te, che credevo responsabile di ogni mia disgrazia?”
“Oh, Jasmine… io non so nulla di te, ma se per causa mia tu hai avuto a patire…”
“Oh, no, Rashid! No!… La mia famiglia è rimasta vittima di una di quelle tante contese… come hai detto tu, mio adorato, che infiammano queste sabbie ad intervelli quasi regolari, ma di cui tu non hai colpa alcuna. – precisò, poi cominciò a raccontare – Mio padre, lo sceicco Amud Kassin di Shammar, quando nacqui, per giorni e giorni si rifiutò di vedermi, perché la mia nascita era stata causa della morte di mia madre, che egli amava moltissimo. – una pausa per schiarisi la gola e un lungo respiro, poi Jasmine riprese, mentre lui si accingeva ad ascoltare: tutti conoscevano la pupilla del Sultano di Doha, ma nessuno conosceva la sua vera storia – Fu Leila, la seconda moglie di mio padre, ad occuparsi di me e solo due anni dopo, quando gli nacque il figlio maschio tanto desiderato, egli cominciò ad occuparsi ed interessarsi anche a me… “
Ancora una pausa; lo stormire del vento tra le palme, nel giorno vibrante di suoni acuti o sommessi, i due giovani erano come presi da uno stesso smarrimento, poi le si scosse.
“Io ed Amud, mio fratello, - riprese - eravamo molto legati e quando fummo cresciuti, egli cominciò a portarmi con sé a caccia o lungo le piste che si perdevano tra i le rocce… Io adoravo quella vita libera e spensierata... che tutti disapprovavano… Accadde che un giorno, mentre ero con lui… io avevo dieci anni e lui soltanto otto, fummo attaccati da un leone di montagna, che io misi in fuga con le frecce dell’arco di Amud. – Raschid ascoltava in silenzio – Ero terrorizzata al pensiero della punizione che mi aspettava, invece, mio padre rimase assai impressionato da quell’episodio e non si oppose più al mio desiderio di imparare ad usare le armi, né mi proibì le lunghe cavalcate nel deserto, anzi… - Jasmine levò lo sguardo sul giovane e sorrise, ma nel suo sguardo vi era un luccichio di pianto e la prima lacrima scese subito sulla guancia - … lui mi incoraggiò a farlo e mi fece dono di uno dei suoi cavalli più veloci… La mia era una vita felice e serena…”
Ancora una pausa, riempita solo dalla tenerezza del giovane che le asciugava il pianto con le labbra.
“Una notte fummo assaliti… io non conoscevo i nemici di mio padre… Non erano questioni per donne… Più tardi, Sayed Alì mi disse che erano stati gli uomini della tribù dei Kinda, guidati dal loro rais… Erano in molti… Lottammo a lungo. Io fui ferita e quando rinvenni, da uno stato che per molti giorni mi aveva lasciata tra la vita e la morte, mi trovai a Doha. Sayed Alì era molto premuroso con me e mi disse che era accorso in aiuto della mia gente e di mio padre perché era suo amico… Erano tutti morti, mi disse o fatti schiavi – un rivolo di lacrime, subito asciugato dalle labbra di lui, interruppe il racconto, poi - Troppo tardi! Quando scoprii l’inganno era troppo tardi! ...Sayed Alì e mio padre neppure si conoscevano… Ma io non lo sapevo. Sempre rinchiusa nelle mie stanze come una prigioniera… tenuta lontana da tutti, non lo sapevo. Per il mio bene, diceva… ma erano menzogne… menzogne…”
Jasmine parlava… raccontava… e Rashid l’ascoltava e la guardava come si guarda un prodigio: l’emozione e il pathos di un racconto tutto concentrato nello sguardo smarrito e colmo di rimpianto. Lui l’ascoltava e non osava interromperla neppure per le domande che avrebbe voluto farle; l’ascoltava, turbato dalla sua voce modulata e dolce, fatta per cantare ed incantare, che parlava, invece, di tragedie e tradimenti; l’ascoltava, turbato dall’amaro di quelle parole su labbra così dolci.
“Solo menzogne e inganni… nuovi inganni e orribili segreti che… che…”
Qui il racconto s’interruppe per l’ennesima volta e l’inquietudine, nello sguardo, sprofondò nell’angoscia; Rashid continuava ad asciugarle le lacrime e parve sul punto di dire qualcosa, ma una voce alle spalle glielo impedì:
“Ho portato del the.” diceva.
Era Selima. la favorita del grande predone, la quale poggiò per terra sulla stuoia, dove poco prima Jasmine sedeva con i suoi scolari, a cui Akim aveva dato permesso di allontanarsi, allontanandosi con loro per mostrare qualcosa.
L’espressione indecifrabile stampata sulla sua faccia, Se lima si fermò accanto ai due. Era una ragazza florida e grassa, così come molte altre donne della tribù; pancia e stomaco le sporgevano leggermente da sotto la tunica color dattero e le carni ondeggiavano in tutta la propria opulenza, mentre si muoveva. Gli occhi erano molto belli, neri e profondi, ma freddi come metallo ed affondavano tra due pieghe adipose.
Rahid la ringraziò con un sorriso e una fuggevole carezza sulla guancia.
Anche Selima sorrideva, mentre stendeva sulla stuoia vassoio e tazze: tre tazze, di cui però, riempì soltanto due, ma Rashid le indicò la terza e le fece cenno di sedere, mentre aiutava Jasmine.
Gli occhi delle due ragazze s’incontrarono: verdi, brillanti e un po’ velati quelli della principessa, neri, freddi e appannati quelli della Favorita.
Selima sorrise ancora, ma il suo sorriso suggerì cautela alla principessa Jasmine: un sorriso privo di quella curva all’angolo della bocca.
Un sorriso forzato e falso.
Ciò nondimeno, anche lei la ringraziò, come aveva fatto Rashid, prese la tazza dalle sue mani e l’accostò alle labbra.
“Racconta, mio bene.” la sollecitò il rais e Jasmine riprese, anche se la presenza della donna aveva spezzato il magico momento che s’era creato fra loro.
“Parla, Jasmine.” tornò a sollecitarla lui e Jasmine ripose la tazza sul vassoio e si passò il fazzolettino ricamato sulle labbra.
“Le intenzioni del Sultano di Doha nel venire in soccorso alla mia gente non erano dettate da amicizia o generosità, ma solo da calcolo, cupidigia ed inganno.”
La principessa riprese la parola, ma fece seguire subito un’ennesima pausa; Rashid e Selima tacevano entrambi ed entrambi non riuscirono a soffocare una esclamazione di profondo stupore alla rivelazione che seguì:
“Sayed Alì ed Hakam, il capo di quella setta di sanguinari… gli adoratori della Dea-Vivente… sono fratelli, figli della stessa madre.” concluse la principessa.
*******************************
Lasciata Jasmine in compagnia di Selima, con la speranza che le due ragazze facessero amicizia, Rashid s’incamminò verso la tenda del suo sceicco.
Rashid conosceva Selima da quasi tre anni, ma solo da un anno la ragazza era diventata la sua Favorita.
Selima apparteneva ad una tribù vassalla, i Kaza ed era arrivata a Sahab a seguito di un attacco alla sua gente da parte di una tribù nemica. Aveva compiuto da poco ventisei anni ed era una ragazza dall’aspetto florido e piuttosto piacente: labbra carnose e sensuali, occhio vivace e nero, fisico prorompente.
Non era l’unica distrazione del capo, naturalmente, ma era la più richiesta, tra le tante concorrenti, finendo per diventare un’abitudine ad ogni ritorno a Sabhab.
Negli ultimi mesi la ragazza aveva visto notevolmente accresciuto il suo prestigio, giorno dopo giorno, fino a quando, peeò, all’orizzonte non era apparsa l’ombra della principessa di Doha, la pupilla del Sultano, ma questo non aveva mai veramente scoraggiato la ragazza, avendo il giovane continuato a chiedere la sua compagnia.
Come aveva già fatto sulla terrazza de palazzo di Doha, Rashid la trattenne, ma il suo sguardo era così penetrante ed audace da giustificare, pensò la principessa, il dettame islamico per la donna di coprirsi il volto… ma quegli sguardi erano un dono inestimabile, dopo tanta sofferenza.
“La corte, i sostenitori di mio padre… tutti massacrati o venduti schiavi – ruggì il giovane, con quello sguardo tremendo e fiammeggiante che Jasmine gli aveva visto solo una volta: nei sotterranei della Grotta Maledetta – Non dimenticherò mai lo spettacolo di quella mattina… nel piazzale del palazzo di Sayed… un mucchio di teste accatastate per terra e in mezzo quelle di mio padre, mia madre, mia sorella…”
“Che orrore!
“Sì, Jasmine!… Terrificante!”
“Tu sei sfuggito al massacro.”
“Per pura avidità! – scandì con accento durissimo ed espressione temporalesca l’uomo davanti a cui tutto il deserto tremava – Ero solo un ragazzo e chi avrebbe dovuto curarsi della mia salvezza mi cedette in cambio di una borsa d’oro ad un mercante di schiavi… - ancora una pausa, per un lungo respiro e per raccogliere l’emozione – Iniziò proprio su quel palco infame la storia del Rais della tribù dei Kinda… la tribù più temuta di tutta Ar-Rimal”
Rashid fece seguire ancora una pausa, che Jasmine riempì con tutta la sua tenerezza, sfiorandogli la guancia un po’ ispida con la punta delle dita; egli raccolse fra le sue quella mano e se la portò alle labbra.
“Ero sul palco degli schiavi – il racconto riprese – ad Al-Hufu, quando i Kinda piombarono sul villaggio… Allah mi consentì di salvare la vita al principe Harith e suo padre, lo sceicco Abdel Assan, mi condusse in questo angolo di mondo che è diventata la mia tenda. Siamo cresciuti insieme, io e Harith. Come fratelli. Lo sceicco Assan ci avviò entrambi all’uso delle armi e quando Harith, alla morte di suo padre mi propose la carica di Rais della tribù dei Kinda, io non esitai un attimo ad accettare.”
“… diventando l’incubo di molta gente. – sorrise lei, sempre accarezzandogli il bel volto proteso – Primo fra tutti – aggiunse, con una punta di compiacimento nella voce – lo stesso Sayed Alì che aveva perfino il terrore di pronunciare il nome di Rashid e che parlava della tribù dei Kinda come di razziatori da catturare ed impiccare.”
“Ah.ah.ah… - rise il giovane - … soprattutto se i razziatori si portavano via preziosi, cavalli e donne.”
“Proprio quello che diceva Sayed.”
“I cavalli sono il premio per i razziatori… come dice Sayed, ah.ah.ah… più valenti. Mi sono guadagnato in questo modo il cavallo più conteso d’Arabia.”
“Parli del tuo Dahys?” domandò lei.
Raschid fece un cenno affermativo del capo, poi spiegò:
“Conteso da principi e sceicchi quando era ancora un puledro. – spiegò – Pronti a ricompensare a peso d’oro chi fosse riuscito a mettergli le briglie al collo. - sorrise, poi fece seguire una pausa per accarezzare il mento arrotondato di lei e sfiorare con infinita tenerezza le labbra colorate e morbide, rosse come un fiore di melograno ed indugiare sulla pelle morbida e levigata come l’avorio. – Conteso anche dai capi delle tribù del deserto, primo fra gli altri, lo sceicco dei Baqr.”
“Lo sceicco Harun?” domandò lei.
“Lo conosci?”
“”L’ho conosciuto molto tempo fa sotto la tenda di mio padre. So che è venuto a chiedere protezione allo sceicco Harith, dopo la contesa con il fratello Abd.”
“E’ così, infatti. Lo sai bene anche tu.”
Lotte tribali e guerre fratricide, lo sapeva bene la principessa di Shammar, erano frequenti fra le tribù del deserto: il possesso di un pozzo, di un’oasi o magari di un cavallo ed erano pronti ad incendiare gli orizzonti. Ma anche il diritto ad un titolo, come era accaduto ad Harun ed Abd, figli dello sceicco della tribù dei Baqr, che alla morte del capo se ne contesero il titolo scatenando un duro confronto, fino all’intervento di Harith, sceicco dei Kinda. che si era schierato con Harun.
“Già!… A Doha si parlava di Dahis, il cavallo del Rais dei Kinda. – assentì lei – Anche Sayed Alì l’avrebbe pagato a peso d’oro.”
“Quell’avvoltoio ha usato sempre due monete per raggiungere i suoi scopi: l’oro e la menzogna.” scandì Rashid con estremo disprezzo.
“Oh! – sospirò lei – Se ripenso alle orribili menzogne che mi disse di te, quando lasciasti Doha.”
“Avrei dovuto portarti via con me quello stesso giorno. – anche Rashid si lasciò andare in un sospiro profondo – Ti avrei evitato tanta sofferenza e… ne avrei evitata anchea me. – sorrise, mettendo in mostra la splendida chiostra di denti da giovane leopardo del deserto – Oh, Jasmine… Ricordi la sera in cui arrivasti al campo con quel vecchio Ibrahim, nei panni del povero pastorello Ahmud?”
“Quel travestimento mi salvò da tanti pericoli…”
“Se solo avessi immaginato, mia dolce Jasmine. – Rashid appariva commosso al ricordo - La tua vicinanza, il tuo dolce profumo, mio bene infinito, quando venisti a stenderti accanto a me sulla stuoia, mi procuravano un’emozione cui non riuscivo a dar un nome… e quanta tristezza, l’indomani mattina, nel non ritrovarti più sotto la tenda…”
“Ero angosciata e piena di paure. – confessò lei, levando il volto il cerca di carezze – Dopo tanti inganni non riuscivo a fidarmi di nessuno… Tutti mi facevano paura…perfino il vecchio Ibrahim… Come avrei potuto non aver paura di te, che credevo responsabile di ogni mia disgrazia?”
“Oh, Jasmine… io non so nulla di te, ma se per causa mia tu hai avuto a patire…”
“Oh, no, Rashid! No!… La mia famiglia è rimasta vittima di una di quelle tante contese… come hai detto tu, mio adorato, che infiammano queste sabbie ad intervelli quasi regolari, ma di cui tu non hai colpa alcuna. – precisò, poi cominciò a raccontare – Mio padre, lo sceicco Amud Kassin di Shammar, quando nacqui, per giorni e giorni si rifiutò di vedermi, perché la mia nascita era stata causa della morte di mia madre, che egli amava moltissimo. – una pausa per schiarisi la gola e un lungo respiro, poi Jasmine riprese, mentre lui si accingeva ad ascoltare: tutti conoscevano la pupilla del Sultano di Doha, ma nessuno conosceva la sua vera storia – Fu Leila, la seconda moglie di mio padre, ad occuparsi di me e solo due anni dopo, quando gli nacque il figlio maschio tanto desiderato, egli cominciò ad occuparsi ed interessarsi anche a me… “
Ancora una pausa; lo stormire del vento tra le palme, nel giorno vibrante di suoni acuti o sommessi, i due giovani erano come presi da uno stesso smarrimento, poi le si scosse.
“Io ed Amud, mio fratello, - riprese - eravamo molto legati e quando fummo cresciuti, egli cominciò a portarmi con sé a caccia o lungo le piste che si perdevano tra i le rocce… Io adoravo quella vita libera e spensierata... che tutti disapprovavano… Accadde che un giorno, mentre ero con lui… io avevo dieci anni e lui soltanto otto, fummo attaccati da un leone di montagna, che io misi in fuga con le frecce dell’arco di Amud. – Raschid ascoltava in silenzio – Ero terrorizzata al pensiero della punizione che mi aspettava, invece, mio padre rimase assai impressionato da quell’episodio e non si oppose più al mio desiderio di imparare ad usare le armi, né mi proibì le lunghe cavalcate nel deserto, anzi… - Jasmine levò lo sguardo sul giovane e sorrise, ma nel suo sguardo vi era un luccichio di pianto e la prima lacrima scese subito sulla guancia - … lui mi incoraggiò a farlo e mi fece dono di uno dei suoi cavalli più veloci… La mia era una vita felice e serena…”
Ancora una pausa, riempita solo dalla tenerezza del giovane che le asciugava il pianto con le labbra.
“Una notte fummo assaliti… io non conoscevo i nemici di mio padre… Non erano questioni per donne… Più tardi, Sayed Alì mi disse che erano stati gli uomini della tribù dei Kinda, guidati dal loro rais… Erano in molti… Lottammo a lungo. Io fui ferita e quando rinvenni, da uno stato che per molti giorni mi aveva lasciata tra la vita e la morte, mi trovai a Doha. Sayed Alì era molto premuroso con me e mi disse che era accorso in aiuto della mia gente e di mio padre perché era suo amico… Erano tutti morti, mi disse o fatti schiavi – un rivolo di lacrime, subito asciugato dalle labbra di lui, interruppe il racconto, poi - Troppo tardi! Quando scoprii l’inganno era troppo tardi! ...Sayed Alì e mio padre neppure si conoscevano… Ma io non lo sapevo. Sempre rinchiusa nelle mie stanze come una prigioniera… tenuta lontana da tutti, non lo sapevo. Per il mio bene, diceva… ma erano menzogne… menzogne…”
Jasmine parlava… raccontava… e Rashid l’ascoltava e la guardava come si guarda un prodigio: l’emozione e il pathos di un racconto tutto concentrato nello sguardo smarrito e colmo di rimpianto. Lui l’ascoltava e non osava interromperla neppure per le domande che avrebbe voluto farle; l’ascoltava, turbato dalla sua voce modulata e dolce, fatta per cantare ed incantare, che parlava, invece, di tragedie e tradimenti; l’ascoltava, turbato dall’amaro di quelle parole su labbra così dolci.
“Solo menzogne e inganni… nuovi inganni e orribili segreti che… che…”
Qui il racconto s’interruppe per l’ennesima volta e l’inquietudine, nello sguardo, sprofondò nell’angoscia; Rashid continuava ad asciugarle le lacrime e parve sul punto di dire qualcosa, ma una voce alle spalle glielo impedì:
“Ho portato del the.” diceva.
Era Selima. la favorita del grande predone, la quale poggiò per terra sulla stuoia, dove poco prima Jasmine sedeva con i suoi scolari, a cui Akim aveva dato permesso di allontanarsi, allontanandosi con loro per mostrare qualcosa.
L’espressione indecifrabile stampata sulla sua faccia, Se lima si fermò accanto ai due. Era una ragazza florida e grassa, così come molte altre donne della tribù; pancia e stomaco le sporgevano leggermente da sotto la tunica color dattero e le carni ondeggiavano in tutta la propria opulenza, mentre si muoveva. Gli occhi erano molto belli, neri e profondi, ma freddi come metallo ed affondavano tra due pieghe adipose.
Rahid la ringraziò con un sorriso e una fuggevole carezza sulla guancia.
Anche Selima sorrideva, mentre stendeva sulla stuoia vassoio e tazze: tre tazze, di cui però, riempì soltanto due, ma Rashid le indicò la terza e le fece cenno di sedere, mentre aiutava Jasmine.
Gli occhi delle due ragazze s’incontrarono: verdi, brillanti e un po’ velati quelli della principessa, neri, freddi e appannati quelli della Favorita.
Selima sorrise ancora, ma il suo sorriso suggerì cautela alla principessa Jasmine: un sorriso privo di quella curva all’angolo della bocca.
Un sorriso forzato e falso.
Ciò nondimeno, anche lei la ringraziò, come aveva fatto Rashid, prese la tazza dalle sue mani e l’accostò alle labbra.
“Racconta, mio bene.” la sollecitò il rais e Jasmine riprese, anche se la presenza della donna aveva spezzato il magico momento che s’era creato fra loro.
“Parla, Jasmine.” tornò a sollecitarla lui e Jasmine ripose la tazza sul vassoio e si passò il fazzolettino ricamato sulle labbra.
“Le intenzioni del Sultano di Doha nel venire in soccorso alla mia gente non erano dettate da amicizia o generosità, ma solo da calcolo, cupidigia ed inganno.”
La principessa riprese la parola, ma fece seguire subito un’ennesima pausa; Rashid e Selima tacevano entrambi ed entrambi non riuscirono a soffocare una esclamazione di profondo stupore alla rivelazione che seguì:
“Sayed Alì ed Hakam, il capo di quella setta di sanguinari… gli adoratori della Dea-Vivente… sono fratelli, figli della stessa madre.” concluse la principessa.
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Lasciata Jasmine in compagnia di Selima, con la speranza che le due ragazze facessero amicizia, Rashid s’incamminò verso la tenda del suo sceicco.
Rashid conosceva Selima da quasi tre anni, ma solo da un anno la ragazza era diventata la sua Favorita.
Selima apparteneva ad una tribù vassalla, i Kaza ed era arrivata a Sahab a seguito di un attacco alla sua gente da parte di una tribù nemica. Aveva compiuto da poco ventisei anni ed era una ragazza dall’aspetto florido e piuttosto piacente: labbra carnose e sensuali, occhio vivace e nero, fisico prorompente.
Non era l’unica distrazione del capo, naturalmente, ma era la più richiesta, tra le tante concorrenti, finendo per diventare un’abitudine ad ogni ritorno a Sabhab.
Negli ultimi mesi la ragazza aveva visto notevolmente accresciuto il suo prestigio, giorno dopo giorno, fino a quando, peeò, all’orizzonte non era apparsa l’ombra della principessa di Doha, la pupilla del Sultano, ma questo non aveva mai veramente scoraggiato la ragazza, avendo il giovane continuato a chiedere la sua compagnia.
CAP. III - Sotto la tenda del capo
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"Un asino di troppo e il cieio beduinol brontola con la sabbia." - proverbio beduino Rashid raggiunse la tenda di Harith, dove lo sceicco lo stava aspettando in compagnia di sir Richard ed Ibrahim e dove c'era ad aspettare anche Amud, fratello di Fatima e figlio maggiore dello sceicco degli Aws. Prima, però, il giovane si fermò a scambiare qualche parola con alcuni uomini al governo di una mezza dozzina di asini carichi fino all’inverosimile di grano, acqua, the e carne salata.
Erano diretti ad una tribù dell’interno che si trovava in difficoltà ed aveva chiesto l’aiuto dello sceicco di Sahab.
Caso non infrequente, in verità!
Rashid salutò anche le sentinelle, che vigilavano notte e giorno, poi proseguì verso la tenda del capo.
Questa, la più grande sia in estensione che in altezza, si trovava al centro del campo, tra le altre disposte a circolo per una migliore difesa in caso di attacco.
Rashid trovò i tre amici che stavano prendendo del caffè seduti su una stuoia all’interno del maq’ad.
Il maq’ad era la grande stanza di ricevimento degli ospiti, la parte in cui gli uomini amavano riunirsi; nettamente divisa d quella destinata alle donne, separata da un robusto telo alto quanto un uomo, teso e sorretto da pioli.
Seguì, all’arrivo del rais, una fila di uomini che puntò in quella stessa direzione come fedeli in processione: erano gli uomini di Harith e tutti avevano un recipiente in mano.
C’era del cibo in quei recipienti, preparato dalle donne e nel cibo preparato da una donna, c’era sempre un messaggio carnale, per cui, ognuno avrebbe consumato il proprio cibo e pochi o nessuno, ne avrebbero offerto anche al proprio capo ed ai suoi ospiti.
C’era carne in quei recipienti, ma non mancavano frittelle di ceci e fave da consumare con belle pagnotte rotonde appena sfornate, il cui profumo aveva saturato l’aria tutt’intorno.
“Allah sia con voi, amici.” salutò Rashid entrando per primo, accolto da una dolcissima e rilassante melodia di sottofondo proveniente dall’altra parte della tenda.
Salutarono anche tutti gli altri e una bella ragazza porse a tutti una tazza di caffè.
Caldo e amaro, il caffè annunciava l’arrivo del cibo ed Harith aveva ordinato di servirlo a tutti: erano in nove, Amin, Assan, Ashraf ed altri e presero tutti posto sul grande tappeto steso a terra con appoggiati vassoi, piatti, caffettiere e tazze d’argento di pregiatissima fattura,
“Aspettavamo te." Harith alzò lo sguardo sul suo rais, poi salutò tutti gli altri, accogliendoli sotto la sua tenda nel nome di Allah.
“Allah vi tenga tutti in buona salute. – salutò Rashid che, subito, però, aggiunse, rivolto verso Amud, il figlio dello sceicco Aws – Avremo da discutere una questione assai delicata... Assai delicata!” sottolineò, prendendo la tazza dalle mani della ragazza, una schiava graziosissima, che ringraziò con un sorriso.
Giovanissima, minuta di statura e con dentro gli occhi un pizzico di vivacità ed innocente malizia, una luce le si accendeva nello sguardo ogni volta che si posava sulla faccia del bel predone.
Faceva caldo e Rashid, per la gioia della bella schiavetta, chiese ancora dell’altro caffè.
La ragazza scomparve dietro il telone, dall’altra parte della tenda, da cui provenivano voci di donne e profumi di cibo e bevande aromatizzate; l’apertura lasciata per l’aerazione era piuttosto larga e la piccola siepe di rovi non riusciva ad occultarla completamente, cosicché, a spingere lo sguardo, si poteva raggiungere anche l’ultima tenda dell’accampamento.
L’interno della tenda era assai capiente, largo quasi cinque metri per oltre quindici di lunghezza.
Nera ed a grandi fasce rosso scuro, le donne l’avevano tessuta mescolando pelo di capra e di cammello. Era solida e resistente. La madre di Harith, che aveva diretto i lavori di tessitura e di cucitura delle strisce, aveva assicurato, prima di morire, che avrebbe resistito un’intera generazione e c’era da crederle, considerando gli anni di resistenza di alcune tende degli anziani della tribù.
Harith non l’aveva mai smontata se non per controllare la resistenza di pioli e corde, preferendo portarsi dietro, durante gli spostamenti, diventati peraltro alquanto rari, la sua hagran, la tenda d’estate, molto più piccola e maneggevole.
L’arredo era quasi esclusivamente costituito da stuoie, cuscini, tavolini, sempre con bevande e vivande, ma non mancava di casse e cassettoni di legno dorato e intarsiato, di coperte arrotolate e, naturalmente, di ogni sorta di armi.
Amud girò il capo verso la parte interna della tenda, attirato dalle voci delle donne e dal ruggito di una fiera: la pantera di Zaira.
“Se vuoi, Amud Ben Assan, - Harith si girò in direzione del fratello di Fatima, seduto alla sua sinistra - possiamo andare nella tenda di Ibrahim.” disse, cogliendo quello sguardo.
“No! No! Restiamo pure qui!" s’affrettò a rispondere il giovane, tendendo una mano verso il grande vassoio strapieno di cibo e raccogliendo con le dita un pezzo della carne arrostita che era stata servita, poi fece cenno a sir Richard, seduto al suon fianco.
Il lord inglese allungò anch'egli una mano, che si mescolò alle molte altre che già frugavano nel grosso vassoio con tranquilla disinvoltura; tutte, però, alla ricerca di pezzi piccoli, lasciando per gli ospiti i bocconi più grandi e prelibati
In verità, per quanti sforzi facesse per mascherare l’espressione di disgusto stampata sulla faccia, sir Richard continuò a frugare anch’egli nel cibo, ben sapendo che, il non avere il coraggio di farlo da sé, avrebbe indotto qualcun altro a farlo al posto suo e questo il lord proprio non lo voleva: rifiutare il dono di un boccone di cibo costituiva una grave offesa.
Amud era un giovane sui trenta anni, occhi scuri, sguardo altero e il piglio dell'uomo avvezzo al comando. Sotto la candida ghutra fermata sul capo dall'igal, il doppio cordone nero, si stendeva una fronte bassa e grave.
"Siamo qui per definire gli ultimi dettagli del contratto di matrimonio di mia sorella Fatima con lo sceicco dei Kinda." puntualizzò, levando sul rais dei Kinda il volto dai contorni energici e lo sguardo carico di giovanile baldanza.
"Ci sono dei cambiamenti!" replicò Rashid, col tono pacato ed equilibrato che gli era congeniale; sincero e consapevole di sé, il rais dei Kinda non era uso accettare i compromessi dell'uomo mediocre.
"Cambiamenti? - fece eco l'altro, lanciandogli uno sguardo in obliquo; l'uomo alla sua destra si sporse per dirgli qualcosa all'orecchio ed egli aggrottò la fronte e domandò - Ci sono obiezioni?... Circa la dote, forse?"
"Cambiamenti!" ripeté il rais.
"... ma - interloquì lapidario e secco l'uomo che aveva conferito con Amud - Matrimonio ci sarà?"
"Matrimonio ci sarà! - rispose con lo stesso tono Rashid - Matrimonio ci sarà, a consolidare i legami fra i Kinda e gli Aws, ma lo sposo non sarà lo sceicco Harith abu Hammad, ma suo cugino, Ibrahim abu Assan..."
Nel silenzio piombato sulla stanza, ovattato di tappezzerie e tappeti coloratissimi, si girarono tutti in direzione di Rashid, ma il silenzio proseguì a lungo, mettendo tutti in palese disagio, prima che Amud replicasse, con voce dura e sguardo torbido e fangoso:
"E' un insulto! Voglio vedere mia sorella. Dov'é Fatima? Voglio riportarla a suo padre, lo sceicco degli Aws!"
Ibrahim scattò in piedi, facendo l'atto di prendere la parola, ma Rashid lo trattenne con un gesto della mano e lo prevenne; il silenzio si fece più glaciale ancora, nonostante l'aria torrida.
"Fatima, la figlia del valente sceicco degli Aws, non tornerà da suo padre, ma resterà qui, nella casa del padre del figlio che le sta crescendo in grembo... Ibrahim, abu Assan!" replicò.
"All'insulto stai aggiungendo il disonore, Rashid, Rais dei Kinda!" sibilò a denti stretti Amud, facendo scorrere lo sguardo fremente di collera da Rashid ad Ibrahim.
"Fatima ed Ibrahim si sposeranno assai presto - replicò il rais - Ogni disonore.. se disonore c'é stato... sarà cancellato!"
"Il sangue! - scandì l'altro, mentre rabbia e collera repressa si smarrivano tra i peli della breve barba che gli sottolineava il mento - Solo il sangue cancellerà il disonore!"
Un cenno del capo ai tre uomini che lo avevano accompagnato e il giovane Aws lasciò la tenda.
Pochi attimi dopo quattro cavalieri si allontanavano al galoppo sfrenato, inseguiti da sguardi comparsi sugli imbocchi delle tende. C'era anche Fatima, che singhiozzava disperata, inutilmente consolata da Letizia, ferma al suo fianco.
Erano diretti ad una tribù dell’interno che si trovava in difficoltà ed aveva chiesto l’aiuto dello sceicco di Sahab.
Caso non infrequente, in verità!
Rashid salutò anche le sentinelle, che vigilavano notte e giorno, poi proseguì verso la tenda del capo.
Questa, la più grande sia in estensione che in altezza, si trovava al centro del campo, tra le altre disposte a circolo per una migliore difesa in caso di attacco.
Rashid trovò i tre amici che stavano prendendo del caffè seduti su una stuoia all’interno del maq’ad.
Il maq’ad era la grande stanza di ricevimento degli ospiti, la parte in cui gli uomini amavano riunirsi; nettamente divisa d quella destinata alle donne, separata da un robusto telo alto quanto un uomo, teso e sorretto da pioli.
Seguì, all’arrivo del rais, una fila di uomini che puntò in quella stessa direzione come fedeli in processione: erano gli uomini di Harith e tutti avevano un recipiente in mano.
C’era del cibo in quei recipienti, preparato dalle donne e nel cibo preparato da una donna, c’era sempre un messaggio carnale, per cui, ognuno avrebbe consumato il proprio cibo e pochi o nessuno, ne avrebbero offerto anche al proprio capo ed ai suoi ospiti.
C’era carne in quei recipienti, ma non mancavano frittelle di ceci e fave da consumare con belle pagnotte rotonde appena sfornate, il cui profumo aveva saturato l’aria tutt’intorno.
“Allah sia con voi, amici.” salutò Rashid entrando per primo, accolto da una dolcissima e rilassante melodia di sottofondo proveniente dall’altra parte della tenda.
Salutarono anche tutti gli altri e una bella ragazza porse a tutti una tazza di caffè.
Caldo e amaro, il caffè annunciava l’arrivo del cibo ed Harith aveva ordinato di servirlo a tutti: erano in nove, Amin, Assan, Ashraf ed altri e presero tutti posto sul grande tappeto steso a terra con appoggiati vassoi, piatti, caffettiere e tazze d’argento di pregiatissima fattura,
“Aspettavamo te." Harith alzò lo sguardo sul suo rais, poi salutò tutti gli altri, accogliendoli sotto la sua tenda nel nome di Allah.
“Allah vi tenga tutti in buona salute. – salutò Rashid che, subito, però, aggiunse, rivolto verso Amud, il figlio dello sceicco Aws – Avremo da discutere una questione assai delicata... Assai delicata!” sottolineò, prendendo la tazza dalle mani della ragazza, una schiava graziosissima, che ringraziò con un sorriso.
Giovanissima, minuta di statura e con dentro gli occhi un pizzico di vivacità ed innocente malizia, una luce le si accendeva nello sguardo ogni volta che si posava sulla faccia del bel predone.
Faceva caldo e Rashid, per la gioia della bella schiavetta, chiese ancora dell’altro caffè.
La ragazza scomparve dietro il telone, dall’altra parte della tenda, da cui provenivano voci di donne e profumi di cibo e bevande aromatizzate; l’apertura lasciata per l’aerazione era piuttosto larga e la piccola siepe di rovi non riusciva ad occultarla completamente, cosicché, a spingere lo sguardo, si poteva raggiungere anche l’ultima tenda dell’accampamento.
L’interno della tenda era assai capiente, largo quasi cinque metri per oltre quindici di lunghezza.
Nera ed a grandi fasce rosso scuro, le donne l’avevano tessuta mescolando pelo di capra e di cammello. Era solida e resistente. La madre di Harith, che aveva diretto i lavori di tessitura e di cucitura delle strisce, aveva assicurato, prima di morire, che avrebbe resistito un’intera generazione e c’era da crederle, considerando gli anni di resistenza di alcune tende degli anziani della tribù.
Harith non l’aveva mai smontata se non per controllare la resistenza di pioli e corde, preferendo portarsi dietro, durante gli spostamenti, diventati peraltro alquanto rari, la sua hagran, la tenda d’estate, molto più piccola e maneggevole.
L’arredo era quasi esclusivamente costituito da stuoie, cuscini, tavolini, sempre con bevande e vivande, ma non mancava di casse e cassettoni di legno dorato e intarsiato, di coperte arrotolate e, naturalmente, di ogni sorta di armi.
Amud girò il capo verso la parte interna della tenda, attirato dalle voci delle donne e dal ruggito di una fiera: la pantera di Zaira.
“Se vuoi, Amud Ben Assan, - Harith si girò in direzione del fratello di Fatima, seduto alla sua sinistra - possiamo andare nella tenda di Ibrahim.” disse, cogliendo quello sguardo.
“No! No! Restiamo pure qui!" s’affrettò a rispondere il giovane, tendendo una mano verso il grande vassoio strapieno di cibo e raccogliendo con le dita un pezzo della carne arrostita che era stata servita, poi fece cenno a sir Richard, seduto al suon fianco.
Il lord inglese allungò anch'egli una mano, che si mescolò alle molte altre che già frugavano nel grosso vassoio con tranquilla disinvoltura; tutte, però, alla ricerca di pezzi piccoli, lasciando per gli ospiti i bocconi più grandi e prelibati
In verità, per quanti sforzi facesse per mascherare l’espressione di disgusto stampata sulla faccia, sir Richard continuò a frugare anch’egli nel cibo, ben sapendo che, il non avere il coraggio di farlo da sé, avrebbe indotto qualcun altro a farlo al posto suo e questo il lord proprio non lo voleva: rifiutare il dono di un boccone di cibo costituiva una grave offesa.
Amud era un giovane sui trenta anni, occhi scuri, sguardo altero e il piglio dell'uomo avvezzo al comando. Sotto la candida ghutra fermata sul capo dall'igal, il doppio cordone nero, si stendeva una fronte bassa e grave.
"Siamo qui per definire gli ultimi dettagli del contratto di matrimonio di mia sorella Fatima con lo sceicco dei Kinda." puntualizzò, levando sul rais dei Kinda il volto dai contorni energici e lo sguardo carico di giovanile baldanza.
"Ci sono dei cambiamenti!" replicò Rashid, col tono pacato ed equilibrato che gli era congeniale; sincero e consapevole di sé, il rais dei Kinda non era uso accettare i compromessi dell'uomo mediocre.
"Cambiamenti? - fece eco l'altro, lanciandogli uno sguardo in obliquo; l'uomo alla sua destra si sporse per dirgli qualcosa all'orecchio ed egli aggrottò la fronte e domandò - Ci sono obiezioni?... Circa la dote, forse?"
"Cambiamenti!" ripeté il rais.
"... ma - interloquì lapidario e secco l'uomo che aveva conferito con Amud - Matrimonio ci sarà?"
"Matrimonio ci sarà! - rispose con lo stesso tono Rashid - Matrimonio ci sarà, a consolidare i legami fra i Kinda e gli Aws, ma lo sposo non sarà lo sceicco Harith abu Hammad, ma suo cugino, Ibrahim abu Assan..."
Nel silenzio piombato sulla stanza, ovattato di tappezzerie e tappeti coloratissimi, si girarono tutti in direzione di Rashid, ma il silenzio proseguì a lungo, mettendo tutti in palese disagio, prima che Amud replicasse, con voce dura e sguardo torbido e fangoso:
"E' un insulto! Voglio vedere mia sorella. Dov'é Fatima? Voglio riportarla a suo padre, lo sceicco degli Aws!"
Ibrahim scattò in piedi, facendo l'atto di prendere la parola, ma Rashid lo trattenne con un gesto della mano e lo prevenne; il silenzio si fece più glaciale ancora, nonostante l'aria torrida.
"Fatima, la figlia del valente sceicco degli Aws, non tornerà da suo padre, ma resterà qui, nella casa del padre del figlio che le sta crescendo in grembo... Ibrahim, abu Assan!" replicò.
"All'insulto stai aggiungendo il disonore, Rashid, Rais dei Kinda!" sibilò a denti stretti Amud, facendo scorrere lo sguardo fremente di collera da Rashid ad Ibrahim.
"Fatima ed Ibrahim si sposeranno assai presto - replicò il rais - Ogni disonore.. se disonore c'é stato... sarà cancellato!"
"Il sangue! - scandì l'altro, mentre rabbia e collera repressa si smarrivano tra i peli della breve barba che gli sottolineava il mento - Solo il sangue cancellerà il disonore!"
Un cenno del capo ai tre uomini che lo avevano accompagnato e il giovane Aws lasciò la tenda.
Pochi attimi dopo quattro cavalieri si allontanavano al galoppo sfrenato, inseguiti da sguardi comparsi sugli imbocchi delle tende. C'era anche Fatima, che singhiozzava disperata, inutilmente consolata da Letizia, ferma al suo fianco.
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/5767261.jpg)
Più tardi, tornati sotto la tenda del capo, gli uomini tornarono all'Assemblea così bruscamente interrotta dagli ospiti Aws.
Consapevole d'essere il fulcro di quella delicatissima situazione, che minacciava i già precari equilibri fra le tribù di Ar-Rimal, Ibrahin per primo prese la parola dichiarandosi pronto ad assumersi ogni responsabilità e relative conseguenze, compresa quella di un eventuale allontanamento dalla tribù, assieme alla sua donna.
Rivolgendosi direttamente al suo sceicco, nei cui confronti si sentiva maggiormente in colpa, il giovane si dichiarò pronto a risarcirlo di ogni danno, compreso la restituzione della dote offerta alla donna che ormai non era più la sua promessa e che altrettanto avrebbe fatto con la famiglia di lei, lo sceicco degli Aws. Aggiunse anche che non avrebbe lasciato la sua donna al ludibrio ed al disonore, ma che nei tempi più stretti possibile, l'avrebbe condotta alla presenza di un kady per congiungersi a lei in matrimonio.
Non ci furono obiezioni, però era chiaro a tutti che gli Aws costituivano, adesso, un problema, nella delicata e complessa rete delle alleanze, da affrontare e risolvere al più presto.
"Amud abu Assan, - esordì Ashraf, uno degli uomini più vicini ad Ibrahim - aspettava solo l'occasione per unirsi ai Qaathan."
"E' anche mia opinione. - interloquì Harith - Abdel Aziz, il nuovo sceicco dei Qaathan sta cercando nuove alleanze e la situazione che si é creata tra i Kinda e gli Aws, gli fornirà il pretesto."
"Ai Qaathan si sono già alleati anche i Kaza. - riprese Ashraf - che pure sono sempre stati avversari degli Aws... Mettete un Kaza e un Aws l'uno di fronte all'altro... ah.ah.ah... - rise - e si scanneranno a vicenda... si diceva."
"Abdel Aziz - assentì con un gesto del capo lo sceicco Harith - è un uomo avido e incline alla menzogna ed allo spergiuro... capace di tradire e vendere un alleato senza esitazione, se ciò gli consente di consolidare una posizione personale."
"C'é dell'altro." interloquì a questo punto Rashid che fino a quel momento si era limitato ad ascoltare
“Ti ascoltiamo.” fecero in coro.
“I Qaathan hanno già rotto la tregua.” li informò il rais.
“Non è possibile!” esclamò Ashraf.
“Di quale tregua state parlando?” s’informò sir Richard.
“La tregua a cui giungemmo sei anni fa con quella tribù.” rispose Rashid.
“So che i Qaatan sono vostri avversari da sempre.” replicò il lord.
“Per generazioni le nostre tribù si sono scontrate. – Harith intervenne nella conversazione – Il sangue versato da entrambe le parti ha alzato fra noi una barriera invalicabile.”
“Ma perché?” domandò ancora sir Richard.
“Perché?… i perché sono tanti: un pozzo, un cammello, una donna… “ e nel così dire, Harith converse lo sguardo in direzione di Ibrahim, la cui espressione appariva contrita e quasi di scusa. Sollecitato da quello sguardo, il giovane fece l’atto di prendere la parola, ma Harith lo fece per lui:
“Non sei responsabile della malafede di altri. – lo rassicurò, poi spiegò – Tre mesi fa, Ibrahim fu inviato a parlamentare con Abdel Aziz, il nuovo sceicco dei Qaathan. Al momento del ritorno, però, fu trattenuto e sottoposto a giudizio per “mancata promessa”
“Mancata promessa? - fece eco sir Richard - Che cosa significa?"
“Abdel Aziz sostiene che Ibrahim abbia fatto promessa matrimoniale alla sorella Kassida e…”
“Non è vero nulla! – intervenne Ibrahim, chiamato in causa – Io sono felicemente promesso alla mia Fatima e non ho mai fatto promesse ad altre donne.”
“Abdel Aziz dice il contrario. – Harith riprese la parola – Ha inviato un messaggero con queste parole: l’inconsolabile Kassida aspetta ancora il suo promesso!”
“Ripeto di non aver mai fatto promesse. – insisté Ibrahim – E mi dispiace di aver involontariamente trascinato in questa contesa anche i Qaathan, ma la verità è che il solo scopo dello sceicco Abdel Aziz è quello di procurare un marito alla sorella violata da un gruppo di pastori mentre attingeva acqua al pozzo.”
“Noi ti crediamo, Ibrahim, ma la verità è che Abdel Aziz fidava sul fatto che, per non inasprire i rapporti fra le nostre tribù, tu saresti stato costretto a cedere al suo ricatto.”
“Nessun cedimento! – proruppe Rashid, entrando nella discussione – Fatima ha il diritto di dare un padre legittimo a suo figlio.”
“La verità – precisò Harith – è che la rivalità fra le nostre tribù ha radici assai profonde: i Qaathan sono la tribù più potente dopo quella dei Kinda.”
“Si tratta di lotta per il predominio, dunque?” sottolineò il lord.
“Esattamente! – ammise lo sceicco dei Kinda – Per il controllo delle piste carovaniere e per il predominio sulle altre tribù.”
“Capisco! – ammise sir Richard – La potenza di una tribù si misura dai tributi che le altre tribù pagano per ottenere protezione.” osservò.
Rashid assentiva col capo; Harih spiegò:
“Il prestigio di una tribù determina anche l’equilibrio sul territorio.”
“Me ne rendo conto. Anche in Europa accade la stessa cosa: i Paesi cercano alleanze e protezione presso altri Paesi… se così non fosse, la libertà delle Nazioni più piccole sarebbe in pericolo costante.”
“Proprio così! Doveri e diritti! – disse lo sceicco, accompagnando le parole con un cenno affermativo del capo - I Kaza hanno rifiutato di pagare i tributi e si sono alleati ai Qaatan.”
“Il vecchio Feysal abu Ben ha rotto il suo Patto?” domandò Ibrahim in tono stupito.
“Non lui, ma suo figlio Ben. – spiegò Harith – In realtà, quella perdita non è rilevante per la diplomazia, ma lo è per il prestigio. Occorre parlamentare con i Qaathan per risolvere anche questa questione.”
“Hhhh!… - sir Richard si schiarì la gola – Progetto interessante ed ambizioso quello di riunire le tribù del deserto… non s’era fatto da secoli – sorrise – Ma dev’essere anche tempestivo ed unitario. – sottolineò, dirottando su di sé l’attenzione di tutti e restituendo alla piccola schiava il piatto vuoto e la tazza dell’acqua con cui si era lavato le mani – La Compagnia delle Indie farà di queste oasi e di queste piste, altrettante colonie, come è accaduto sulla Costa.” fece osservare.
“Ecco perché dobbiamo riportare i Kaza all’obbedienza e parlamentare con i Qaathan. – spiegò Rashid – Per questo vi ho convocati qui.”
“Facci conoscere le tue intenzioni, rais.” fecero tutti ad una sol voce.
“I Kaza sono accampati presso l’oasi di Al Karid. – li informò Rashid – Non se ne allontaneranno fino a quando il pascolo dell’ultima pioggia permetterà agli armenti di nutrirsi.”
“Stai per proporci di attaccare Feysal e vuoi il nostro parere?” domandò Harith.
“Sì! Voglio il parere di voi tutti.”
“Sentiamo la tua proposta.”
“Se attacchiamo Feysal, i Qaathan arriveranno subito in loro soccorso, ma… - Rashid ebbe un eloquente sorriso - …non è che uno scontro con Hannah Ibn Said spaventi Rashid di Ar-Rimal…”
“Certamente no!” sorrisero tutti.
“Io, però, non voglio compromettere il lavoro di tutti questi anni e trascinare tutte le tribù in una lotta sanguinosa… Non voglio incendiare il deserto di Ar-Rimal.”
“Che cosa proponi?”
“Convocare le tribù e discutere con i capi... di tutte le questioni!”
“Mi pare un’ottima idea.” convenne sir Richard.
“Bisogna comunicare ai capi di ogni tribù il luogo e la data del Consiglio e per questo compito difficile, delicato e pericoloso, ho pensato a voi due. – Rashid si rivolse a sir Richard e Ibrahim – Tu, Ibrahim, conosci queste sabbie come l’interno della tua tenda e tu, amico mio, non hai rivali nella capacità di condurre il prossimo verso le tue opinioni.”
“Partiremo subito! - fecero ad una sola voce i due giovani – Il tempo di preparare il bagaglio.”
“Ero certo che avreste accettato, ah.ah.ah… - rise il rais con aria soddisfatta – Per questo ho già fatto sellare i cavalli e preparare l’equipaggiamento necessario. Potrete partire quando vorrete.”
“Il tempo di salutare le nostre donne… se il lord è d’accordo.” disse il beduino, alzandosi ed apprestandosi a lasciare la tenda.
“Fra un’ora!” propose sir Richard, lasciando anch’egli la stuoia, chiuso anch’egli in una candida tunica bianca che, a prima vista e con la faccia scurita dal sole sotto il mindil calato sulla fronte, poteva farlo scambiare per un arabo. Solo a prima vista, però, se non si faceva caso allo sguardo, naturalmente, di un azzurro intenso ed a qualche ciocca che spuntava bionda e ribelle.
In realtà, quell’equivoco non era cosa insolita: adottando quell’abbigliamento, sir Richard s’era quasi totalmente spogliato della propria individualità europea e britannica.
Esploratore, studioso, avventuriero, brillante studente all’Università di Oxford, come molta bella gioventù europea, anch’egli si era lasciato catturare dal mito delle terre d’Oriente.
Aveva anche scritto e pubblicato con buoni risultati racconti ambienti nel mondo arabo ed aveva tradotto numerosi racconti della tradizione araba.
Proprio queste passioni gli avevano permesso di dare risposte ad alcuni interrogativi riguardo luoghi e popolazioni sulle quali c’era ancora qualche confusione, mentre altre, in verità, ne stava generando proprio quel fenomeno che in Europa era stato retoricamente definito: Orientalismo.
Confusione, si ripeteva spesso il lord inglese, generata anche da quell’inconfessato “timore reverenziale” che, nonostante la proclamata superiorità, l’europeo sapeva di provare nei confronti del “Moro”.
Il “Moro”! Per gli europei, soleva ripetere il lord inglese, Arabi, Turchi o Saraceni, erano tutti “Mori”… proprio la stessa confusione che gli arabi facevano con “europei”, Inglesi, Francesi, Italiani o Tedeschi che fossero.
“Quali sono data e luogo del Consiglio?” la voce di Ibrahim distrasse il lord dalle sue riflessioni, facendo dirottare la sua attenzione verso Rashid che rispondeva:
“Al pozzo di Rebek, fra quaranta giorni.”
Consapevole d'essere il fulcro di quella delicatissima situazione, che minacciava i già precari equilibri fra le tribù di Ar-Rimal, Ibrahin per primo prese la parola dichiarandosi pronto ad assumersi ogni responsabilità e relative conseguenze, compresa quella di un eventuale allontanamento dalla tribù, assieme alla sua donna.
Rivolgendosi direttamente al suo sceicco, nei cui confronti si sentiva maggiormente in colpa, il giovane si dichiarò pronto a risarcirlo di ogni danno, compreso la restituzione della dote offerta alla donna che ormai non era più la sua promessa e che altrettanto avrebbe fatto con la famiglia di lei, lo sceicco degli Aws. Aggiunse anche che non avrebbe lasciato la sua donna al ludibrio ed al disonore, ma che nei tempi più stretti possibile, l'avrebbe condotta alla presenza di un kady per congiungersi a lei in matrimonio.
Non ci furono obiezioni, però era chiaro a tutti che gli Aws costituivano, adesso, un problema, nella delicata e complessa rete delle alleanze, da affrontare e risolvere al più presto.
"Amud abu Assan, - esordì Ashraf, uno degli uomini più vicini ad Ibrahim - aspettava solo l'occasione per unirsi ai Qaathan."
"E' anche mia opinione. - interloquì Harith - Abdel Aziz, il nuovo sceicco dei Qaathan sta cercando nuove alleanze e la situazione che si é creata tra i Kinda e gli Aws, gli fornirà il pretesto."
"Ai Qaathan si sono già alleati anche i Kaza. - riprese Ashraf - che pure sono sempre stati avversari degli Aws... Mettete un Kaza e un Aws l'uno di fronte all'altro... ah.ah.ah... - rise - e si scanneranno a vicenda... si diceva."
"Abdel Aziz - assentì con un gesto del capo lo sceicco Harith - è un uomo avido e incline alla menzogna ed allo spergiuro... capace di tradire e vendere un alleato senza esitazione, se ciò gli consente di consolidare una posizione personale."
"C'é dell'altro." interloquì a questo punto Rashid che fino a quel momento si era limitato ad ascoltare
“Ti ascoltiamo.” fecero in coro.
“I Qaathan hanno già rotto la tregua.” li informò il rais.
“Non è possibile!” esclamò Ashraf.
“Di quale tregua state parlando?” s’informò sir Richard.
“La tregua a cui giungemmo sei anni fa con quella tribù.” rispose Rashid.
“So che i Qaatan sono vostri avversari da sempre.” replicò il lord.
“Per generazioni le nostre tribù si sono scontrate. – Harith intervenne nella conversazione – Il sangue versato da entrambe le parti ha alzato fra noi una barriera invalicabile.”
“Ma perché?” domandò ancora sir Richard.
“Perché?… i perché sono tanti: un pozzo, un cammello, una donna… “ e nel così dire, Harith converse lo sguardo in direzione di Ibrahim, la cui espressione appariva contrita e quasi di scusa. Sollecitato da quello sguardo, il giovane fece l’atto di prendere la parola, ma Harith lo fece per lui:
“Non sei responsabile della malafede di altri. – lo rassicurò, poi spiegò – Tre mesi fa, Ibrahim fu inviato a parlamentare con Abdel Aziz, il nuovo sceicco dei Qaathan. Al momento del ritorno, però, fu trattenuto e sottoposto a giudizio per “mancata promessa”
“Mancata promessa? - fece eco sir Richard - Che cosa significa?"
“Abdel Aziz sostiene che Ibrahim abbia fatto promessa matrimoniale alla sorella Kassida e…”
“Non è vero nulla! – intervenne Ibrahim, chiamato in causa – Io sono felicemente promesso alla mia Fatima e non ho mai fatto promesse ad altre donne.”
“Abdel Aziz dice il contrario. – Harith riprese la parola – Ha inviato un messaggero con queste parole: l’inconsolabile Kassida aspetta ancora il suo promesso!”
“Ripeto di non aver mai fatto promesse. – insisté Ibrahim – E mi dispiace di aver involontariamente trascinato in questa contesa anche i Qaathan, ma la verità è che il solo scopo dello sceicco Abdel Aziz è quello di procurare un marito alla sorella violata da un gruppo di pastori mentre attingeva acqua al pozzo.”
“Noi ti crediamo, Ibrahim, ma la verità è che Abdel Aziz fidava sul fatto che, per non inasprire i rapporti fra le nostre tribù, tu saresti stato costretto a cedere al suo ricatto.”
“Nessun cedimento! – proruppe Rashid, entrando nella discussione – Fatima ha il diritto di dare un padre legittimo a suo figlio.”
“La verità – precisò Harith – è che la rivalità fra le nostre tribù ha radici assai profonde: i Qaathan sono la tribù più potente dopo quella dei Kinda.”
“Si tratta di lotta per il predominio, dunque?” sottolineò il lord.
“Esattamente! – ammise lo sceicco dei Kinda – Per il controllo delle piste carovaniere e per il predominio sulle altre tribù.”
“Capisco! – ammise sir Richard – La potenza di una tribù si misura dai tributi che le altre tribù pagano per ottenere protezione.” osservò.
Rashid assentiva col capo; Harih spiegò:
“Il prestigio di una tribù determina anche l’equilibrio sul territorio.”
“Me ne rendo conto. Anche in Europa accade la stessa cosa: i Paesi cercano alleanze e protezione presso altri Paesi… se così non fosse, la libertà delle Nazioni più piccole sarebbe in pericolo costante.”
“Proprio così! Doveri e diritti! – disse lo sceicco, accompagnando le parole con un cenno affermativo del capo - I Kaza hanno rifiutato di pagare i tributi e si sono alleati ai Qaatan.”
“Il vecchio Feysal abu Ben ha rotto il suo Patto?” domandò Ibrahim in tono stupito.
“Non lui, ma suo figlio Ben. – spiegò Harith – In realtà, quella perdita non è rilevante per la diplomazia, ma lo è per il prestigio. Occorre parlamentare con i Qaathan per risolvere anche questa questione.”
“Hhhh!… - sir Richard si schiarì la gola – Progetto interessante ed ambizioso quello di riunire le tribù del deserto… non s’era fatto da secoli – sorrise – Ma dev’essere anche tempestivo ed unitario. – sottolineò, dirottando su di sé l’attenzione di tutti e restituendo alla piccola schiava il piatto vuoto e la tazza dell’acqua con cui si era lavato le mani – La Compagnia delle Indie farà di queste oasi e di queste piste, altrettante colonie, come è accaduto sulla Costa.” fece osservare.
“Ecco perché dobbiamo riportare i Kaza all’obbedienza e parlamentare con i Qaathan. – spiegò Rashid – Per questo vi ho convocati qui.”
“Facci conoscere le tue intenzioni, rais.” fecero tutti ad una sol voce.
“I Kaza sono accampati presso l’oasi di Al Karid. – li informò Rashid – Non se ne allontaneranno fino a quando il pascolo dell’ultima pioggia permetterà agli armenti di nutrirsi.”
“Stai per proporci di attaccare Feysal e vuoi il nostro parere?” domandò Harith.
“Sì! Voglio il parere di voi tutti.”
“Sentiamo la tua proposta.”
“Se attacchiamo Feysal, i Qaathan arriveranno subito in loro soccorso, ma… - Rashid ebbe un eloquente sorriso - …non è che uno scontro con Hannah Ibn Said spaventi Rashid di Ar-Rimal…”
“Certamente no!” sorrisero tutti.
“Io, però, non voglio compromettere il lavoro di tutti questi anni e trascinare tutte le tribù in una lotta sanguinosa… Non voglio incendiare il deserto di Ar-Rimal.”
“Che cosa proponi?”
“Convocare le tribù e discutere con i capi... di tutte le questioni!”
“Mi pare un’ottima idea.” convenne sir Richard.
“Bisogna comunicare ai capi di ogni tribù il luogo e la data del Consiglio e per questo compito difficile, delicato e pericoloso, ho pensato a voi due. – Rashid si rivolse a sir Richard e Ibrahim – Tu, Ibrahim, conosci queste sabbie come l’interno della tua tenda e tu, amico mio, non hai rivali nella capacità di condurre il prossimo verso le tue opinioni.”
“Partiremo subito! - fecero ad una sola voce i due giovani – Il tempo di preparare il bagaglio.”
“Ero certo che avreste accettato, ah.ah.ah… - rise il rais con aria soddisfatta – Per questo ho già fatto sellare i cavalli e preparare l’equipaggiamento necessario. Potrete partire quando vorrete.”
“Il tempo di salutare le nostre donne… se il lord è d’accordo.” disse il beduino, alzandosi ed apprestandosi a lasciare la tenda.
“Fra un’ora!” propose sir Richard, lasciando anch’egli la stuoia, chiuso anch’egli in una candida tunica bianca che, a prima vista e con la faccia scurita dal sole sotto il mindil calato sulla fronte, poteva farlo scambiare per un arabo. Solo a prima vista, però, se non si faceva caso allo sguardo, naturalmente, di un azzurro intenso ed a qualche ciocca che spuntava bionda e ribelle.
In realtà, quell’equivoco non era cosa insolita: adottando quell’abbigliamento, sir Richard s’era quasi totalmente spogliato della propria individualità europea e britannica.
Esploratore, studioso, avventuriero, brillante studente all’Università di Oxford, come molta bella gioventù europea, anch’egli si era lasciato catturare dal mito delle terre d’Oriente.
Aveva anche scritto e pubblicato con buoni risultati racconti ambienti nel mondo arabo ed aveva tradotto numerosi racconti della tradizione araba.
Proprio queste passioni gli avevano permesso di dare risposte ad alcuni interrogativi riguardo luoghi e popolazioni sulle quali c’era ancora qualche confusione, mentre altre, in verità, ne stava generando proprio quel fenomeno che in Europa era stato retoricamente definito: Orientalismo.
Confusione, si ripeteva spesso il lord inglese, generata anche da quell’inconfessato “timore reverenziale” che, nonostante la proclamata superiorità, l’europeo sapeva di provare nei confronti del “Moro”.
Il “Moro”! Per gli europei, soleva ripetere il lord inglese, Arabi, Turchi o Saraceni, erano tutti “Mori”… proprio la stessa confusione che gli arabi facevano con “europei”, Inglesi, Francesi, Italiani o Tedeschi che fossero.
“Quali sono data e luogo del Consiglio?” la voce di Ibrahim distrasse il lord dalle sue riflessioni, facendo dirottare la sua attenzione verso Rashid che rispondeva:
“Al pozzo di Rebek, fra quaranta giorni.”
Cap. IV - La Favorita del rais
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Rashid si erse sul busto; il mantello scivolò sulle spalle mettendo in risalto il possente fisico cui la potente muscolatura guizzante sotto la pelle e le spalle atletiche davano un aspetto quasi selvaggio, da antico guerriero celtico, se non fosse stato per i capelli neri come il carbone, nascosti sotto il mindil.
Sulla casacca bianca, sotto il mantello, pendeva una pesante catena d’oro con medaglione; larghi pantaloni erano trattenuti in vita da un cinturone a cui era legato il fodero di un pugnale.
Anche Harith aveva lasciato la stuoia; anch’egli ritto sull’atletica persona.
A chiunque, quei due giovani, forti, coraggiosi e risoluti, che parlavano di battaglie e sottomissioni, avrebbero incusso timore.
Ibrahim e sir Richard partirono meno di mezz’ora dopo.
Lasciata la tenda del suo sceicco, Rashid riattraversò il campo con passo veloce per raggiungere la sua tenda dove aveva lasciato Jasmine in compagnia di Selima.
Da lontano vide un gruppo di donne e gli giunse la voce squillante ed imperiosa della sua Favorita. Certo che anche Jasmine fosse lì con loro, il giovane si diresse in quella direzione.
Accadeva spesso che Jasmine sedesse all’ombra di qualche palma a ricamare o suonare il suo alud; egli stesso gliene aveva regalato uno particolarmente bello e prezioso, con intarsi dorati e con inciso il suo nome.
Le note che giungevano, dolci e sensuali, pensò con un sorriso, sollecitando il passo, poteva essere proprio la musica della sua Jasmine. Quando era stanca di suonare o ricamare, infatti, lei si accostava alle donne della tribù e con estrema semplicità chiedeva un fuso e della lana cardata per filare e quelle, vedendola arrivare, l’accoglievano con simpatia e la lasciavano avvicinare ai loro fusi ed ai loro telai.
Anche i bambini l’accoglievano festanti: la sua Jasmine aveva sempre per loro un dolcetto o una favoletta e le mamme erano felici ed orgogliose che l’irraggiungibile principessa, diventata la leggenda di Ar-Rimal, accarezzasse i loro figli, giocasse con loro ed insegnasse loro a leggere.
Anch’egli era orgoglioso della sua principessa. Orgoglioso ed innamoratissimo e ogni volta che non era lontano con i suoi uomini, capitava anche a lui di andare a sedersi vicino a lei ed era felice perché lei era felice di trovarsi con lui.
Ridendo e scherzando, intessendo chiacchiere e fibre di lana o cotone, le voci delle donne, più di una mezza dozzina, sedute in circolo all’ombra di un grosso telone sostenuto da pali, riempivano l’aria di echi gioiose e squillanti.
Vedendolo da lontano, Selima si alzò e gli fece cenno di avvicinarsi.
Rashid affrettò il passo.
“Dov’è la principessa Jasmine? – chiese, appena le ebbe raggiunte – Non è qui con voi?”
Gli rispose il sorriso smagliante della sua Favorita che, con un cenno, ordinava ad una delle ragazze di posare il ricamo e di prendere in mano il liuto.
“Dov’è Jasmine?”
Rashid ripeté la domanda, ma Selima avanzò verso di lui ancheggiando sinuosa sulle note sensuali e dolci della musica, avvolta dagli effluvi di un profumo penetrante.
Rashid si fermò; le sorrise: le note sempre più dolci e carezzevoli, la bocca di lei carnosa, sensuale e lasciva, gli sguardi audaci ed invitanti.
Con l’ultima nota, il corpo della donna, morbidamente abbondante, generoso e florido, era una tentazione avvinghiata contro il petto di lui.
“Ah.ah.ah...“ sorrise lusingato il giovane, sfiorandole con gesto innocente il volto proteso e trasfigurato dal desiderio.
Incoraggiata dal sorriso e dalla carezza, la Favorita continuò il gioco della seduzione e della provocazione. Lo sguardo femminilmente perfido e reso esigente dalla noia, si fece languido e le carezze del tutto indecenti.
“Ah.ah.ah...“ continuava a sorridere il giovane, tra il divertito e il lusingato, ma con un velo di delusione negli occhi per l’assenza di Jasmine.
“La principessa? – lo raggiunse la voce di una delle ragazze – E’ andata a far visita ad Alina insieme alle altre donne.”
Rashid dirottò lo sguardo avanti a sé, in direzione della tenda della madre di Ibrahim, a setto od otto metri ed un verde balenio quasi l’accecò d’emozione: gli occhi di Jasmine, fissi su di lui e Selima.
Il giovane si liberò immediatamente della stretta della Favorita, la scostò da sé e si allontanò quasi di corsa per raggiungerla; Jasmine, però, aveva già lasciato andare il lembo che fungeva d’apertura per arieggiare la tenda.
Pochi, lunghissimi passi per coprire i pochi metri che lo separavano da lei; lo sguardo improvvisamente freddo della Favorita, arrugginito da un sentimento di rabbia e contrarietà, lo seguì assieme alla sua ombra.
Sulla casacca bianca, sotto il mantello, pendeva una pesante catena d’oro con medaglione; larghi pantaloni erano trattenuti in vita da un cinturone a cui era legato il fodero di un pugnale.
Anche Harith aveva lasciato la stuoia; anch’egli ritto sull’atletica persona.
A chiunque, quei due giovani, forti, coraggiosi e risoluti, che parlavano di battaglie e sottomissioni, avrebbero incusso timore.
Ibrahim e sir Richard partirono meno di mezz’ora dopo.
Lasciata la tenda del suo sceicco, Rashid riattraversò il campo con passo veloce per raggiungere la sua tenda dove aveva lasciato Jasmine in compagnia di Selima.
Da lontano vide un gruppo di donne e gli giunse la voce squillante ed imperiosa della sua Favorita. Certo che anche Jasmine fosse lì con loro, il giovane si diresse in quella direzione.
Accadeva spesso che Jasmine sedesse all’ombra di qualche palma a ricamare o suonare il suo alud; egli stesso gliene aveva regalato uno particolarmente bello e prezioso, con intarsi dorati e con inciso il suo nome.
Le note che giungevano, dolci e sensuali, pensò con un sorriso, sollecitando il passo, poteva essere proprio la musica della sua Jasmine. Quando era stanca di suonare o ricamare, infatti, lei si accostava alle donne della tribù e con estrema semplicità chiedeva un fuso e della lana cardata per filare e quelle, vedendola arrivare, l’accoglievano con simpatia e la lasciavano avvicinare ai loro fusi ed ai loro telai.
Anche i bambini l’accoglievano festanti: la sua Jasmine aveva sempre per loro un dolcetto o una favoletta e le mamme erano felici ed orgogliose che l’irraggiungibile principessa, diventata la leggenda di Ar-Rimal, accarezzasse i loro figli, giocasse con loro ed insegnasse loro a leggere.
Anch’egli era orgoglioso della sua principessa. Orgoglioso ed innamoratissimo e ogni volta che non era lontano con i suoi uomini, capitava anche a lui di andare a sedersi vicino a lei ed era felice perché lei era felice di trovarsi con lui.
Ridendo e scherzando, intessendo chiacchiere e fibre di lana o cotone, le voci delle donne, più di una mezza dozzina, sedute in circolo all’ombra di un grosso telone sostenuto da pali, riempivano l’aria di echi gioiose e squillanti.
Vedendolo da lontano, Selima si alzò e gli fece cenno di avvicinarsi.
Rashid affrettò il passo.
“Dov’è la principessa Jasmine? – chiese, appena le ebbe raggiunte – Non è qui con voi?”
Gli rispose il sorriso smagliante della sua Favorita che, con un cenno, ordinava ad una delle ragazze di posare il ricamo e di prendere in mano il liuto.
“Dov’è Jasmine?”
Rashid ripeté la domanda, ma Selima avanzò verso di lui ancheggiando sinuosa sulle note sensuali e dolci della musica, avvolta dagli effluvi di un profumo penetrante.
Rashid si fermò; le sorrise: le note sempre più dolci e carezzevoli, la bocca di lei carnosa, sensuale e lasciva, gli sguardi audaci ed invitanti.
Con l’ultima nota, il corpo della donna, morbidamente abbondante, generoso e florido, era una tentazione avvinghiata contro il petto di lui.
“Ah.ah.ah...“ sorrise lusingato il giovane, sfiorandole con gesto innocente il volto proteso e trasfigurato dal desiderio.
Incoraggiata dal sorriso e dalla carezza, la Favorita continuò il gioco della seduzione e della provocazione. Lo sguardo femminilmente perfido e reso esigente dalla noia, si fece languido e le carezze del tutto indecenti.
“Ah.ah.ah...“ continuava a sorridere il giovane, tra il divertito e il lusingato, ma con un velo di delusione negli occhi per l’assenza di Jasmine.
“La principessa? – lo raggiunse la voce di una delle ragazze – E’ andata a far visita ad Alina insieme alle altre donne.”
Rashid dirottò lo sguardo avanti a sé, in direzione della tenda della madre di Ibrahim, a setto od otto metri ed un verde balenio quasi l’accecò d’emozione: gli occhi di Jasmine, fissi su di lui e Selima.
Il giovane si liberò immediatamente della stretta della Favorita, la scostò da sé e si allontanò quasi di corsa per raggiungerla; Jasmine, però, aveva già lasciato andare il lembo che fungeva d’apertura per arieggiare la tenda.
Pochi, lunghissimi passi per coprire i pochi metri che lo separavano da lei; lo sguardo improvvisamente freddo della Favorita, arrugginito da un sentimento di rabbia e contrarietà, lo seguì assieme alla sua ombra.
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Rashid trovò Jasmine che parlava con Fatima e la raggiunse alle spalle.
Lei si girò. Sollevò su di lui quel suo sguardo verde rubato al più scintillante degli smeraldi, ma Rashid non vi trovò quella luce che sempre lo abbagliava; le sue labbra gli sorrisero, mentre lo salutava, ma la sua voce era incolore.
“Allah sia con te, Rashid.”
“Jasmine… “ bisbigliò, lui chinandosi a sfiorarle la fronte con un bacio, ma lei si staccò, sempre sorridendo e sempre guardandolo fisso negli occhi, ma con un velo di sottile malinconia che le sublimò ogni angolazione del bellissimo volto.
“Jasmine… Luce degli occhi miei… “ bisbigliò ancora Rashid, sotto l’empito di una emozione nuova e sconosciuta che lo faceva sentire colpevole di una colpa che neppure riusciva a definire. Il suo incomparabile sorriso gli pareva abusivo e spento lo splendoro dentro i suoi occhi: era gelosa di Selima.? Avrebbe preferito che lei accusasse, si ribellasse ed invece lei taceva e lo faceva sentiva sentire del tutto disarmato di fronte al suo silenzio.
“Vieni…” disse, circondandole le spalle con tenera fermezza e sospingendola di fuori.
Lei si lasciò guidare, ma anche quella docilità, assoluta e incondizionata, lo inquietò; la condusse verso la sua tenda, ma raggiunta la Fonte del Fico, si fermò.
Era stato sir Richard a trasportare fin laggiù l’acqua del pozzo più vicino e ad incanalarla in quella piccola fontana la cui acqua alimentava la grossa pianta di fico.
Rashid le sollevò delicatamente il mento e lei fece l’atto di calarsi sul volto il lembo del velo e la luce del sole, alto nel cielo, brillò nei suoi occhi verdi, dove erano rannicchiate tutte le sue emozioni. Lui le trattenne la mano e se la portò alle labbra.
Quante volte aveva ripetuto quel gesto!
Ed ecco finalmente arrivare l’accusa, con la veemenza legittima di chi si sente offeso, ma anche con l’accento arreso di chi non ha difese.
“Io sono ospite nella tua casa, Rashid – cominciò lei – e non desidero creare conflitti ed equivoci fra te e la tua donna…”
“La mia donna?… Oh, Jasmine…” tentò di prendere la parola lui, ma Jasmine, che aveva solamente fatto una pausa per schiarirsi la gola, non lo lasciò proseguire:
“Avrai la mia eterna riconoscenza per tutto il tempo che mi sarà concesso di vivere, Rashid… Tu sei buono e generoso con tutti, Rashid… perfino con i tuoi nemici e lo sei stato in modo particolare con me… - ancora una pausa, per un lungo respiro, poi continuò – Io, Rashid, ho avuto da te sostegno e riguardo più di quanto non ne abbia avuto mai nel resto della mia vita…”
Ogni tanto Rashid tentava di prendere la parola, ma lei era un fiume inarrestabile e continuava a ripetere il suo nome più e più volte, quasi fosse per lei un bene prezioso che temeva di perdere: una sensazione che Rashid, inspiegabilmente, avvertiva come una emozione propria.
“So bene, Rashid, che se mi arrischiassi a lasciare Sahab, troverei ad attendermi, oltre i confini protetti di questo posto, gli uomini di Hakam… - Oh, Rashid! – sorrise lei all’espressione di sorpresa comparsa sul bel volto mortificato di lui – So bene quanto sforzo tu abbia fatto per nascondermi il pericolo che incombe sulla mia testa… so perfettamente, Rashid, che quelle belve sanguinarie si aggirano qui intorno…”
“Jasmine…” proruppe lui, ma lei, sempre armata di quel sorriso capace di spezzargli il cuore, non gli consentì ancora di parlare.
“Conosco bene quella gente, Rashid… - disse – E’ gente fanatica, tenace e sanguinaria e io sono ancora la loro Dea-Vivente da sacrificare. So che sono là fuori ad aspettarmi… Non so fino a quando riuscirò ancora a sfuggire loro… tutti i miei travestimenti non sono riusciti a tenerli lontani… Io li ho trascinati qui, Rashid… e… - ancora un pausa, lieve e quasi con accento di scusa - … e sono entrata nella tua casa quasi di nascosto… come una ladra… sotto mentite spoglie… ospite inattesa e tu… tu, Rashid, sei nella tua casa, signore e padrone e Selima è la tua Favorita, ma… - ancora una pausa, per riprendere respiro, poi con occhi diventati accusatori, fissandolo, incalzò - … ma, Rashid, se la mia presenza qui è causa di incomprensione fra te e la tua Favorita, io…”
“Oh, no! No! No! – riuscì finalmente ad interromperla lui – Selima non è più la mia Favorita… Favorita?… Oh, mio bene infinito. – proruppe lui – Selima è stata solo l’inutile balsamo alla mia grande disperazione quando credevo di averti perduta… Tu… tu sei la sola capace di farmi esplodere il cuore nel petto… Ma non capisci, Luce degli occhi miei, che ogni donna che incrocia la mia strada ha i tuoi occhi… il tuo sorriso? Non capisci che al mondo esisti soltanto tu per me… Se lima vale per il mio cuore meno di un granello di sabbia. Lei non è più la mia Favorita… Sei tu che io voglio, Jasmine… sei tu che…”
Ma ancora una volta lei lo interruppe, irraggiungibile e lontana:
“Il mio nome, Rashid, è Jasmine, principessa di Shammar. – proferì, ergendosi fiera sulla flessuosa ed armoniosa persona – e nessun uomo farà mai di me la sua Favorita. Mai!... Neppure Rashid, il rais dei Kinda.”
“Oh, Jasmine! – proruppe ancora lui – Luce degli Occhi Miei! Allah mi è testimone che mai, neppure lontanamente, mi ha sfiorato il pensiero di fare di te una Favorita. Mai!... Io farò di te una Regina, Jasmine, mia adorata. Io farò di te la mia Regina e non permetterò a nessuno di farti del male..”
“Io, Rashid…” cominciò lei con voce sommessa e con negli occhi un luccichio che era quasi di pianto, ma una voce alle spalle li fece voltare entrambi.
“Il cavallo è pronto, Rashid.”
Era uno degli uomini del rais.
“Vieni, Jasmine.
Rashid la prese per mano e seguì l’uomo, che li condusse fino al recinto dei cavalli.
Lei si girò. Sollevò su di lui quel suo sguardo verde rubato al più scintillante degli smeraldi, ma Rashid non vi trovò quella luce che sempre lo abbagliava; le sue labbra gli sorrisero, mentre lo salutava, ma la sua voce era incolore.
“Allah sia con te, Rashid.”
“Jasmine… “ bisbigliò, lui chinandosi a sfiorarle la fronte con un bacio, ma lei si staccò, sempre sorridendo e sempre guardandolo fisso negli occhi, ma con un velo di sottile malinconia che le sublimò ogni angolazione del bellissimo volto.
“Jasmine… Luce degli occhi miei… “ bisbigliò ancora Rashid, sotto l’empito di una emozione nuova e sconosciuta che lo faceva sentire colpevole di una colpa che neppure riusciva a definire. Il suo incomparabile sorriso gli pareva abusivo e spento lo splendoro dentro i suoi occhi: era gelosa di Selima.? Avrebbe preferito che lei accusasse, si ribellasse ed invece lei taceva e lo faceva sentiva sentire del tutto disarmato di fronte al suo silenzio.
“Vieni…” disse, circondandole le spalle con tenera fermezza e sospingendola di fuori.
Lei si lasciò guidare, ma anche quella docilità, assoluta e incondizionata, lo inquietò; la condusse verso la sua tenda, ma raggiunta la Fonte del Fico, si fermò.
Era stato sir Richard a trasportare fin laggiù l’acqua del pozzo più vicino e ad incanalarla in quella piccola fontana la cui acqua alimentava la grossa pianta di fico.
Rashid le sollevò delicatamente il mento e lei fece l’atto di calarsi sul volto il lembo del velo e la luce del sole, alto nel cielo, brillò nei suoi occhi verdi, dove erano rannicchiate tutte le sue emozioni. Lui le trattenne la mano e se la portò alle labbra.
Quante volte aveva ripetuto quel gesto!
Ed ecco finalmente arrivare l’accusa, con la veemenza legittima di chi si sente offeso, ma anche con l’accento arreso di chi non ha difese.
“Io sono ospite nella tua casa, Rashid – cominciò lei – e non desidero creare conflitti ed equivoci fra te e la tua donna…”
“La mia donna?… Oh, Jasmine…” tentò di prendere la parola lui, ma Jasmine, che aveva solamente fatto una pausa per schiarirsi la gola, non lo lasciò proseguire:
“Avrai la mia eterna riconoscenza per tutto il tempo che mi sarà concesso di vivere, Rashid… Tu sei buono e generoso con tutti, Rashid… perfino con i tuoi nemici e lo sei stato in modo particolare con me… - ancora una pausa, per un lungo respiro, poi continuò – Io, Rashid, ho avuto da te sostegno e riguardo più di quanto non ne abbia avuto mai nel resto della mia vita…”
Ogni tanto Rashid tentava di prendere la parola, ma lei era un fiume inarrestabile e continuava a ripetere il suo nome più e più volte, quasi fosse per lei un bene prezioso che temeva di perdere: una sensazione che Rashid, inspiegabilmente, avvertiva come una emozione propria.
“So bene, Rashid, che se mi arrischiassi a lasciare Sahab, troverei ad attendermi, oltre i confini protetti di questo posto, gli uomini di Hakam… - Oh, Rashid! – sorrise lei all’espressione di sorpresa comparsa sul bel volto mortificato di lui – So bene quanto sforzo tu abbia fatto per nascondermi il pericolo che incombe sulla mia testa… so perfettamente, Rashid, che quelle belve sanguinarie si aggirano qui intorno…”
“Jasmine…” proruppe lui, ma lei, sempre armata di quel sorriso capace di spezzargli il cuore, non gli consentì ancora di parlare.
“Conosco bene quella gente, Rashid… - disse – E’ gente fanatica, tenace e sanguinaria e io sono ancora la loro Dea-Vivente da sacrificare. So che sono là fuori ad aspettarmi… Non so fino a quando riuscirò ancora a sfuggire loro… tutti i miei travestimenti non sono riusciti a tenerli lontani… Io li ho trascinati qui, Rashid… e… - ancora un pausa, lieve e quasi con accento di scusa - … e sono entrata nella tua casa quasi di nascosto… come una ladra… sotto mentite spoglie… ospite inattesa e tu… tu, Rashid, sei nella tua casa, signore e padrone e Selima è la tua Favorita, ma… - ancora una pausa, per riprendere respiro, poi con occhi diventati accusatori, fissandolo, incalzò - … ma, Rashid, se la mia presenza qui è causa di incomprensione fra te e la tua Favorita, io…”
“Oh, no! No! No! – riuscì finalmente ad interromperla lui – Selima non è più la mia Favorita… Favorita?… Oh, mio bene infinito. – proruppe lui – Selima è stata solo l’inutile balsamo alla mia grande disperazione quando credevo di averti perduta… Tu… tu sei la sola capace di farmi esplodere il cuore nel petto… Ma non capisci, Luce degli occhi miei, che ogni donna che incrocia la mia strada ha i tuoi occhi… il tuo sorriso? Non capisci che al mondo esisti soltanto tu per me… Se lima vale per il mio cuore meno di un granello di sabbia. Lei non è più la mia Favorita… Sei tu che io voglio, Jasmine… sei tu che…”
Ma ancora una volta lei lo interruppe, irraggiungibile e lontana:
“Il mio nome, Rashid, è Jasmine, principessa di Shammar. – proferì, ergendosi fiera sulla flessuosa ed armoniosa persona – e nessun uomo farà mai di me la sua Favorita. Mai!... Neppure Rashid, il rais dei Kinda.”
“Oh, Jasmine! – proruppe ancora lui – Luce degli Occhi Miei! Allah mi è testimone che mai, neppure lontanamente, mi ha sfiorato il pensiero di fare di te una Favorita. Mai!... Io farò di te una Regina, Jasmine, mia adorata. Io farò di te la mia Regina e non permetterò a nessuno di farti del male..”
“Io, Rashid…” cominciò lei con voce sommessa e con negli occhi un luccichio che era quasi di pianto, ma una voce alle spalle li fece voltare entrambi.
“Il cavallo è pronto, Rashid.”
Era uno degli uomini del rais.
“Vieni, Jasmine.
Rashid la prese per mano e seguì l’uomo, che li condusse fino al recinto dei cavalli.
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“E’ proprio una bella bestia, capo.” disse l’uomo aprendo lo steccato che si richiuse dietro, dopo aver dato il passo al suo capo che si girò verso la ragazza per un ennesimo sguardo che era una carezza.
Jasmine rimase fuori.
“Hai ragione, Abdul. – rispose Rashid – Ha un portamento elegante, ma non sembra proprio docile.”
Il cavallo scalciava e nitriva.
“Gli occorre la mano del padrone.” sentenziò l’altro.
“Dici bene! Dici bene!”
“Devo mettergli la sella?” domandò un secondo uomo avvicinandosi.
La sella, dal seggio in legno di oleandro per resistere alle escursioni termiche, era leggera e maneggevole e di gran fattura e l’uomo la reggeva sulla spalla con una sola mano.
“No. – disse Rashid – Non ancora. Prima voglio che conosca il contatto con l’uomo…”
Ordinò di avvicinare il cavallo al recinto e di trattenerlo con due corde; una era ben salda nelle sue mani.
Una piccola folla andò formandosi e poi ingrossando e seguiva ogni gesto del suo rais.
Per prima cosa, Rashid cercò un contatto con la bella testa eretta dell’animale; la sua mano scese sulla criniera, sulla groppa e sui fianchi, poi tornò al collo e così per un pezzo. Sempre cautamente e dolcemente, infine lasciò andare un pezzo della corda.
Il cavallo non si allontanò e smise di nitrire.
A questo punto, con un formidabile colpo di reni, il giovane gli saltò in groppa e tirò subito la corda sul collo in modo da tenergli la testa ben alta, poi gli incollò le gambe sui fianchi, stringendo con tutta la forza di cui era dotato.
La folla andava sempre più aumentando, giungendo alla spicciolata; arrivò anche Selima, che si pose al fianco di Jasmine, dietro la staccionata.
Le due ragazze si ignorarono.
Il cavallo emise un altissimo nitrito che pareva quasi un ruggito poi sollevò le zampe anteriori con l’evidente intenzione di liberarsi del peso.
Non ci riuscì. Le pupille fiammeggiarono e i più vicini videro della bava colargli dalla bocca.
Rashid teneva duro, costringendo l’animale a tenere sempre la testa sollevata e facendo attenzione a non farsi sbalzare dal suo recalcitrare sempre più serrato.
“Buono. – gli andava sussurrando all’orecchio – Buono. Non voglio farti del male… Buono! So che non vuoi cedere, ma neppure io sono abituato a cedere facilmente… Buono!… è il tuo destino… amico mio… Buono… Buono…”
Il bel manto nero e lucido di schiuma, i nitriti sempre più alti, ma Rashid non cedeva e neppure parlava più, nello sforzo di non farsi buttare a terra. Di scatto, infine, tirò la corda di lato, verso destra, costringendo il cavallo a girarsi da quella parte; poi tirò verso sinistra e il cavallo fu costretto a girarsi verso sinistra.
Ripeté la manovra per sette o otto volte, infine, lasciò andare la corda, senza tuttavia abbandonarla del tutto.
Il cavallo non recalcitrò più e smise di nitrire, ma si lanciò in una corsa sfrenata all’interno del recinto, ora chinando il capo a terra fin quasi ad annusarlo, ora sollevandolo verso l’alto.
Con la mano libera, Rashid tornò ad accarezzargli il collo: una carezza che doveva essergli diventata familiare perché di colpo l’animale si fermò.
Per poco. Riprese subito la corsa, ma senza l’irruenza di prima.
La voce di Rashid, pacata e suadente, tornò a soffiargli nell’orecchio:
“Buono! Buono!… Sono io il più forte, amico… quando lo avrai capito, andrà tutto per il meglio… Buono… Buono…”
Finalmente il cavallo si fermò, vinto dalla voce e dalla carezza, più che dalla spossatezza.
Trotterellando, Rashid lo guidò verso la staccionata, accompagnato da grida di entusiasmo.
Si fermò davanti al gruppo delle donne, proprio dove erano, l’una accanto all’altra, Selima e Jasmine.
Gli occhi della Favorita brillarono, trionfanti e le sue mani si tesero in avanti verso il giovane che aveva fermato il cavallo e stava smontando.
Rashid, però, si fermò davanti a Jasmine.
“E’ il tuo regalo di compleanno. - disse consegnandole il frustino dall'impugntura ornata di pietre preziose; tutti smeraldi, il gioiello da lei preferito – Ventuno smeraldi, mia adorata. – le sorrise – Ognuno per festeggiare uno dei tuoi anni, mio tesoro.”
Jasmine lo guardò con occhi colmi di sorpresa.
“Come.. come fai a sapere che oggi è il mio compleanno?” domandò e Rashid le tese il prezioso Corano, quello ritrovato da Akim, su cui erano incisi il suo nome e la sua data di nascita.
Lei lo guardò con un sorriso dolcissimamente strano, poi esclamò:
“Io… io non compio ventuno anni, Rashid. Io ne compio diciassette.”
“Ma qui… qui c’è inciso…”
“Il mio nome e una data. E vero! – tornò a sorridere lei, con quello sguardo carico di luce e di splendore e la voce diventata dolce melodia all’orecchio del bel predone – Questo libro non è mio. – spiegò – Appartiene alla sorella di mio padre, di cui io porto il nome, perché sono nata nello stesso giorno in cui è nata lei, ma… quattro anni dopo.”
“Oh, Jasmine… Quale imperdonabile errore!” fece lui con accento mortificato.
“Oh, no! No, Rashid.” rispose lei sfiorandogli la mano che ancora reggeva le redini del cavallo che aveva ripreso a scalpitare.
“Non vorrai montare questa furia, Jasmine? – insinuò la voce di Selima al suo fianco; Jasmine si girò a guardarla – Questo sì, sarebbe un errore imperdonabile!”
“Quando sarà completamente domato. – convenne Rashid, lieto di quell’interesse per la sua Jasmine e completamente ignaro della trappola in cui la donna sperava di spingere la rivale – Jasmine cavalcherà il suo cavallo quando sarò completamente domato.” ripeté.
Jasmine, però, era d’altro parere.
“E tu? – gli sguardi delle due ragazze si incrociarono – Tu non avresti paura a montarlo?” domandò la principessa Jasmine.
“No, se fosse un dono per me. – rispose la Favorita, ormai certa di aver fatto muovere a Jasmine il primo passo verso quella trappola – Rashid non è a me che ne ha fatto dono, ma alla principessa Jasmine.” aggiunse, accompagnando le parole con negli occhi neri una luce di femminile perfidia.
“Hai ragione, Selima. E’ un dono per me ed a questo magnifico cavallo manca solo una cosa: il tocco del padrone.” e con queste parole Jasmine attraversò l’entrata dello steccato e s’accostò al cavallo. Tese una mano ed accarezzò la bella testa eretta.
L’animale parve gradire la carezza, poiché smise immediatamente di scalpitare; anche lo sguardo parve tranquillizzarsi mentre la mano della principessa scivolava dolcemente sul collo e sulla spalla.
Rashid la guardava orgoglioso e un po’ preoccupato, tuttavia l’aiutò a montare. A pelo, poiché lei rifiutò la sella.
Un attimo dopo, sotto gli sguardi ammirati di tutti, Jasmine lanciò il cavallo in una corsa sfrenata, tenendosi aggrappata alla criniera e dando prova di meritarsi quella fama che tutte le tribù del deserto le avevano sempre riconosciuto. Quando tornò allo steccato e fermò il cavallo, Rashid si precipitò da lei
“Koal! – esclamò lei, tendendogli le braccia – Lo chiamerò Koal!”
Cap. V - Venti di guerra
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Un gruppo di pastori si accostò a Sahab, il mattino di alcuni giorni dopo. Erano una mezza dozzina; le abayah, i tradizionali mantelli, spiccavano sulla sabbia, bianchi e grigi. Giunti al limitare dell’oasi, il più anziano si fece avanti in compagnia di un giovane e chiese di parlare con lo sceicco.
Harith li accolse sotto la sua tenda.
“In che cosa possiamo esservi utili?” domandò, appena li ebbe fatti accomodare sulla stuoia.
Il vecchio pareva timidito dalla presenza del rais
“Io lo conosco.” disse, indicandolo con una mano puntata.
“Certo che lo conosci! – fece Harith – Chi non conosce Rashid di Ar-Rimal?”
“Sei proprio Rashid, il rais dei Kinda? – anche il giovane pastore appariva impressionato da quella presenza. – Sei proprio Rashid, colui che chiamano il Leone di Ar-Rimal?”
Rashid ebbe un sorriso e scosse il capo.
“In persona! – rispose per lui Harith – Benché egli sia l’uomo più temibile del deserto, non comprendo i vostri timori.”
“La nostra gente si è ribellata. – disse tutto d’un fiato il vecchio – ed io temo per la sua sorte.”
“Chi è la tua gente, vecchio?” domandò Harith; Rashid ascoltava e taceva, ma lasciò correre uno sguardo d’intesa con il suo sceicco quando l’uomo spiegò:
“La tribù dei Kaza, è la mia gente. - poi aggiunse, indicando il suo seguito – Io e la mia famiglia siamo stati espulsi dal figlio di Feysal abu Ben.”
“Espulso? Per quale colpa?”
“Colpa grave agli occhi di Ben, troppo giovane ed ambizioso per essere anche saggio.”
“Non hai detto di quale è colpasiete accusati.” incalzò Harith.
“Un asino di troppo e il ciel brontola con la sabbia! – continuò il vecchio che, come tutta la sua gente, amava far uso ed abuso di parole e soprattutto proverbi, poi spiegò – Il giovane Ben non ascolta più i saggi consigli e preferisce seguire quelli di chi gli suggerisce di arricchirsi sfidando il più forte invece che chiederne la protezione.”
“Spiegati meglio, vecchio.” incalzò Harith.
“Il capo della mia tribù, il giovane e sprovveduto Ben, figlio di Feysal, ha preso la poco avveduta decisione di sottrarsi alla protezione dei Kinda e di allontanare quanti non erano del suo stesso parere.”
“E’ la sola ragione della vostra espulsione?”
“L’unica e sola ragione!”
“Allora non c’è nulla su cui discutere. – interloquì a questo punto in tono deciso Rashid – Lo sceicco di Sahab ospiterà te e la tua gente.”
“Allah vi ricompenserà.” il vecchio fece un cenno alla piccola folla in attesa, almeno cinque uomini, che si precipitò immediatamente in avanti; anche il giovane che era con lui avanzò di qualche passo.
“Siamo partiti spogliati di ogni bene – disse - ed eccoci, invece, qui, sotto la protezione del grande Rashid e… se saremo fortunati, potremo anche conoscere la pupilla del sultano di Doha… la principessa Jasmine..”
“Che cosa vuoi dire? – domandò in tono sospettoso Rashid, facendo convergere lo sguardo temporalesco sulla faccia dall’espressione enigmatica del giovane pastore, che rispose:
“Il deserto è vasto, ma la sua voce è rapida come il vento.”
“Che cosa vuoi dire?” incalzò con maggior durezza Rashid.
“Che la dolce principessa Jasmine, da tutti pianta morta dopo la scomparsa dalla reggia di Doha, si trovi qui, nell’oasi di Sahab, protetta dal grande Rashid dei Kinda.”
Rashid fece l’atto di replicare, ma si trattenne; fu Harith ad intervenire:
“Andate. – disse - Amud vi indicherà la vostra sistemazione.”
Amud, un giovane beduino accorso alla voce del capo, si allontanò con gli ospiti.
“Che cosa ne pensi?” domandò Rashid, rimasto da solo con l’amico.
“Sapremo al ritorno di sir Rirchard e Ibrahim quanto di vero ci sia nel loro racconto. Nel frattempo, li faremo sorvegliare e – una breve pausa, poi – chiederemo anche a Selima… anche lei appartiene alla tribù dei Kaza.”
"Sì! Aspetteremo. Adesso raggiungiamo Akim e gli altri... "
Lasciata la tenda, poco più tardi, a lunghi passi i due giovani beduini si accostarono alla piccola moltitudine silenziosa e rispettosa che costituiva il pubblico di Akim il quale stava esibendosi in uno dei sue mirabolanti, quotidiani giochi di magia; uno di loro gli faceva da aiutante e lo chiamava Maestro.
Allineati su un panca appoggiata al basamento della Fontana del Fico, c’era una quantità svariata di oggetti: corde, pietre, foglie di palma, una ciotola piena di sabbia, una lucertola ed altri oggetti ancora. Gli spettatori, uomini, donne e ragazzi, seguivano attenti ogni gesto, pronti ad applaudire.
Il piccolo mago e il suo assistente indossavano lunghe tuniche gialle riccamente bordate di una fascia rossa ricamata in oro; appoggiata alla tunica ostentavano un ricco mantello azzurro trattenuto da borchie dorate e dai turbanti pendevano due grosse gocce di luccicanti pietre: queste erano dono di Rashid mentre il magico e fatale costume era opera delle ragazze: “Per impressionare il pubblico.” aveva detto sorridendo Letizia.
Rashid cercò tra la piccola folla la figura di Jasmine.
La principessa era in prima fila, bellissima, i neri capelli sciolti sulle spalle e divisi sulla fronte da una gigantesca perla nera che egli stesso le aveva regalato e che proveniva dalle acque del Golfo Arabico; spiccava sul mantello di finissimo lino bianco in tutta la sua preziosità..
Rashid la guardava con un sorriso, intenerito da quel suo vezzo, retaggio infantile, di tenersi l’indice destro poggiato sulle labbra; i begli occhi verdi, che ammaliavano tutti, seguivano come ipnotizzati i gesti del piccolo mago.
Accanto a lei Zaira seguiva con la stessa attenzione le acrobazie di Akim; anche lei bella e splendente di gioielli come un luccicante, grazioso idolo.
“Attenzione! Attenzione! – la voce di Abdul, il minuscolo ma solerte assistente, attrasse l’attenzione del rais – Uno spettacolo straordinario. Attenzione! – declamava il piccolo, accompagnando le parole con una mimica ed una gestualità degna di un consumato commediante ed agitando una robusta corda tra le piccole mani brune e sporche di terra o di chissà cos’altro – Chi vuole legare mani e piedi al Maestro?”
Intanto il maestro cercava di acquietare la gazzella spaurita e timida di Jasmine, che doveva far parte di qualche numero speciale di magia.
“Si faccia avanti il più forte di voi per legare il Maestro – continuava Abdul – Avanti. Senza timori.”
Qualcuno si fece avanti e Rashid riconobbe il giovane pastore Kaza venuto a chiedere asilo e che tante domande aveva fatto su Jasmine.
“lo legherò io. – lo sentì dire – Legherò io il Maestro e posso garantire che non sarà in grado di sciogliersi più... ah.ah.ah… “ rideva, scioccamente, mentre si avvicinava ad Akim.
Akim gli porse la corda; il pastore la raccolse e se la girò e rigirò per qualche attimo fra le mani, poi la fece serpeggiare nell’aria.
“Sei pronto?” domandò, mentre un lampo di ottuso sadismo gli attraversava lo sguardo.
Akim rispose con un cenno affermativo del capo e quello cominciò a legarlo: prima le braccia tese in avanti, poi le spalle e il busto – E adesso vedremo che cosa sai fare… Maestro” aggiunse con insostenibile ironia.
“Tutto qui? – replicò Akim con lo stesso sarcasmo, poi intimò – Non sai fare di meglio? Il caldo ti ha rattrappito le braccia, ragazzo? – poi, rivolto al suo assistente, Akim ordinò – Prendi l’altra corda, Apprendista e mostra a questo sempliciotto che cosa deve fare.”
“Un momento! Lasciate fare a me. – la voce di Rashid, in fondo alla platea, attirò l’attenzione e l’entusiasmo di tutti - Ti legherò io, Akim.”
“Insieme alla gazzella, Rashid. – precisò il piccolo mago – E non ti risparmiare,amico!”
“Sta tranquillo, Maestro. Quando ti avrò legato, sembrerai una di quelle mummie di cui parlava il professor Marco.. ricordi?”
“Certo che ricordo.”
Akim si lasciò legare senza batter ciglio e invitò il rais a legargli alla vita il collo della gazzella che continuava a mandare strazianti belati, dopo di che, Rashid lo aiutò ad entrare nella piccola tenda alle sue spalle, richiudendo il telone che fungeva da entrata.
Un solo secondo di attesa, poi il solerte Abdul risollevò il lembo mostrando all’esterrefatto pubblico la strabiliante sostituzione della piccola e graziosa gazzella con la possente figura della tigre di Zaira, maculata e sinuosa.
Un forte ruggito agghiacciò la platea.
La pantera sollevò la testa e spalancò le fauci mettendo in mostra, con ostentazione, la formidabile dentatura, potente ogni oltre limite di necessità.
“Ecco a voi Kasha!” esclamò tutto soddisfatto Abdul, ma un secondo e più potente ruggito, fece prudentemente arretrare il minuscolo assitente… e non soltanto lui.
“Slegala, Rashid. – suggerì Akim – Kasha non è abituata alla catena.”
Rashid s’affrettò a sciogliere i nodi che legavano lo stupendo esemplare di pantera, una delle due sopravvissute alla madre, diversi mesi prima ed allevata dalle cure di Zaira.
Qualcosa di imprevisto, però accadde a quel punto: per la prima volta, Kasha attaccò. Con un balzo improvviso si avventò sul giovane pastore in piedi accanto ad Akim e l’atterrò, trascinandolo con sé e rotolandosi per terra con lui.
Zaira si lanciò immediatamente in avanti; Rashid ed altri accorsero e riuscirono a sottrarre il malcapitato alle fauci spalancate di Kasha ed ai suoi affilatissimi artigli.
A fatica, ma riuscirono a trascinarla via; Kasha appariva insolitamente ed oltremodo inquieta e nervosa.
“Kasha non ha mai attaccato nessuno.” esclamò Zaira in tono quasi di scusa.
“Qualcosa in quel pastore deve averla innervosita.- convenne Rashid – Non l’aveva mai fatto prima.”
“Non capisco! – era accorso anche Harith ed anch’egli si mostrò assai stupito – Non ha attaccato mai nessuno prima. Quel pastore deve aver fatto qualcosa che ha scatenato i suoi istinti… e gli istinti di un animale come Kasha sono infallibili.”
“Quell’uomo non mi è mai piaciuto! – esclamò Rashid - Dal momento in cui ha messo piede qui… con tutte le sue domande.”
Neppure Akim nascose i suoi dubbi e le perplessità.
“Kasha non avrebbe mai attaccato senza una ragione. – disse – Se ha aggredito quel pastore, deve averne avuto una.”
“E’ quello che voglio scoprire.” convenne Rashid.
*****************
Harith li accolse sotto la sua tenda.
“In che cosa possiamo esservi utili?” domandò, appena li ebbe fatti accomodare sulla stuoia.
Il vecchio pareva timidito dalla presenza del rais
“Io lo conosco.” disse, indicandolo con una mano puntata.
“Certo che lo conosci! – fece Harith – Chi non conosce Rashid di Ar-Rimal?”
“Sei proprio Rashid, il rais dei Kinda? – anche il giovane pastore appariva impressionato da quella presenza. – Sei proprio Rashid, colui che chiamano il Leone di Ar-Rimal?”
Rashid ebbe un sorriso e scosse il capo.
“In persona! – rispose per lui Harith – Benché egli sia l’uomo più temibile del deserto, non comprendo i vostri timori.”
“La nostra gente si è ribellata. – disse tutto d’un fiato il vecchio – ed io temo per la sua sorte.”
“Chi è la tua gente, vecchio?” domandò Harith; Rashid ascoltava e taceva, ma lasciò correre uno sguardo d’intesa con il suo sceicco quando l’uomo spiegò:
“La tribù dei Kaza, è la mia gente. - poi aggiunse, indicando il suo seguito – Io e la mia famiglia siamo stati espulsi dal figlio di Feysal abu Ben.”
“Espulso? Per quale colpa?”
“Colpa grave agli occhi di Ben, troppo giovane ed ambizioso per essere anche saggio.”
“Non hai detto di quale è colpasiete accusati.” incalzò Harith.
“Un asino di troppo e il ciel brontola con la sabbia! – continuò il vecchio che, come tutta la sua gente, amava far uso ed abuso di parole e soprattutto proverbi, poi spiegò – Il giovane Ben non ascolta più i saggi consigli e preferisce seguire quelli di chi gli suggerisce di arricchirsi sfidando il più forte invece che chiederne la protezione.”
“Spiegati meglio, vecchio.” incalzò Harith.
“Il capo della mia tribù, il giovane e sprovveduto Ben, figlio di Feysal, ha preso la poco avveduta decisione di sottrarsi alla protezione dei Kinda e di allontanare quanti non erano del suo stesso parere.”
“E’ la sola ragione della vostra espulsione?”
“L’unica e sola ragione!”
“Allora non c’è nulla su cui discutere. – interloquì a questo punto in tono deciso Rashid – Lo sceicco di Sahab ospiterà te e la tua gente.”
“Allah vi ricompenserà.” il vecchio fece un cenno alla piccola folla in attesa, almeno cinque uomini, che si precipitò immediatamente in avanti; anche il giovane che era con lui avanzò di qualche passo.
“Siamo partiti spogliati di ogni bene – disse - ed eccoci, invece, qui, sotto la protezione del grande Rashid e… se saremo fortunati, potremo anche conoscere la pupilla del sultano di Doha… la principessa Jasmine..”
“Che cosa vuoi dire? – domandò in tono sospettoso Rashid, facendo convergere lo sguardo temporalesco sulla faccia dall’espressione enigmatica del giovane pastore, che rispose:
“Il deserto è vasto, ma la sua voce è rapida come il vento.”
“Che cosa vuoi dire?” incalzò con maggior durezza Rashid.
“Che la dolce principessa Jasmine, da tutti pianta morta dopo la scomparsa dalla reggia di Doha, si trovi qui, nell’oasi di Sahab, protetta dal grande Rashid dei Kinda.”
Rashid fece l’atto di replicare, ma si trattenne; fu Harith ad intervenire:
“Andate. – disse - Amud vi indicherà la vostra sistemazione.”
Amud, un giovane beduino accorso alla voce del capo, si allontanò con gli ospiti.
“Che cosa ne pensi?” domandò Rashid, rimasto da solo con l’amico.
“Sapremo al ritorno di sir Rirchard e Ibrahim quanto di vero ci sia nel loro racconto. Nel frattempo, li faremo sorvegliare e – una breve pausa, poi – chiederemo anche a Selima… anche lei appartiene alla tribù dei Kaza.”
"Sì! Aspetteremo. Adesso raggiungiamo Akim e gli altri... "
Lasciata la tenda, poco più tardi, a lunghi passi i due giovani beduini si accostarono alla piccola moltitudine silenziosa e rispettosa che costituiva il pubblico di Akim il quale stava esibendosi in uno dei sue mirabolanti, quotidiani giochi di magia; uno di loro gli faceva da aiutante e lo chiamava Maestro.
Allineati su un panca appoggiata al basamento della Fontana del Fico, c’era una quantità svariata di oggetti: corde, pietre, foglie di palma, una ciotola piena di sabbia, una lucertola ed altri oggetti ancora. Gli spettatori, uomini, donne e ragazzi, seguivano attenti ogni gesto, pronti ad applaudire.
Il piccolo mago e il suo assistente indossavano lunghe tuniche gialle riccamente bordate di una fascia rossa ricamata in oro; appoggiata alla tunica ostentavano un ricco mantello azzurro trattenuto da borchie dorate e dai turbanti pendevano due grosse gocce di luccicanti pietre: queste erano dono di Rashid mentre il magico e fatale costume era opera delle ragazze: “Per impressionare il pubblico.” aveva detto sorridendo Letizia.
Rashid cercò tra la piccola folla la figura di Jasmine.
La principessa era in prima fila, bellissima, i neri capelli sciolti sulle spalle e divisi sulla fronte da una gigantesca perla nera che egli stesso le aveva regalato e che proveniva dalle acque del Golfo Arabico; spiccava sul mantello di finissimo lino bianco in tutta la sua preziosità..
Rashid la guardava con un sorriso, intenerito da quel suo vezzo, retaggio infantile, di tenersi l’indice destro poggiato sulle labbra; i begli occhi verdi, che ammaliavano tutti, seguivano come ipnotizzati i gesti del piccolo mago.
Accanto a lei Zaira seguiva con la stessa attenzione le acrobazie di Akim; anche lei bella e splendente di gioielli come un luccicante, grazioso idolo.
“Attenzione! Attenzione! – la voce di Abdul, il minuscolo ma solerte assistente, attrasse l’attenzione del rais – Uno spettacolo straordinario. Attenzione! – declamava il piccolo, accompagnando le parole con una mimica ed una gestualità degna di un consumato commediante ed agitando una robusta corda tra le piccole mani brune e sporche di terra o di chissà cos’altro – Chi vuole legare mani e piedi al Maestro?”
Intanto il maestro cercava di acquietare la gazzella spaurita e timida di Jasmine, che doveva far parte di qualche numero speciale di magia.
“Si faccia avanti il più forte di voi per legare il Maestro – continuava Abdul – Avanti. Senza timori.”
Qualcuno si fece avanti e Rashid riconobbe il giovane pastore Kaza venuto a chiedere asilo e che tante domande aveva fatto su Jasmine.
“lo legherò io. – lo sentì dire – Legherò io il Maestro e posso garantire che non sarà in grado di sciogliersi più... ah.ah.ah… “ rideva, scioccamente, mentre si avvicinava ad Akim.
Akim gli porse la corda; il pastore la raccolse e se la girò e rigirò per qualche attimo fra le mani, poi la fece serpeggiare nell’aria.
“Sei pronto?” domandò, mentre un lampo di ottuso sadismo gli attraversava lo sguardo.
Akim rispose con un cenno affermativo del capo e quello cominciò a legarlo: prima le braccia tese in avanti, poi le spalle e il busto – E adesso vedremo che cosa sai fare… Maestro” aggiunse con insostenibile ironia.
“Tutto qui? – replicò Akim con lo stesso sarcasmo, poi intimò – Non sai fare di meglio? Il caldo ti ha rattrappito le braccia, ragazzo? – poi, rivolto al suo assistente, Akim ordinò – Prendi l’altra corda, Apprendista e mostra a questo sempliciotto che cosa deve fare.”
“Un momento! Lasciate fare a me. – la voce di Rashid, in fondo alla platea, attirò l’attenzione e l’entusiasmo di tutti - Ti legherò io, Akim.”
“Insieme alla gazzella, Rashid. – precisò il piccolo mago – E non ti risparmiare,amico!”
“Sta tranquillo, Maestro. Quando ti avrò legato, sembrerai una di quelle mummie di cui parlava il professor Marco.. ricordi?”
“Certo che ricordo.”
Akim si lasciò legare senza batter ciglio e invitò il rais a legargli alla vita il collo della gazzella che continuava a mandare strazianti belati, dopo di che, Rashid lo aiutò ad entrare nella piccola tenda alle sue spalle, richiudendo il telone che fungeva da entrata.
Un solo secondo di attesa, poi il solerte Abdul risollevò il lembo mostrando all’esterrefatto pubblico la strabiliante sostituzione della piccola e graziosa gazzella con la possente figura della tigre di Zaira, maculata e sinuosa.
Un forte ruggito agghiacciò la platea.
La pantera sollevò la testa e spalancò le fauci mettendo in mostra, con ostentazione, la formidabile dentatura, potente ogni oltre limite di necessità.
“Ecco a voi Kasha!” esclamò tutto soddisfatto Abdul, ma un secondo e più potente ruggito, fece prudentemente arretrare il minuscolo assitente… e non soltanto lui.
“Slegala, Rashid. – suggerì Akim – Kasha non è abituata alla catena.”
Rashid s’affrettò a sciogliere i nodi che legavano lo stupendo esemplare di pantera, una delle due sopravvissute alla madre, diversi mesi prima ed allevata dalle cure di Zaira.
Qualcosa di imprevisto, però accadde a quel punto: per la prima volta, Kasha attaccò. Con un balzo improvviso si avventò sul giovane pastore in piedi accanto ad Akim e l’atterrò, trascinandolo con sé e rotolandosi per terra con lui.
Zaira si lanciò immediatamente in avanti; Rashid ed altri accorsero e riuscirono a sottrarre il malcapitato alle fauci spalancate di Kasha ed ai suoi affilatissimi artigli.
A fatica, ma riuscirono a trascinarla via; Kasha appariva insolitamente ed oltremodo inquieta e nervosa.
“Kasha non ha mai attaccato nessuno.” esclamò Zaira in tono quasi di scusa.
“Qualcosa in quel pastore deve averla innervosita.- convenne Rashid – Non l’aveva mai fatto prima.”
“Non capisco! – era accorso anche Harith ed anch’egli si mostrò assai stupito – Non ha attaccato mai nessuno prima. Quel pastore deve aver fatto qualcosa che ha scatenato i suoi istinti… e gli istinti di un animale come Kasha sono infallibili.”
“Quell’uomo non mi è mai piaciuto! – esclamò Rashid - Dal momento in cui ha messo piede qui… con tutte le sue domande.”
Neppure Akim nascose i suoi dubbi e le perplessità.
“Kasha non avrebbe mai attaccato senza una ragione. – disse – Se ha aggredito quel pastore, deve averne avuto una.”
“E’ quello che voglio scoprire.” convenne Rashid.
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![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/9188760.jpg?341)
Verso il tramonto di tre giorni dopo, una nuvola di polvere sollevata da zoccoli di cavalli si avvicinò all'oasi; Rashid, che spiava l'orizzonte col suo binocolo occidentale in compagnia di Jasmine, esclamò:
"E' sir Richard!... E l'altro cavaliere è certamente Ibrahim."
Una doppia sorpresa, però, attendeva tutti quando, raggiunte le prime palme, i due cavalieri balzarono giù dalle selle: la tunica di Ibrahim era macchiata di sangue sotto il candido mantello e la testina arruffata di un bambino spuntò da sotto il mantello color kaki del lord inglese.
“Lui è Kashi!” spiegò semplicemente l’inglese, affidandolo alle braccia tese di Zaira, accorsagli incontro.
Kashi era un bambino di quattro anni circa, capelli neri arruffati e contorti come serpentelli, un ciuffetto ribelle sulla fronte, occhi neri e un’espressione vivace sul faccino sporco di sabbia. Era piuttosto sviluppato per la sua età e non solo nel fisico: pronto con le mani e con la lingua.
Capì subito d’essere il benvenuto in mezzo a tutta quella gente sconosciuta e cominciò immediatamente a ridere e chiacchierare.
“Ma guardatelo! – sorrideva Rashid – Un momento fa ci guardava sospettoso e taciturno ed ora non smette di parlare.”
“Fra poco ci darà ordini, rais. –anche il lord sorrideva – Durante il viaggio decideva lui dove fermarci e quando fermarci… Dovevi sentirlo!”
“Ah.ah.ah… La principessa Jasmine sarà felicissima di questo arrivo. - rise ancora il rais, poi, mentre il bimbo si allontanava, dirottò la sua attenzione sui due amici - Che cosa significa questo sangue?” domandò.
“Siamo stati aggrediti. – rispose Ibrahim – Ma questo non è il mio sangue.” spiegò.
“Venite. – anche il lord era smontato di sella – Abbiamo molte cose da comunicare.”
L’abitazione che sir Richard aveva scelto a Sahab per sé era situata nella vecchia costruzione in muratura ad est dell’oasi. Diversamente dagli altri ambienti, questa recava un’impronta squisitamente occidentale: poltrone, divani, cassapanche e perfino un pianoforte ed inoltre un grande orologio a pendolo che però non funzionava, ma da cui il lord non intendeva separarsi ed infine un grande stemma nobiliare di cui era particolarmente geloso.
Da buon inglese, aveva sempre del the pronto da offrire agli amici, perciò li invitò a sedere ed entrò subito nei dettagli della conversazione:
“Siamo stati attaccati dai Kaza. – spiegò con fredda calma, sorseggiando il suo the; Rashid lo guardava in silenzio: l’impetuoso beduino non sempre riusciva a capire la calma del flemmatico amico – Racconta tu, Ibrahim!”
Ibrahim non se lo fece ripetere: non aspettava altro.
“Dai Kaza siamo arrivati due giorni fa. – esordì – Lo sceicco Feysal ci ha accolti con un po’ di perplessità, ma ci ha invitati sotto la sua tenda e ci ha spiegato che… Ripeto le sue parole: la mia gente ha iniziato la sua strada da sola, anche se io nutro dei dubbi sulla opportunità di rinunciare alla protezione dei Kinda!”
“Gli hai detto che questa presa di posizione potrebbe minacciare gli equilibri che si sono creati su queste sabbie?” domandò Harith, con espressione contrariata.
“Suo figlio Ben non gliene ha dato il tempo. – intervenne il lord – Quello sconsiderato giovanotto è entrato nella tenda con l’impeto del sam, minacciandoci con la sua kumiya… la ricurva spada di cui pare andare molto fiero!” aggiunse con palese sarcasmo.
“A rimetterci la vita, però, è stato lo sceicco Feysal.” interloquì Ibrahim.
“Feysal è morto?”stupì il rais dei Kinda.
“Con questo pugnale. – Ibrahim estrasse l’arma, un pugnale yemenita dall’affilatissima lama – Non volevo ucciderlo, ma non ho potuto evitarlo.”
“Racconta.” fece Rashid.
“Quel pazzo sconsiderato è piombato sotto la tenda gridando che i Kaza hanno nuove regole e che tutti i dissidenti della tribù sono già stati allontanati.”
“Quello che ha detto il vecchio pastore corrisponde a verità, dunque! - lo interruppe Rashid – Sono arrivati qui in cerca di protezione, una mezza dozzina di persone… della tribù dei Kaza, hanno detto, asserendo di essere stati espulsi dalla loro gente.”
“Non ne sapevamo niente. – replicò il lord – ma deve essere andata così. E… - una pausa per finire di sorseggiare il suo the e schiarirsi la gola, poi domandò – Quella gente è qui, adesso?”
Rashid assentì col capo, poi lo sollecitò a continuare.
“Ah… ecco! Torniamo a Feysal ed a suo figlio Ben… - disse sir Richard – Quello sciocco ragazzo si è avventato su Ibrahim senza permettergli di replicare alle sue stoltezze e Ibrahim ha dovuto difendersi… disgrazia ha voluto che il suo pugnale colpisse in pieno petto lo sceicco Feysal, intervenuto per separarli.”
“Questo increscioso episodio di sangue renderà ancora più difficili i rapporti con i Kaza. – disse Harith scotendo il capo – Esigeranno il sangue di Ibrahim.”
“E perché mai? Si è trattato solo di legittima difesa. – replicò il lord, poi aggiunse, in tono polemico – Il vostro codice d’onore non la contempla?”
“Bisognerà renderne le prove: con la morte del loro capo tutta la tribù si sente coinvolta e vorrà giustizia. - spiegò Harith – Presto i Kaza invieranno i loro emissari.”
I due riferirono anche che nessuna delle tribù convocate sarebbe mancata all'appuntamento e alla fine, Rashid:
“Restate qui ed ascoltate quanto ho da dirvi. – disse, facendo seguire una pausa per sorseggiare il suo caffè, poi proseguì – Ci siamo sempre posti una domanda… Che cosa avessero in comune quell’insaziabile avvoltoio di Sayed Alì e quel serpente velenoso di Hakam.”
“Sei, forse, al corrente di qualcosa che noi ignoriamo?” domandò Harith.
“Fratelli! Quei due flagelli dell'umanità sono fratelli – fu la sorprendente risposta, una rivelazione che lasciò tutti senza fiato – Figli della stessa madre. Quelle due carogne, avanzi per iene ed avvoltoi, sono fratelli: figli della stessa madre, una donna di nome Asha.”
“Per la Barba del Profeta!” “Allah misericordioso!” Queste ed altre, le esclamazioni e le imprecazioni che seguirono, poi Harith replicò:
“Asha? E’ un nome che non ho mai sentito prima.”
“Neanche a me questo nome dice nulla.” esordì il lord inglese.
“Certamente. Asha al nostro orecchio è il nome di un’estranea, ma Muna non lo è affatto!” ruggi il rais con tutto il rancore affatto represso.
“Muna? – proruppe Ibrahim che, come gli altri stava consumando il suo pasto e che rimase con il cosciotto d’agnello a mezz’aria e la faccia aggrottata – Muna è il nome di quell’aborto di donna, escremento di capra, puzza di topo, che nei sotterranei di quella maledetta Grotta dei Graffiti ci ha aizzato contro le sue fiere…”
Sir Richard si girò a guardarlo e si sorprese a pensare, mentre si puliva la bocca col dorso della mano destra, che, come tutti gli uomini della sua tradizione, anche l’amico Ibrahim possedeva un quel linguaggio fiorito, poetico oppure no: conforme l’occasione, infatti, una donna poteva essere "Come un sole che illumina e scalda" oppure "Stolto letame o anche Sterco di capra".
Tuttavia domandò:
“Questa donna sarebbe… ”
Rashid terminò per lui la frase:
“La madre di Hakam. Muna è la madre di Hakam. – spiegò – Il suo nome era Asha, quando fu rapita con suo figlio, un bambino di sei o sette anni e portata via da una tribù delle montagne del Neged, un villaggio di nome Sumenat e condotta al mercato degli schiavi di Doha.”
“Impressionante! - fece il lord – Un viaggio davvero lungo… davvero lungo!”
“Quando comparve sul palco degli schiavi, - riprese il racconto - Asha fece il vuoto attorno a sé e non soltanto per la straordinaria bellezza, ma per le due magnifiche compagne che le scodinzolavano accanto…”
“Le tigri! – proruppe ancora il lord – Le tigri che ci ha aizzato contro.”
Rashid assentì e proseguì, mentre il rancore contenuto nella voce cresceva con le parole:
“Asha era una cacciatrice di fiere… una domatrice. – spiegò – Ad aggiudicarsela, in una gara di offerte strabilianti, fu lo sceicco Ammad Sayed Alì.” tornò a ruggire la sua voce, trovando eco nell’accento temporalesco della voce del suo sceicco.
“Ecco spiegate molte cose. – disse infatti Harith – Lo sceicco Hammad Sayed Alì è il responsabile del massacro della tua famiglia, Rashid.”
Un silenzio profondo sceso sotto la tenda, perfino mani e mascelle smisero di lavorare e si poteva perfino udire il respiro della siepe di rovo davanti all’apertura della tenda dello sceicco, dove erano radunati..
“Proprio lui! – proferì Rashid – Hassan Sayed Alì, padre di Sayed Alì, cui l’inganno e il tradimento permisero di salire sul trono di Doha!”
“Io, mio rais, - interloquì Ashraf, uno degli uomini migliori di Harith – Io non conosco questi fatti, ma… per la Barba del Profeta!… mi pare un buon motivo per attaccare Doha!”
“E intendo farlo, un giorno, amico mio.
"E' sir Richard!... E l'altro cavaliere è certamente Ibrahim."
Una doppia sorpresa, però, attendeva tutti quando, raggiunte le prime palme, i due cavalieri balzarono giù dalle selle: la tunica di Ibrahim era macchiata di sangue sotto il candido mantello e la testina arruffata di un bambino spuntò da sotto il mantello color kaki del lord inglese.
“Lui è Kashi!” spiegò semplicemente l’inglese, affidandolo alle braccia tese di Zaira, accorsagli incontro.
Kashi era un bambino di quattro anni circa, capelli neri arruffati e contorti come serpentelli, un ciuffetto ribelle sulla fronte, occhi neri e un’espressione vivace sul faccino sporco di sabbia. Era piuttosto sviluppato per la sua età e non solo nel fisico: pronto con le mani e con la lingua.
Capì subito d’essere il benvenuto in mezzo a tutta quella gente sconosciuta e cominciò immediatamente a ridere e chiacchierare.
“Ma guardatelo! – sorrideva Rashid – Un momento fa ci guardava sospettoso e taciturno ed ora non smette di parlare.”
“Fra poco ci darà ordini, rais. –anche il lord sorrideva – Durante il viaggio decideva lui dove fermarci e quando fermarci… Dovevi sentirlo!”
“Ah.ah.ah… La principessa Jasmine sarà felicissima di questo arrivo. - rise ancora il rais, poi, mentre il bimbo si allontanava, dirottò la sua attenzione sui due amici - Che cosa significa questo sangue?” domandò.
“Siamo stati aggrediti. – rispose Ibrahim – Ma questo non è il mio sangue.” spiegò.
“Venite. – anche il lord era smontato di sella – Abbiamo molte cose da comunicare.”
L’abitazione che sir Richard aveva scelto a Sahab per sé era situata nella vecchia costruzione in muratura ad est dell’oasi. Diversamente dagli altri ambienti, questa recava un’impronta squisitamente occidentale: poltrone, divani, cassapanche e perfino un pianoforte ed inoltre un grande orologio a pendolo che però non funzionava, ma da cui il lord non intendeva separarsi ed infine un grande stemma nobiliare di cui era particolarmente geloso.
Da buon inglese, aveva sempre del the pronto da offrire agli amici, perciò li invitò a sedere ed entrò subito nei dettagli della conversazione:
“Siamo stati attaccati dai Kaza. – spiegò con fredda calma, sorseggiando il suo the; Rashid lo guardava in silenzio: l’impetuoso beduino non sempre riusciva a capire la calma del flemmatico amico – Racconta tu, Ibrahim!”
Ibrahim non se lo fece ripetere: non aspettava altro.
“Dai Kaza siamo arrivati due giorni fa. – esordì – Lo sceicco Feysal ci ha accolti con un po’ di perplessità, ma ci ha invitati sotto la sua tenda e ci ha spiegato che… Ripeto le sue parole: la mia gente ha iniziato la sua strada da sola, anche se io nutro dei dubbi sulla opportunità di rinunciare alla protezione dei Kinda!”
“Gli hai detto che questa presa di posizione potrebbe minacciare gli equilibri che si sono creati su queste sabbie?” domandò Harith, con espressione contrariata.
“Suo figlio Ben non gliene ha dato il tempo. – intervenne il lord – Quello sconsiderato giovanotto è entrato nella tenda con l’impeto del sam, minacciandoci con la sua kumiya… la ricurva spada di cui pare andare molto fiero!” aggiunse con palese sarcasmo.
“A rimetterci la vita, però, è stato lo sceicco Feysal.” interloquì Ibrahim.
“Feysal è morto?”stupì il rais dei Kinda.
“Con questo pugnale. – Ibrahim estrasse l’arma, un pugnale yemenita dall’affilatissima lama – Non volevo ucciderlo, ma non ho potuto evitarlo.”
“Racconta.” fece Rashid.
“Quel pazzo sconsiderato è piombato sotto la tenda gridando che i Kaza hanno nuove regole e che tutti i dissidenti della tribù sono già stati allontanati.”
“Quello che ha detto il vecchio pastore corrisponde a verità, dunque! - lo interruppe Rashid – Sono arrivati qui in cerca di protezione, una mezza dozzina di persone… della tribù dei Kaza, hanno detto, asserendo di essere stati espulsi dalla loro gente.”
“Non ne sapevamo niente. – replicò il lord – ma deve essere andata così. E… - una pausa per finire di sorseggiare il suo the e schiarirsi la gola, poi domandò – Quella gente è qui, adesso?”
Rashid assentì col capo, poi lo sollecitò a continuare.
“Ah… ecco! Torniamo a Feysal ed a suo figlio Ben… - disse sir Richard – Quello sciocco ragazzo si è avventato su Ibrahim senza permettergli di replicare alle sue stoltezze e Ibrahim ha dovuto difendersi… disgrazia ha voluto che il suo pugnale colpisse in pieno petto lo sceicco Feysal, intervenuto per separarli.”
“Questo increscioso episodio di sangue renderà ancora più difficili i rapporti con i Kaza. – disse Harith scotendo il capo – Esigeranno il sangue di Ibrahim.”
“E perché mai? Si è trattato solo di legittima difesa. – replicò il lord, poi aggiunse, in tono polemico – Il vostro codice d’onore non la contempla?”
“Bisognerà renderne le prove: con la morte del loro capo tutta la tribù si sente coinvolta e vorrà giustizia. - spiegò Harith – Presto i Kaza invieranno i loro emissari.”
I due riferirono anche che nessuna delle tribù convocate sarebbe mancata all'appuntamento e alla fine, Rashid:
“Restate qui ed ascoltate quanto ho da dirvi. – disse, facendo seguire una pausa per sorseggiare il suo caffè, poi proseguì – Ci siamo sempre posti una domanda… Che cosa avessero in comune quell’insaziabile avvoltoio di Sayed Alì e quel serpente velenoso di Hakam.”
“Sei, forse, al corrente di qualcosa che noi ignoriamo?” domandò Harith.
“Fratelli! Quei due flagelli dell'umanità sono fratelli – fu la sorprendente risposta, una rivelazione che lasciò tutti senza fiato – Figli della stessa madre. Quelle due carogne, avanzi per iene ed avvoltoi, sono fratelli: figli della stessa madre, una donna di nome Asha.”
“Per la Barba del Profeta!” “Allah misericordioso!” Queste ed altre, le esclamazioni e le imprecazioni che seguirono, poi Harith replicò:
“Asha? E’ un nome che non ho mai sentito prima.”
“Neanche a me questo nome dice nulla.” esordì il lord inglese.
“Certamente. Asha al nostro orecchio è il nome di un’estranea, ma Muna non lo è affatto!” ruggi il rais con tutto il rancore affatto represso.
“Muna? – proruppe Ibrahim che, come gli altri stava consumando il suo pasto e che rimase con il cosciotto d’agnello a mezz’aria e la faccia aggrottata – Muna è il nome di quell’aborto di donna, escremento di capra, puzza di topo, che nei sotterranei di quella maledetta Grotta dei Graffiti ci ha aizzato contro le sue fiere…”
Sir Richard si girò a guardarlo e si sorprese a pensare, mentre si puliva la bocca col dorso della mano destra, che, come tutti gli uomini della sua tradizione, anche l’amico Ibrahim possedeva un quel linguaggio fiorito, poetico oppure no: conforme l’occasione, infatti, una donna poteva essere "Come un sole che illumina e scalda" oppure "Stolto letame o anche Sterco di capra".
Tuttavia domandò:
“Questa donna sarebbe… ”
Rashid terminò per lui la frase:
“La madre di Hakam. Muna è la madre di Hakam. – spiegò – Il suo nome era Asha, quando fu rapita con suo figlio, un bambino di sei o sette anni e portata via da una tribù delle montagne del Neged, un villaggio di nome Sumenat e condotta al mercato degli schiavi di Doha.”
“Impressionante! - fece il lord – Un viaggio davvero lungo… davvero lungo!”
“Quando comparve sul palco degli schiavi, - riprese il racconto - Asha fece il vuoto attorno a sé e non soltanto per la straordinaria bellezza, ma per le due magnifiche compagne che le scodinzolavano accanto…”
“Le tigri! – proruppe ancora il lord – Le tigri che ci ha aizzato contro.”
Rashid assentì e proseguì, mentre il rancore contenuto nella voce cresceva con le parole:
“Asha era una cacciatrice di fiere… una domatrice. – spiegò – Ad aggiudicarsela, in una gara di offerte strabilianti, fu lo sceicco Ammad Sayed Alì.” tornò a ruggire la sua voce, trovando eco nell’accento temporalesco della voce del suo sceicco.
“Ecco spiegate molte cose. – disse infatti Harith – Lo sceicco Hammad Sayed Alì è il responsabile del massacro della tua famiglia, Rashid.”
Un silenzio profondo sceso sotto la tenda, perfino mani e mascelle smisero di lavorare e si poteva perfino udire il respiro della siepe di rovo davanti all’apertura della tenda dello sceicco, dove erano radunati..
“Proprio lui! – proferì Rashid – Hassan Sayed Alì, padre di Sayed Alì, cui l’inganno e il tradimento permisero di salire sul trono di Doha!”
“Io, mio rais, - interloquì Ashraf, uno degli uomini migliori di Harith – Io non conosco questi fatti, ma… per la Barba del Profeta!… mi pare un buon motivo per attaccare Doha!”
“E intendo farlo, un giorno, amico mio.
Cap. VI - Scaramucce femminili
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/3886096.jpg?399)
La tenda di Alina, la madre di Ibrahim, era la più grande fra tutte quelle del campo: la nascita di dodici figli, tra maschi e femmine, ne aveva ogni volta fatto aumentare la capienza. Era anche tra le più ricche e dotate perché tutta quella figliolanza aveva portato benessere, sollecitato la generosità dell’intera tribù.
Tappeti, stuoie, divani, cassettoni e ceste; specchi e specchietti, arazzi e telai, piatti, anfore, vasi e vassoi; fucili e pugnali: nella casa della madre di Ibrahim non mancava proprio nulla..
Luci e ombre, profumi ed odori. Confusione, risate e gridolini.
Era quasi sempre da lei che le donne si radunavano per ricorrenze. cerimonie, feste o semplicemente per fare quattro chiacchiere.
Mancavano due giorni alle nozze di Fatima con Ibrahim e tutte erano lì per contribuire in qualche modo.
Sedute per terra, su cataste di cuscini o su divani sepolti sotto pregiatissimi tappeti, ricamavano, intrecciavano ghirlande, fumavano narghilè e bevevano the oppure, in piedi, provavano corsetti e pantaloni o anche qualche passo di danza o unguenti e profumi acquistati ai mercati dei fellahin insieme al tabacco per gli uomini. Tutte simili a idoli luccicanti, letteralmente coperte di monili di ogni forma e dimensione, di ogni colore e materia.
C’era Letizia a raccontare favole alle più giovani… che, poi, piacevano tanto anche a tutte le altre; aveva sempre con sé dolcetti che offriva con le sue mani delicate ed affusolate da artista, movendosi leggera nella sua semplice veste di cotone stampata a fiori, ampia e lunga, stretta in vita da una fascia dello stesso colore del velo poggiato in testa o sulle spalle . Quando non raccontava suonava un violino di cui le aveva fatto dono sir Richard.
La storia più richiesta era quella delle donne di un antico popolo, di cui le aveva parlato il professore Marco e della sua Regina… Buadicca, si chiamava… Una Regina, raccontava Letizia, che aveva sfidato e affrontato un popolo assai potente, quello degli Antichi Romani.
E non mancava Selima, sempre con la sua irritante autorità di Favorita del capo. Stava mollemente sdraiata su un divano sopra una pila di cuscini, impegnata a reggere con una mano un prezioso specchietto, dono di Rashid, non mancava di sottolineare, a cui chiedeva consensi più che consigli ed attraverso cui gettava occhiate di traverso a colei che considerava la sua rivale.
Con l’altra mano, invece, giocava con uno spillone che continuava a conficcare nel cuscino posato in grembo, con gesto stizzoso e ripetuto, quasi con rabbia voluttuosa, come se lo stesse conficcando nel petto di qualcuno e non era difficile capire di chi si trattasse… Questo quando le dita non pescavano tra dolcetti al miele ed alle carrube in un grande vassoio.
Ne porse uno anche alla piccola Shannaz, la schiavetta bianca, anche questa dono del rais, appena la vide comparire nel vano dell’entrata.
“Il padrone chiede la tua compagnia, signora. – disse la piccola, facendo un grazioso inchino e tendendo la piccola mano verso il dolcetto – E sembra molto impaziente, mia signora.” aggiunse., facendolo sparire in una delle larghe maniche della camicia.
Selima si alzò languidamente dal divano; un ultimo sguardo di patetico consenso allo specchio. Selima aveva già compiuto trenta anni e quell’età, per la donna di un harem e per di più nella condizione di Favorita, era assai più di una “minaccia”: era una tragedia.
Ristette ancora qualche attimo immobile, lasciando scorrere lo sguado tutt’intorno, poi si allontanò verso l’uscita con tutta la burrosa pinguedine trionfalmente dondolante. Con gesto di incontenibile soddisfazione, mentre la piccola schiava le teneva sollevato il lembo dell’entrata, si girò verso le donne, ridendo e sorridendo, ondeggiando e scotendosi tutta e trascinando in quel dondolio ogni più piccola parte del corpo, in quella risata che pareva essere preludio di amorosi amplessi.
“Devo andare. Il mio signore reclama la mia compagnia.” continuava a ripetere e ridere, mettendo in mostra un’ingorda chiostra di perle un po’ ingiallite dall’abuso di datteri.
Quella risata golosa e soddisfatta non risparmiò nessuno. Soprattutto, colpì la principessa Jasmine.
In realtà, neppure gli sguardi delle donne, un po’ stupiti e dispiaciuti, risparmiarono la principessa .
Jasmine, però, scacciò subito lo stupore doloroso; per qualche attimo lasciò vagare d’intorno lo splendore di uno sguardo che pareva accresciuto più che disperso; sbatté più volte le palpebre dalle lunghissime ciglia, mentre una linea sottile le attraversava la fronte da un sopracciglio all’altro, eleganti come ali di gabbiano.
“Devo andare. – anche lei disse la stessa frase, mentre si alzava, tra lo sfolgorio degli ori attorno ai polsi e alle braccia, il balenio degli smeraldi agli anulari e lo splendore delle maglie d’argento attorno alle sottili caviglie – Devo andare.” ripeté, allontanandosi quasi di corsa, seguita dalla voce delle donne che la richiamavano:
“Il tuo alud, principessa… Hai dimenticato il tuo alud… Avete visto?… La principessa Jasmine ha dimenticato il suo alud…”
Tappeti, stuoie, divani, cassettoni e ceste; specchi e specchietti, arazzi e telai, piatti, anfore, vasi e vassoi; fucili e pugnali: nella casa della madre di Ibrahim non mancava proprio nulla..
Luci e ombre, profumi ed odori. Confusione, risate e gridolini.
Era quasi sempre da lei che le donne si radunavano per ricorrenze. cerimonie, feste o semplicemente per fare quattro chiacchiere.
Mancavano due giorni alle nozze di Fatima con Ibrahim e tutte erano lì per contribuire in qualche modo.
Sedute per terra, su cataste di cuscini o su divani sepolti sotto pregiatissimi tappeti, ricamavano, intrecciavano ghirlande, fumavano narghilè e bevevano the oppure, in piedi, provavano corsetti e pantaloni o anche qualche passo di danza o unguenti e profumi acquistati ai mercati dei fellahin insieme al tabacco per gli uomini. Tutte simili a idoli luccicanti, letteralmente coperte di monili di ogni forma e dimensione, di ogni colore e materia.
C’era Letizia a raccontare favole alle più giovani… che, poi, piacevano tanto anche a tutte le altre; aveva sempre con sé dolcetti che offriva con le sue mani delicate ed affusolate da artista, movendosi leggera nella sua semplice veste di cotone stampata a fiori, ampia e lunga, stretta in vita da una fascia dello stesso colore del velo poggiato in testa o sulle spalle . Quando non raccontava suonava un violino di cui le aveva fatto dono sir Richard.
La storia più richiesta era quella delle donne di un antico popolo, di cui le aveva parlato il professore Marco e della sua Regina… Buadicca, si chiamava… Una Regina, raccontava Letizia, che aveva sfidato e affrontato un popolo assai potente, quello degli Antichi Romani.
E non mancava Selima, sempre con la sua irritante autorità di Favorita del capo. Stava mollemente sdraiata su un divano sopra una pila di cuscini, impegnata a reggere con una mano un prezioso specchietto, dono di Rashid, non mancava di sottolineare, a cui chiedeva consensi più che consigli ed attraverso cui gettava occhiate di traverso a colei che considerava la sua rivale.
Con l’altra mano, invece, giocava con uno spillone che continuava a conficcare nel cuscino posato in grembo, con gesto stizzoso e ripetuto, quasi con rabbia voluttuosa, come se lo stesse conficcando nel petto di qualcuno e non era difficile capire di chi si trattasse… Questo quando le dita non pescavano tra dolcetti al miele ed alle carrube in un grande vassoio.
Ne porse uno anche alla piccola Shannaz, la schiavetta bianca, anche questa dono del rais, appena la vide comparire nel vano dell’entrata.
“Il padrone chiede la tua compagnia, signora. – disse la piccola, facendo un grazioso inchino e tendendo la piccola mano verso il dolcetto – E sembra molto impaziente, mia signora.” aggiunse., facendolo sparire in una delle larghe maniche della camicia.
Selima si alzò languidamente dal divano; un ultimo sguardo di patetico consenso allo specchio. Selima aveva già compiuto trenta anni e quell’età, per la donna di un harem e per di più nella condizione di Favorita, era assai più di una “minaccia”: era una tragedia.
Ristette ancora qualche attimo immobile, lasciando scorrere lo sguado tutt’intorno, poi si allontanò verso l’uscita con tutta la burrosa pinguedine trionfalmente dondolante. Con gesto di incontenibile soddisfazione, mentre la piccola schiava le teneva sollevato il lembo dell’entrata, si girò verso le donne, ridendo e sorridendo, ondeggiando e scotendosi tutta e trascinando in quel dondolio ogni più piccola parte del corpo, in quella risata che pareva essere preludio di amorosi amplessi.
“Devo andare. Il mio signore reclama la mia compagnia.” continuava a ripetere e ridere, mettendo in mostra un’ingorda chiostra di perle un po’ ingiallite dall’abuso di datteri.
Quella risata golosa e soddisfatta non risparmiò nessuno. Soprattutto, colpì la principessa Jasmine.
In realtà, neppure gli sguardi delle donne, un po’ stupiti e dispiaciuti, risparmiarono la principessa .
Jasmine, però, scacciò subito lo stupore doloroso; per qualche attimo lasciò vagare d’intorno lo splendore di uno sguardo che pareva accresciuto più che disperso; sbatté più volte le palpebre dalle lunghissime ciglia, mentre una linea sottile le attraversava la fronte da un sopracciglio all’altro, eleganti come ali di gabbiano.
“Devo andare. – anche lei disse la stessa frase, mentre si alzava, tra lo sfolgorio degli ori attorno ai polsi e alle braccia, il balenio degli smeraldi agli anulari e lo splendore delle maglie d’argento attorno alle sottili caviglie – Devo andare.” ripeté, allontanandosi quasi di corsa, seguita dalla voce delle donne che la richiamavano:
“Il tuo alud, principessa… Hai dimenticato il tuo alud… Avete visto?… La principessa Jasmine ha dimenticato il suo alud…”
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/6061872.jpg)
La principessa Jasmine si allontanò, prendendo la strada opposta a quella su cui si era incamminata l'altra donna del suo Rashid.
Jasmine sapeva che Rashid aveva altre donne. Se lo ripeteva ogni attimo del giorno. Un pensiero fisso e irremovibile. Loro due si erano appena sfiorati e nulla al mondo era stato per lei così meraviglioso, stupefacente e terrificante del fuggevole contatto con la diversità di lui.
Il suo primo bacio! Così piacevole e sconvolgente, tanto da richiamare in gola tutte le emozioni nascoste nei meandri più profondi dello spirito ancora vergine.
Ma per lui non doveva essere stato così! Le numerose donne che gli avevano dato piacere non erano come lei. Le numerose donne da cui Rashid traeva piacere erano come Selima, donne le cui bocche gli si aprivano facilmente e voluttuosamente… non come lei, che aveva esitato prima di scoprire che aprire la bocca ai suoi baci, era la cosa più semplice, dolce e spontanea.
L'ultima cosa che desiderava adesso, però, era che Rashid pensasse che lei vollesse spiare lui e la sua Favorita... Spiare, pensava... spiare con occhi supplichevoli e smarriti e con la stolta gelosia della donna che si nasconde e spasima. No! Non era da lei!
Ed intanto, proseguendo, il passo già affondava nella sabbia, vicino alla monumentale Fontana del Fico, la cui ombra proiettata al suolo, malinconica e solitaria, la inghiottì subito.
Si tirò su un lembo del velo e se lo avvolse intorno alla persona, come a volersi nascondere. Come se quel velo, intimo ed accogliente, fosse il rifugio della sua stanza, dove, sola e al chiuso, poteva nascondere e consolare la sua grande pena d'amore. Povero, vano e inutile sentimento: i baci appassionati, le carezze audaci e l'avvinghiante stretta dell'uomo che adorava non erano per lei; le passioni di lui erano soddisfatte altrove. A lei non restava che quell'angoscia dilaniante... la gelosia: troppo fugaci i loro incontri... quelli suoi e di Rashid, troppo casti i loro contatti... Selima, invece... gli sguardi avidi, le carezze predaci, la carne di lei contratta di spasimo sotto la mano brutalmente dolce e possessiva del suo Rashid che... Il "suo" Rashid!... Che sciocca!... No... troppo insultante e provocatoria la visione dei loro corpi avvinghiati...
"Jasmine... principessa Jasmine - una voce la scaraventò fuori della bruciante visione; era Letizia, la figlia minore del mercante greco - Il tuo liuto. Hai lasciato il tuo liuto da Alina." diceva.
Jasmine si fermò, si voltò e Letizia la raggiunse e tese il prezioso strumento musicale.
"E' bellissimo e prezioso! - disse, accennando agli intarsi ed alle incrostazioni di preziosi - E' un liuto bellissimo e dal suono dolce ed intenso.. Deve essere opera di un valente artista."
"E' un regalo di Rashid." rispose la principessa.
"E' molto generoso nei suoi regali il rais dei Kinda." sorrise Letizia.
"Lui è generoso con tutti. - anche Jasmine sorrise - Con me, con Alina... con Selima..." aggiunse con forzata indifferenza.
"Ho visto lo specchietto che Selima si gingillava tra le dita continuando a dichiararne la provenienza, - assentì Letizia - Ma questo alud è assai più prezioso di uno specchietto. - aggiunse, poi continuò - Anche con Fatima, Rashid è stato molto generoso."
Jasmine fece seguire un attimo di silenzio. Stava pensando che Rashid era davvero generoso con tutti e che Letizia aveva ragione: con lei era stato più generoso che con Selima.
"Fra due giorni Fatima ed Ibrahim si troveranno alla presenza del Kady per unirsi in matrimonio e i doni di Rashid alla sposa sono preziosi e numerosi quasi quanto quelli dello sposo." - osservò, col sorriso nascosto sotto il velo assieme al resto dell'armoniosa figura.
"Fatima ne sarà soddisfatta. - convenne Letizia - Anche l'henné, mi hanno detto, che Ibrahim non ha fatto mancare, è stato estratto dalle foglie più rigogliose ed odorose di alcanna... I capelli, le labbra e le unghie di Fatima - sorrise con dolce malizia - saranno i più luccicanti e profumati di Sahab, quando salirà sul cammello con il suo Ibrahim. - una pausa, che la ragazza riempì con un sospiro, mentre un bagliore le attraversava gli stupendi occhi azzurri - Sono davvero felice per Fatima. - scosse il capo, poi confessò, con candore - Ero molto gelosa di lei quando ancora era legata da promessa ad Harith."
"La promessa fatta dallo sceicco Harith a Fatima non era promessa d'amore. ma di dovere verso la sua gente - precisò Jasmine - Harith è innamorato di te, Letizia, ma... - aggiunse con soavità - anche se Harith avesse sposato Fatima, tu saresti stata la prima fra le sue donne..."
Letizia non la lasciò finire.
"Io non sarò mai la prima fra le donne di un uomo, ma l'unica. - insorse. Lei, che di tutti i sogni vissuti, delle gelosie represse, degli slanci trattenuti, di tutto questo si sentiva quasi in colpa - Io non avrei acconsentito mai alle nozze con Harith, sapendo di dividere il suo cuore con altre donne."
La principessa Jasmine tornò a fissarla con quella soavità disarmante.
"Nella vita di un uomo - replicò - ci sono sempre altre donne."
"Una sola donna è importante nella vita di un uomo. - replicò a sua volta Letizia - E' quella che non gli fa rimpiangere di non avere altre donne e che ha in sè tutte le qualità che un uomo cerca nella sua donna: che sia una donna forte, saggia, tenera, amabile, paziente e... innamorata... se poi è anche bella e graziosa..."
""Tu... tu credi, Letizia, che esista una donna con tutte queste qualità?"
"Se l'uomo è un uomo innamorato... sì! - rispose Letizia con altrettanto soave convinzione - Sì! Un uomo innamorato riesce a vedere nella sua donna tutte queste qualità!"
"Ma un uomo può amare una donna anche se questa non possiede tutte quelle qualità e cercare in un'altra, le qualità che mancano a quella... Per questo - aggiunse - Allah gli concede fino a quattro mogli che abbiano tra loro affinità. "
Un breve silenzio, poi Letizia replicò, irremovibile nelle sue convinzioni:
"Cosa accadrebbe, a qualcuna di loro, quando, in un attimo di incontrollato languore, l'uomo dovesse chiamarla con il nome o il vezzeggiativo riservato ad un'altra?"
"Hai dimenticato, piccola Letizia... - sorrise indulgente, sotto il velo, la bella principessa araba - Hai dimenticato le due qualità che non fanno mai salire alle labbra di un uomo il nome di un'altra donna, quando è con lei."
"Non ho dimenticato, Jasmine... Non l'ho dimenticato!... Dolcezza e soave remissività! Sono queste le qualità?... Docile e sottomessa... capace di intrattenere il proprio uomo, assicurargli piacere e godimento... Lo diceva la vecchia Alina a Fatima, poco fa... Accendergli nel sangue desiderio e languida passione... con segrete pratiche amorose..."
"Una donna come Selima?" non riuscì a trattenersi la principessa, con voce sommessa.
"Oh, no! No, Jasmine! - proruppe Letizia con enfasi - Quando un uomo guarda una donna come Rashid guarda la principessa Jasmine..."
Jasmine arrossì; la squillante risata del piccolo Kashi, le impedì la replica.
Il piccolo era in compagnia di Akim, di cui era diventato l'ombra inseparabile e che si avvicinò trotterellando felice e tendendo le braccia.
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/2874854.jpg?271)
Selima trovò Rashid sull’uscio della sua tenda; era da solo, ma dall’interno provenivano voci. La donna non vi dette peso.
“Eccomi qui, mio signore,… - bisbigliò fissandolo con sguardo appannato da languida lussuria, il corpo burroso inarcato e teso in avanti – Eccomi qui per il tuo piacere.” sussurrò e gli si offrì con tutta la sfrontata, insaziabile voglia di sesso; gli si buttò al collo.
Rashid rise ed inarcò leggermente la schiena all’indietro, sotto il peso di quella carne opulenta. Però non la trattenne. La posò a terra e le fece una fuggevole carezza sul bel faccione imbronciato e contrariato.
“Non ho voglia di fare sesso, Selima. – spiegò – Non è per questo che ti ho fatto venire qui. – lei gli afferrò la mano, cercò di trattenerla, ma Rashid la ritrasse e domandò, in tono deciso e risoluto – Che cosa puoi dirmi di quel giovane pastore arrivato con il vecchio… Viene dalla tribù dei Kaza, che è anche la tua tribù.”
“La mia tribù sono i Kinda!” fece lei con femminile astuzia; Rashid sorride e ripeté la domanda.
“Che cosa ne sai di quel giovane pastore Kaza?”
“Parli di quel pastore che è stato aggredito dalla tigre di Zaira? – fece la donna per tutta risposta, poi aggiunse – Quel grosso gattone dovrebbe essere sorvegliato un po’ più da vicino.”
“Io invece credo che ad essere sorvegliato debba essere il tuo amico pastore.” fece la voce impercettibilmente alterata del predone.
“Perché? Di quali scorrettezze lo accusate?”
Anche Rashid rispose alla domanda con un’altra domanda.
“Tu conosci quel pastore? Che cosa sai di lui? Perché è venuto qui… A chiedere protezione. Sì. Lo so! – precisò il giovane al tentativo di lei di prendere la parola – Ma è questa as vera ragione?”
“E quale altra ragione ci potrebbe essere, mio adorato signore e padrone? “ replicò lei, melliflua e tentatrice, estremamente contrariata, però, avendo perfettamente capito il motivo di quell’incontro.
“E’ stata davvero necessità a condurlo qui?”
“E che cos’altro, allora?”
La stizza della contrarietà era in agguato, ma la donna cercò di tenerla a freno.
“L’inganno… forse.”
“Che cosa vuoi dire? Non capisco.”
“L’interesse che quel pastore ha mostrato per la principessa Jasmine - spegò il giovane – e la sfrontatezza delle sue domande lo rendono sospetto.”
“Sospetto?” lo interruppe lei aggrottando la fronte.
“Stanno in agguato… oltre i confini di questa oasi… gli uomini di Hakam!”
“Quei pazzi sanguinari? – gli fece eco la Favorita – E tu credi che Abdel possa essere uno di loro? Abdel?… Ah.h.ah… - rise, gorgogliando ed ondeggiando in tutta la propria opulenza – Non hai visto quanto terrore c’era nei suoi occhi quando quella fiera l’ha aggredito ed atterrato?… - una pausa, riempita da un sospiro di languida delusione, poi riprese – Nessuno di quegli uomini sanguinari cede lo sguardo di fronte allo sguardo di una fiera… piuttosto il contrario!”
“E tu che cosa ne sai?” domandò in tono inquisitorio il rais.
“Jasmine… La principessa Jasmine l’ha detto.”
“Già! E’ per lei che temo! – anche Rashid ebbe un sospiro, poi soggiunse – Vai pure, Selima. Allah sia con te!” e la salutò ancora con una carezza: fuggevole e distratta per lui, ma come liquido fuoco vivo per lei.
Rashid rientrò nella tenda e bevve il the che una delle donne di casa gli porgeva, poi chiese nuovamente di Jasmine.
Capitolo VII - L'aggressione
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/3716027.jpg?361)
"Inshallah!"
La fiaccolata avanzò, suggestiva, nella sera incipiente, precedendo un cammello bardato a festa e accompagnato da un corteo di festanti danzatori e suonatori.
Era il cammello degli sposi: Fatima e Ibrahim e si fermò davanti alla tenda di Ibrahim, lunga bassa e aperta, così come sua madre Alina aveva voluto che fosse, proprio accanto alla sua.
Lo sposo aiutò la sposa con gran premura a scendere dal sontuoso baldacchino montato sulla groppa dell'animale, che era stato fatto inginocchiare: premura quasi esagerata, non fosse per il fatto che i voluminosi drappeggi del prezioso e luccicante abito nuziale non riuscissero a nascondere i segni della sua gravidanza.
La tribù intera dello sposo era lì ad accoglierla, ma negli occhi della sposa, dietro il candido e trasparentissimo velo, navigava una nuvola di malinconia: nessuno della sua gente, gli Aws, la sua tribù, era presente a quel lieto evento. Gli Aws avevano accolto quelle nozze come un insulto alla onorabilità della famiglia, essendo, il matrimonio, un istituto familiare e non personale e considerando la proposta di matrimonio di Ibrahim, un ripiego al rifiuto del cugino Harith, sceicco dei Kinda.
Tutti, però, si adopravano per alleggerire il disagio della sposa e disperdere dal suo sguardo quel velo di malinconia.
Seduta su una sella ricca di sfarzi ed ornamenti. l'attorniavano le ragazze della tribù; i maschi, invece, sfogavano la propria esuberanza attraversando il campo in sfrenate galoppate o riempendo la sera incipiente di colpi di fucili e carabine.
Zaira, Letizia, Jasmine, Agar, Selima e le altre... c'erano tutte e tutte si rimpinzavano di dolcetti al miele e dolcissime bevande, sotto gli sguardi ammiccanti di giovani possibili pretendenti: quelle feste erano occasione per fidanzamenti e matrimoni futuri.
Tra risate e gridolini, si gingillavano con anelli di cui erano cariche le dita, cercando attraverso il "gioco degli anelli" di scoprire il futuro.
Cominciò Agar, la sorella minore dello sposo, uno scricciolo di donna scintillante di vistosi gioielli come un piccolo idolo; esibiva un anellino nuovo, avuto per l'occasione, un cerchietto interrotto da due minuscole pietre azzurre, che esibiva al mignolo destro e mostrava a tutte con orgoglio.
"Hai scelto il mignolo, piccola Agar. - spiegò Zaira - perché sei tanto giovane e un po' incosciente... ma hai tutta la vita che ti attende!" aggiunse con un sorriso indulgente.
"Non l'ho scelto io. - spiegò la piccola; Agar aveva solo nove anni e un visetto arguto e vivace - Era l'anello più piccolo del cofanetto di mia madre e poteva entrare solo al mio mignolo..."
"Ah.ah.ah..." risero tutte.
"Guarda i miei anelli, Zaira e dimmi il mio futuro."
La Favorita del rais, bardata quasi come la sella su cui sedeva la sposa, fece dirottare l'attenzione di tutte su di sé. Selima esibiva anellli quasi identici ad entrambi i pollici: una piccola scacchiera di diamanti ed una strana figura alata, montati su due cerchi piuttosto larghi e spessi, tali da coprirle quasi interamente le falangi grassocce.
"Sono doni di Rashid." tenne a precisare, con quell'irritante superiorità che le veniva dall'essere la Favorita del capo.
"Rashid non poteva farti dono più appropriato, Selima. - interloquì Letizia, sollevando su di lei lo sguardo e fissandola a ciglia socchiuse, con tale intensità da non accorgersi del gestro di insofferenza dell'altra, irritata dalla sua familiarità - Con quegli anelli alle dita sembri la regina Maria Antonietta... Vi ho raccontato la storia della regina Maria Antonietta di Francia?... Quelli che porti alle dita sembrano gli anelli del Comando... simboli di dominio e prepotenza... un po' come sei tu, Selima. Ah.ah.ah..." rise.
Selima fece l'atto di replicare, ma Zaira la prevenne.
"Non devi dispiacerti, Selima, per quello che ha detto Letizia. Lei voleva soltanto riconoscere la tua autorità sulle altre donne del rais..." disse in tono conciliante la figlia dell'asceta indiano. Lei portava al dito un'enorme perla che le aveva donato sir Richard, proveniente, le aveva spiegato, dalle acque della costa di Al Mughera, i cui fondali era piuttosto familiari al lord inglese e quella meraviglia era frutto proprio di una sua immersione in quelle acque.
La perla, lo sapevano tutte, era indice di saggezza, equilibrio emotivo e senso di giustizia, qualità che non mancavano certo nella bella indiana.
Selima, però, non aveva rinunciato alla sua replica.
"E la figlia di Aristos Gallas, mercante di gioielli e preziosi, che cosa porta alle sue dita?" domandò in tono caustico.
Letizia sollevò la mano ed indicò l'anulare ornato di un magnifico anello d'oro impreziosito di piccoli diamanti e sormontato da uno splendido rubino.
"E' dono dello sceicco Harith - domandò Selima - oppure.."
"E' un dono di Harith." rispose con semplicità Letizia.
"Avremo presto un'altra festa di nozze, dunque!" continuò Selima, sempre con quell'irritante sarcasmo.
L'atletica figura di Harith, che a lunghi passi stava percorrendo lo spiazzo diretto proprio nella loro doirezione, parve quasi una conferma alle parole della ragazza; il gruppo dei giovani s'era sciolto: alcuni di loro s'erano seduti in circolo subito raggiunti da ragazze con vassoi ricolmi e altri, invece, avevano preso altre direzioni.
Harith si avvicinò al gruppo delle ragazze, salutò, poi si allontanò in compagnia di Letizia.
"L'anulare - li seguì la voce di Zaira - che la nostra cara Lerizia ha scelto per il suo anello è il dito dell'Amore... Sì! Credo proprio che festeggeremo presto nuove nozze."
"Hhhh! - grugnì Selima, mandando un fuggevole sguardo in direzione di Jasmine, più bella che mai, più taciturna che mai, più malinconica che mai - Hhhh!" ripeté e si alzò per allontanarsi in gran fretta, andando quasi a scontrarsi con il lord inglese che stava sopraggiungendo e che salutò con un inchino compito.
La fiaccolata avanzò, suggestiva, nella sera incipiente, precedendo un cammello bardato a festa e accompagnato da un corteo di festanti danzatori e suonatori.
Era il cammello degli sposi: Fatima e Ibrahim e si fermò davanti alla tenda di Ibrahim, lunga bassa e aperta, così come sua madre Alina aveva voluto che fosse, proprio accanto alla sua.
Lo sposo aiutò la sposa con gran premura a scendere dal sontuoso baldacchino montato sulla groppa dell'animale, che era stato fatto inginocchiare: premura quasi esagerata, non fosse per il fatto che i voluminosi drappeggi del prezioso e luccicante abito nuziale non riuscissero a nascondere i segni della sua gravidanza.
La tribù intera dello sposo era lì ad accoglierla, ma negli occhi della sposa, dietro il candido e trasparentissimo velo, navigava una nuvola di malinconia: nessuno della sua gente, gli Aws, la sua tribù, era presente a quel lieto evento. Gli Aws avevano accolto quelle nozze come un insulto alla onorabilità della famiglia, essendo, il matrimonio, un istituto familiare e non personale e considerando la proposta di matrimonio di Ibrahim, un ripiego al rifiuto del cugino Harith, sceicco dei Kinda.
Tutti, però, si adopravano per alleggerire il disagio della sposa e disperdere dal suo sguardo quel velo di malinconia.
Seduta su una sella ricca di sfarzi ed ornamenti. l'attorniavano le ragazze della tribù; i maschi, invece, sfogavano la propria esuberanza attraversando il campo in sfrenate galoppate o riempendo la sera incipiente di colpi di fucili e carabine.
Zaira, Letizia, Jasmine, Agar, Selima e le altre... c'erano tutte e tutte si rimpinzavano di dolcetti al miele e dolcissime bevande, sotto gli sguardi ammiccanti di giovani possibili pretendenti: quelle feste erano occasione per fidanzamenti e matrimoni futuri.
Tra risate e gridolini, si gingillavano con anelli di cui erano cariche le dita, cercando attraverso il "gioco degli anelli" di scoprire il futuro.
Cominciò Agar, la sorella minore dello sposo, uno scricciolo di donna scintillante di vistosi gioielli come un piccolo idolo; esibiva un anellino nuovo, avuto per l'occasione, un cerchietto interrotto da due minuscole pietre azzurre, che esibiva al mignolo destro e mostrava a tutte con orgoglio.
"Hai scelto il mignolo, piccola Agar. - spiegò Zaira - perché sei tanto giovane e un po' incosciente... ma hai tutta la vita che ti attende!" aggiunse con un sorriso indulgente.
"Non l'ho scelto io. - spiegò la piccola; Agar aveva solo nove anni e un visetto arguto e vivace - Era l'anello più piccolo del cofanetto di mia madre e poteva entrare solo al mio mignolo..."
"Ah.ah.ah..." risero tutte.
"Guarda i miei anelli, Zaira e dimmi il mio futuro."
La Favorita del rais, bardata quasi come la sella su cui sedeva la sposa, fece dirottare l'attenzione di tutte su di sé. Selima esibiva anellli quasi identici ad entrambi i pollici: una piccola scacchiera di diamanti ed una strana figura alata, montati su due cerchi piuttosto larghi e spessi, tali da coprirle quasi interamente le falangi grassocce.
"Sono doni di Rashid." tenne a precisare, con quell'irritante superiorità che le veniva dall'essere la Favorita del capo.
"Rashid non poteva farti dono più appropriato, Selima. - interloquì Letizia, sollevando su di lei lo sguardo e fissandola a ciglia socchiuse, con tale intensità da non accorgersi del gestro di insofferenza dell'altra, irritata dalla sua familiarità - Con quegli anelli alle dita sembri la regina Maria Antonietta... Vi ho raccontato la storia della regina Maria Antonietta di Francia?... Quelli che porti alle dita sembrano gli anelli del Comando... simboli di dominio e prepotenza... un po' come sei tu, Selima. Ah.ah.ah..." rise.
Selima fece l'atto di replicare, ma Zaira la prevenne.
"Non devi dispiacerti, Selima, per quello che ha detto Letizia. Lei voleva soltanto riconoscere la tua autorità sulle altre donne del rais..." disse in tono conciliante la figlia dell'asceta indiano. Lei portava al dito un'enorme perla che le aveva donato sir Richard, proveniente, le aveva spiegato, dalle acque della costa di Al Mughera, i cui fondali era piuttosto familiari al lord inglese e quella meraviglia era frutto proprio di una sua immersione in quelle acque.
La perla, lo sapevano tutte, era indice di saggezza, equilibrio emotivo e senso di giustizia, qualità che non mancavano certo nella bella indiana.
Selima, però, non aveva rinunciato alla sua replica.
"E la figlia di Aristos Gallas, mercante di gioielli e preziosi, che cosa porta alle sue dita?" domandò in tono caustico.
Letizia sollevò la mano ed indicò l'anulare ornato di un magnifico anello d'oro impreziosito di piccoli diamanti e sormontato da uno splendido rubino.
"E' dono dello sceicco Harith - domandò Selima - oppure.."
"E' un dono di Harith." rispose con semplicità Letizia.
"Avremo presto un'altra festa di nozze, dunque!" continuò Selima, sempre con quell'irritante sarcasmo.
L'atletica figura di Harith, che a lunghi passi stava percorrendo lo spiazzo diretto proprio nella loro doirezione, parve quasi una conferma alle parole della ragazza; il gruppo dei giovani s'era sciolto: alcuni di loro s'erano seduti in circolo subito raggiunti da ragazze con vassoi ricolmi e altri, invece, avevano preso altre direzioni.
Harith si avvicinò al gruppo delle ragazze, salutò, poi si allontanò in compagnia di Letizia.
"L'anulare - li seguì la voce di Zaira - che la nostra cara Lerizia ha scelto per il suo anello è il dito dell'Amore... Sì! Credo proprio che festeggeremo presto nuove nozze."
"Hhhh! - grugnì Selima, mandando un fuggevole sguardo in direzione di Jasmine, più bella che mai, più taciturna che mai, più malinconica che mai - Hhhh!" ripeté e si alzò per allontanarsi in gran fretta, andando quasi a scontrarsi con il lord inglese che stava sopraggiungendo e che salutò con un inchino compito.
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/2747792.jpg?263)
Zaira, bellissima ed armoniosa nel suo sari di seta color indaco, china a raccogliere per terra uno degli ornamenti sfuggiti alla sposa, sollevò il capo e gli occhi, neri e ricolmi di misterioso splendore, luccicarono nella notte avanzata.
Il lord tese una mano per aiutarla a rialzarsi: un lieve contatto che suscitò in entrambi qualcosa come un invito: a lui di guidarla ed a lei di seguirlo.
Solo un tocco delle mani e solo un sorriso.
Sir Richard le sistemò l'ampio velo sulle spalle.
"Comincia a far fresco. - disse - E' calata la notte."
Era calata la notte con tutte le sensazioni di mistero e sognanti atmosfere; sulle loro teste, sopra le cime piumate del palmizio, le stelle stavano accendondosi pian piano, isolate oppure a grappoli. Proseguirono in silenzio, senza che nessuno dei due riuscisse a comunicare all'altro l'incanto di quell'istante e il silenzio si protrasse a lungo: sir Richard, con lo sguardo fisso su di lei e Zaira con gli occhi fissi sulla cima delle palme.
Infne il lord ruppe il silenzio, si fermò, le prese il volto tra le mani, facendole scivolare il velo sulle spalle e risplendere i nudi occhi di ragazza ignara della vita, in cui,però, navigavano, irrequieti, sogni e desideri.
"Io sento del trasporto per te, Zaira... trepida emozione."
Lei trasalì e non rispose subito.
"Io non posso ascoltarti, sir. - disse infine - Io sono votata ad una Dea intransigente e gelosa e fino a quando lei non mi renderà libera del suo vincolo, io sono un pericolo per qualunque uomo osi solamente sfiorarmi con lo sguardo."
"Intransigente e gelosa! - assentì il lord - Kalì è una Dea intransigente e gelosa. Lo so! Ma io non la temo, Zaira. Il potere degli Dei sugli uomini sta proprio nel timore che noi abbiamo di loro."
"Taci. Taci, ti prego! Se ti accadesse qualcosa, io... io... io ne morirei."
"Oh, mio bene infinito! Se anche tu senti lo stesso richiamo del mio cuore, nessuna forza, divina o mortale, potrà tenerci separati." proruppe lui attirandola a sé e stringendo con passione la flessuosa personcina avvolta nell'ampio velo fluttuante.
Confusa e stordita da sensazioni sconosciute e mai neppure sognate, Zaira si lasciò abbracciare ed accarezzae, ma, quel limbo di sublime languore, di fulmineo accendersi di brividi di desiderio, mutò in una sensazione di colpa. Si svincolò dalla stretta; restò ancora per qualche attimo tra le sue braccia, ma con lo stupore sbalordito e inconsapevole dell'innocenza non ancora violata.
***************
Fiamme di bivacchi, bagliori di torce, una stupefacente luna piena e la notte rallentò.
Harith si allontanò con Letizia in direzione della Fontana del Fico; la luna illuminava il terreno davanti ai loro passi.
L'ombra che la grande struttura proiettava per terra in parte li catturò di sfuggita , ma non impedì al chiarore lunare di sfavillare sulla superficie della grande vasca e nelle gocce d'acqua che scivolavano di tra le dita di Letizia che vi aveva affondato le mani con piacere quasi infantile. Ma forse era solo per nascondere quel fulgore dell'animo di cui erano colmi i suoi occhi: Harith s'era fermato, le aveva circondato le spalle e la fissava con tale intensità da farle riflettere sul dettame islamico, per la donna, di coprirsi il volto.
Non lo fece, però e lasciò che la luna traesse bagliori anche dagli straordinari occhi azzurri e rilucesse sulla pelle levigata e dai riflessi rosati.
Quei bagliori avvolgevano anche la figura di lui, salda e possente, come circondata da un'aureola argentea.
Si guardarono: gli occhi di lui neri e di carbone acceso e quelli di lei scintillanti di un improvviso fulgore. Si guardarono e fu come se i pensieri, le emozioni, le sensazioni dell'uno penetrassero nell'altro e scivolassero fino al cuore ed oltre. Poi le parole di lui:
"Letizia, figlia del professor Alssandro Bosio, sotto la tutela del lord inglese sir Reginald Scott, ufficiale di Sua Maestà Britannica, regina Vittoria, vuoi unire la tua vita alla mia, Harith abu Asssan, sceicco dei Kinda, principe di Fatheh?"
Inaspettata e fin troppo formale la richiesta, trepida e quasi incredula la risposta.
"mi... mi stai... chiedendo di diventare la tua sposa, Harith?" appena un bisbiglio sulle labbra di lei semiaperte, carnose e rosse come un fiore di melograno: un invito a cui il grande predone non seppe resistere.
Harith si chinò su quelle labbra e si saziò del sapore di dolcetti e karkadè della sua bocca, poi le sussurò, tra un bacio e una carzza:
"Sola e per sempre, Luce degli Occhi Miei! E voglio che sia proprio come tu hai sempre sognato, mio piccolo fiore... una promessa d'amore e non solo un Nikah... un contratto di matrmonio...." s'interruppe, per stringere a sé con passione la sua flessuosa personcina accarezzata dal largo mantello conteso dalla brezza npotturna.
Gli occhi di Letizia si alzarono, adoranti, verso di lui e si abbassarono quelli di lui, scuri come la notte, per tingersi di azzurro.
Negli occhi, il desiderio l'uno dell'altra.
Quel desiderio, quel bisogno, quella ricerca dell'animo dell'altro, quella necessità di raggiungere e congiungersi all'animo dell'altro, che faceva vibrare il corpo. Anime che al più fuggevole contatto dei corpi si fondevano ed al solo tocco di una mano o di una carezza aerea, si sublimavano,
S'interruppe, Harith, ma soltanto per tirar fuori da sotto il bianco mantello quel pegno , quel simbolo d'amore, quel cerchio magico che unisce oppure separa: un anello.
Lo sceicco raccolse la mano destra di lei, affusolata e morbida e infilò all'anulare sinistro uno splendido anello che un preziosissimo turchese rendeva unico e particolare.
"A Letizia, bellissima e dolcissima Regina del cuore del suo cavaliere senza macchia né paura... Unica e sola, libera e ribelle come un'aquila reale... fragile come una rosa di serra e forte come la rosa del deserto...La mia Letizia! Vuoi diventare la mia sposa?"
E, prima ancora che con le parole, un semplice ed ineguagliabile "Sì!", Letizia rispose con uno sguardo in cui era concentrato tutto l'Universo e quell'universo aveva un nome: Harith!
"A te dedicherò la mia esistenza, Letizia e mai ti farò rimpiangere la tua patria lontana. - l'attirò nell'incavo delle braccia e le sussurrò, affondando la bocca nella massa setosa dei biondi capelli - Ti prometto anche che un giorno incontrerai le persone a te care... tua sorella Atena e il professor Marco."
"Davvero? - gli splendidi occhi di lei brillavano, un luccicore quasi di pianto - Davvero rivedrò la mia carissima Atena?"
"E' una promessa, mio bene. - sorrise il giovane, poi - Ma ora dobbiamo comunicare agli altri che presto a Sahab ci sarà una nuova festa di matrimonio."
"Oh, Harith!" sussurrò lei, lasciandosi baciare ed accarezzare dolcemente.
Il lord tese una mano per aiutarla a rialzarsi: un lieve contatto che suscitò in entrambi qualcosa come un invito: a lui di guidarla ed a lei di seguirlo.
Solo un tocco delle mani e solo un sorriso.
Sir Richard le sistemò l'ampio velo sulle spalle.
"Comincia a far fresco. - disse - E' calata la notte."
Era calata la notte con tutte le sensazioni di mistero e sognanti atmosfere; sulle loro teste, sopra le cime piumate del palmizio, le stelle stavano accendondosi pian piano, isolate oppure a grappoli. Proseguirono in silenzio, senza che nessuno dei due riuscisse a comunicare all'altro l'incanto di quell'istante e il silenzio si protrasse a lungo: sir Richard, con lo sguardo fisso su di lei e Zaira con gli occhi fissi sulla cima delle palme.
Infne il lord ruppe il silenzio, si fermò, le prese il volto tra le mani, facendole scivolare il velo sulle spalle e risplendere i nudi occhi di ragazza ignara della vita, in cui,però, navigavano, irrequieti, sogni e desideri.
"Io sento del trasporto per te, Zaira... trepida emozione."
Lei trasalì e non rispose subito.
"Io non posso ascoltarti, sir. - disse infine - Io sono votata ad una Dea intransigente e gelosa e fino a quando lei non mi renderà libera del suo vincolo, io sono un pericolo per qualunque uomo osi solamente sfiorarmi con lo sguardo."
"Intransigente e gelosa! - assentì il lord - Kalì è una Dea intransigente e gelosa. Lo so! Ma io non la temo, Zaira. Il potere degli Dei sugli uomini sta proprio nel timore che noi abbiamo di loro."
"Taci. Taci, ti prego! Se ti accadesse qualcosa, io... io... io ne morirei."
"Oh, mio bene infinito! Se anche tu senti lo stesso richiamo del mio cuore, nessuna forza, divina o mortale, potrà tenerci separati." proruppe lui attirandola a sé e stringendo con passione la flessuosa personcina avvolta nell'ampio velo fluttuante.
Confusa e stordita da sensazioni sconosciute e mai neppure sognate, Zaira si lasciò abbracciare ed accarezzae, ma, quel limbo di sublime languore, di fulmineo accendersi di brividi di desiderio, mutò in una sensazione di colpa. Si svincolò dalla stretta; restò ancora per qualche attimo tra le sue braccia, ma con lo stupore sbalordito e inconsapevole dell'innocenza non ancora violata.
***************
Fiamme di bivacchi, bagliori di torce, una stupefacente luna piena e la notte rallentò.
Harith si allontanò con Letizia in direzione della Fontana del Fico; la luna illuminava il terreno davanti ai loro passi.
L'ombra che la grande struttura proiettava per terra in parte li catturò di sfuggita , ma non impedì al chiarore lunare di sfavillare sulla superficie della grande vasca e nelle gocce d'acqua che scivolavano di tra le dita di Letizia che vi aveva affondato le mani con piacere quasi infantile. Ma forse era solo per nascondere quel fulgore dell'animo di cui erano colmi i suoi occhi: Harith s'era fermato, le aveva circondato le spalle e la fissava con tale intensità da farle riflettere sul dettame islamico, per la donna, di coprirsi il volto.
Non lo fece, però e lasciò che la luna traesse bagliori anche dagli straordinari occhi azzurri e rilucesse sulla pelle levigata e dai riflessi rosati.
Quei bagliori avvolgevano anche la figura di lui, salda e possente, come circondata da un'aureola argentea.
Si guardarono: gli occhi di lui neri e di carbone acceso e quelli di lei scintillanti di un improvviso fulgore. Si guardarono e fu come se i pensieri, le emozioni, le sensazioni dell'uno penetrassero nell'altro e scivolassero fino al cuore ed oltre. Poi le parole di lui:
"Letizia, figlia del professor Alssandro Bosio, sotto la tutela del lord inglese sir Reginald Scott, ufficiale di Sua Maestà Britannica, regina Vittoria, vuoi unire la tua vita alla mia, Harith abu Asssan, sceicco dei Kinda, principe di Fatheh?"
Inaspettata e fin troppo formale la richiesta, trepida e quasi incredula la risposta.
"mi... mi stai... chiedendo di diventare la tua sposa, Harith?" appena un bisbiglio sulle labbra di lei semiaperte, carnose e rosse come un fiore di melograno: un invito a cui il grande predone non seppe resistere.
Harith si chinò su quelle labbra e si saziò del sapore di dolcetti e karkadè della sua bocca, poi le sussurò, tra un bacio e una carzza:
"Sola e per sempre, Luce degli Occhi Miei! E voglio che sia proprio come tu hai sempre sognato, mio piccolo fiore... una promessa d'amore e non solo un Nikah... un contratto di matrmonio...." s'interruppe, per stringere a sé con passione la sua flessuosa personcina accarezzata dal largo mantello conteso dalla brezza npotturna.
Gli occhi di Letizia si alzarono, adoranti, verso di lui e si abbassarono quelli di lui, scuri come la notte, per tingersi di azzurro.
Negli occhi, il desiderio l'uno dell'altra.
Quel desiderio, quel bisogno, quella ricerca dell'animo dell'altro, quella necessità di raggiungere e congiungersi all'animo dell'altro, che faceva vibrare il corpo. Anime che al più fuggevole contatto dei corpi si fondevano ed al solo tocco di una mano o di una carezza aerea, si sublimavano,
S'interruppe, Harith, ma soltanto per tirar fuori da sotto il bianco mantello quel pegno , quel simbolo d'amore, quel cerchio magico che unisce oppure separa: un anello.
Lo sceicco raccolse la mano destra di lei, affusolata e morbida e infilò all'anulare sinistro uno splendido anello che un preziosissimo turchese rendeva unico e particolare.
"A Letizia, bellissima e dolcissima Regina del cuore del suo cavaliere senza macchia né paura... Unica e sola, libera e ribelle come un'aquila reale... fragile come una rosa di serra e forte come la rosa del deserto...La mia Letizia! Vuoi diventare la mia sposa?"
E, prima ancora che con le parole, un semplice ed ineguagliabile "Sì!", Letizia rispose con uno sguardo in cui era concentrato tutto l'Universo e quell'universo aveva un nome: Harith!
"A te dedicherò la mia esistenza, Letizia e mai ti farò rimpiangere la tua patria lontana. - l'attirò nell'incavo delle braccia e le sussurrò, affondando la bocca nella massa setosa dei biondi capelli - Ti prometto anche che un giorno incontrerai le persone a te care... tua sorella Atena e il professor Marco."
"Davvero? - gli splendidi occhi di lei brillavano, un luccicore quasi di pianto - Davvero rivedrò la mia carissima Atena?"
"E' una promessa, mio bene. - sorrise il giovane, poi - Ma ora dobbiamo comunicare agli altri che presto a Sahab ci sarà una nuova festa di matrimonio."
"Oh, Harith!" sussurrò lei, lasciandosi baciare ed accarezzare dolcemente.
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/3529955.jpg?360)
Con la sposa erano rimaste solamente Jasmine e la piccola Agar, ma anche questa finì per allontanarsi e raggiungere il gruppo delle coetanee e quando infine arrivò anche lo sposo, che invitò la sposa a seguirlo, la principessa Jasmine si ritrovò da sola.
Anche lei si allontanò. Avanzò verso la distesa oltre la Fontana del Fico, che le ombre della notte avevano in parte risparmiato, lasciando alle fiamme del bivacco più vicino il compito di lasciare illuminata solo una piccola parte.
Jasmine guardò i palmizi alle sue spalle, anche questi contesi dalle tenebre, le cui foglie lasciate alla luce, brillavano sotto la spinta del vento; guardò le stelle ed assaporò i profumi della notte e i suoni sommessi, lontani dal clangore della festa a cui aveva voltato le spalle.
Si fermò. Respirò a pieni polmoni l'aria fresca della notte, avvolgendosi dentro il mantello e fissando davanti a sé lo scenario illuminato dalla luna; il verso querulo e vicino di un uccello notturno.
Si girò. Tornò a guardare in direzione dei bivacchi, delle fiaccole appese alle tende, della folla festante, dei giovani con le carabine in mano, delle ragazze con i bricchi, di Rashid...
Rashid e Selima!... Parlavano amabilmente e lui le stava sfiorando la guancia protesa... Rashid reggeva ancora le briglie del suo cavallo con cui aveva gareggiato assieme agli altri cavalieri e Selima...
Staccò gli occhi stupiti e furenti dai due e portò altrove lo sguardo.
******************************************
Rashid sorrideva, indulgente ma con sguardo indifferente: Selima era protesa verso di lui, il corpo inarcato e pronta ad offriglisi.
"Sai dove si trova Jasmine?" domandò, mentre affidava ad un ragazzo le redini del cavallo.
Selima sollevò verso di lui il capo con uno scatto rabbioso e negli occhi eccitati, l'ingordigia carnale andò immediatamente frantumando. Contrariata e offesa, in preda ad una dolorosa eccitazione, era troppo intelligente per illudersi:
"Vuoi andare da lei?" domandò a sua volta, nell'inutile tentativo di trattenerlo ancora per qualche istante, di impadronirsi di lui ancora per qualche respiro, nello spasmo di baci e carezze di cui non era mai sazia, di concupiscenza, di spasmi amorosi. La certezza della fine di un sentimento per lei ingordo come la fame l'atterriva.
Lo sapeva da tempo che la fine era vicina; da tempo lui la possedeva, sempre insoddisfatto e mai pago, per poi mandarla via con un sorriso estraneo o una carezza distratta.
"Sai dov'é Jasmine?"
Rashid ripeté la domanda.
"L'ho lasciata con la sposa..." fu la risposta contrariata e velenosa di Selima, ma Rashid non le consentì nemmeno di terminare la frase e si allontano a lunghi passi.
Nello spiazzo davanti alla casa di Alina, Rashid non trovò la sposa, né trovò Jasmine, ma accettò la tazza di fumante the aromatizzato che portò alle labbra proprio mentre un disperato grido d’aiuto echeggiava nell'aria:
“La principessa Jasmine… hanno ferito la principessa Jasmine - il ragazzo che aveva gridato continuava a sbracciarsi per attirare l’attenzione – Forse… forse l’hanno ammazzata…”
Jasmine giaceva per terra in una pozza di sangue ai piedi della Fontana del Fico, con nel petto conficcato un breve stiletto.
La prima ad accorrere era stata Zaira e Rashid la raggiunse di corsa; si chinò su di lei con un grido disperato:
“No! No!… No!”
Una piccola folla faceva corona ai due; c’era anche Harith.
“Sono qui! – proferì lo sceicco – Quelle iene hanno avuto l’ardire di entrare nella tana del leone!”
“No!… No! No “ cotinuava a ripetere il rais.
”Li prenderemo, amico mio! Lotta senza quartiere ai Figli della Dea-Vivente… fino a che non ne resterà nemmeno uno in vita… Li prenderemo, Rashid… Li prenderemo e questa volta li stermineremo senza pietà!”
“No! No!” continuava a gemere Rashid inginocchiato accanto a Jasmine, la tunica, le mani, la faccia insozzate del sangue di lei; le labbra che sfioravano quelle di lei.
Le sentì fremere, d’un tratto, muoversi, sotto le sue e poi bisbigliare piano. A fatica.
“Se lima… è sta..ta Se lima… Se lima.. corsetto… cor…setto… ombra insa…nguinata… tenda… via… Rashid… Rashid… Ra…shid…”
Rashid sollevò il capo verso Selima, in piedi al suo fianco; nei suoi occhi tutto il furore e lo sconvolgimento della rivelazione; ma Selima si difese:
“Perché accusa me?… Non sono stata io… Io ero con te, Rashid. – pallida come un cencio, in piedi accanto a lui - Non sono stata io… Sta vaneggiando. La povera Jasmine sta vaneggiando. Vaneggia… - andava ripetendo la Favorita – Vaneggia…”
“Ombra.. corsetto insa..nguinato… cuscino…Rashid… Ra…shid…” continuava il delirio della povera Jasmine.
“Sì! – ammise con profondo dolore il giovane – Vaneggia.”
“Io ero con te, Rashid…”
“Sì, Selima… stai serena. Nessuno ti accusa. Eri con me…”
Rashid rassicurò la sua Favorita, poi si chinò a raccogliere sulle braccia il corpo senza sensi di Jasmine e la condusse nella sua tenda e l’adagiò sul grande letto e intorno a lei si avvicendarono le donne più anziane della tribù.
Anche lei si allontanò. Avanzò verso la distesa oltre la Fontana del Fico, che le ombre della notte avevano in parte risparmiato, lasciando alle fiamme del bivacco più vicino il compito di lasciare illuminata solo una piccola parte.
Jasmine guardò i palmizi alle sue spalle, anche questi contesi dalle tenebre, le cui foglie lasciate alla luce, brillavano sotto la spinta del vento; guardò le stelle ed assaporò i profumi della notte e i suoni sommessi, lontani dal clangore della festa a cui aveva voltato le spalle.
Si fermò. Respirò a pieni polmoni l'aria fresca della notte, avvolgendosi dentro il mantello e fissando davanti a sé lo scenario illuminato dalla luna; il verso querulo e vicino di un uccello notturno.
Si girò. Tornò a guardare in direzione dei bivacchi, delle fiaccole appese alle tende, della folla festante, dei giovani con le carabine in mano, delle ragazze con i bricchi, di Rashid...
Rashid e Selima!... Parlavano amabilmente e lui le stava sfiorando la guancia protesa... Rashid reggeva ancora le briglie del suo cavallo con cui aveva gareggiato assieme agli altri cavalieri e Selima...
Staccò gli occhi stupiti e furenti dai due e portò altrove lo sguardo.
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Rashid sorrideva, indulgente ma con sguardo indifferente: Selima era protesa verso di lui, il corpo inarcato e pronta ad offriglisi.
"Sai dove si trova Jasmine?" domandò, mentre affidava ad un ragazzo le redini del cavallo.
Selima sollevò verso di lui il capo con uno scatto rabbioso e negli occhi eccitati, l'ingordigia carnale andò immediatamente frantumando. Contrariata e offesa, in preda ad una dolorosa eccitazione, era troppo intelligente per illudersi:
"Vuoi andare da lei?" domandò a sua volta, nell'inutile tentativo di trattenerlo ancora per qualche istante, di impadronirsi di lui ancora per qualche respiro, nello spasmo di baci e carezze di cui non era mai sazia, di concupiscenza, di spasmi amorosi. La certezza della fine di un sentimento per lei ingordo come la fame l'atterriva.
Lo sapeva da tempo che la fine era vicina; da tempo lui la possedeva, sempre insoddisfatto e mai pago, per poi mandarla via con un sorriso estraneo o una carezza distratta.
"Sai dov'é Jasmine?"
Rashid ripeté la domanda.
"L'ho lasciata con la sposa..." fu la risposta contrariata e velenosa di Selima, ma Rashid non le consentì nemmeno di terminare la frase e si allontano a lunghi passi.
Nello spiazzo davanti alla casa di Alina, Rashid non trovò la sposa, né trovò Jasmine, ma accettò la tazza di fumante the aromatizzato che portò alle labbra proprio mentre un disperato grido d’aiuto echeggiava nell'aria:
“La principessa Jasmine… hanno ferito la principessa Jasmine - il ragazzo che aveva gridato continuava a sbracciarsi per attirare l’attenzione – Forse… forse l’hanno ammazzata…”
Jasmine giaceva per terra in una pozza di sangue ai piedi della Fontana del Fico, con nel petto conficcato un breve stiletto.
La prima ad accorrere era stata Zaira e Rashid la raggiunse di corsa; si chinò su di lei con un grido disperato:
“No! No!… No!”
Una piccola folla faceva corona ai due; c’era anche Harith.
“Sono qui! – proferì lo sceicco – Quelle iene hanno avuto l’ardire di entrare nella tana del leone!”
“No!… No! No “ cotinuava a ripetere il rais.
”Li prenderemo, amico mio! Lotta senza quartiere ai Figli della Dea-Vivente… fino a che non ne resterà nemmeno uno in vita… Li prenderemo, Rashid… Li prenderemo e questa volta li stermineremo senza pietà!”
“No! No!” continuava a gemere Rashid inginocchiato accanto a Jasmine, la tunica, le mani, la faccia insozzate del sangue di lei; le labbra che sfioravano quelle di lei.
Le sentì fremere, d’un tratto, muoversi, sotto le sue e poi bisbigliare piano. A fatica.
“Se lima… è sta..ta Se lima… Se lima.. corsetto… cor…setto… ombra insa…nguinata… tenda… via… Rashid… Rashid… Ra…shid…”
Rashid sollevò il capo verso Selima, in piedi al suo fianco; nei suoi occhi tutto il furore e lo sconvolgimento della rivelazione; ma Selima si difese:
“Perché accusa me?… Non sono stata io… Io ero con te, Rashid. – pallida come un cencio, in piedi accanto a lui - Non sono stata io… Sta vaneggiando. La povera Jasmine sta vaneggiando. Vaneggia… - andava ripetendo la Favorita – Vaneggia…”
“Ombra.. corsetto insa..nguinato… cuscino…Rashid… Ra…shid…” continuava il delirio della povera Jasmine.
“Sì! – ammise con profondo dolore il giovane – Vaneggia.”
“Io ero con te, Rashid…”
“Sì, Selima… stai serena. Nessuno ti accusa. Eri con me…”
Rashid rassicurò la sua Favorita, poi si chinò a raccogliere sulle braccia il corpo senza sensi di Jasmine e la condusse nella sua tenda e l’adagiò sul grande letto e intorno a lei si avvicendarono le donne più anziane della tribù.
Capitolo VIII - Gelosie
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"Ahlan wa sa ahlan" - La mia casa è la tua casa. (proverbio beduino)
Alina, la madre di Ibrahim, era la più autorevole tra le donne della tribù per la numerosa figliolanza: madre di ben quattordici maschi a cui, come ogni donna araba, era legata da vincoli quasi servili, ma a causa di cui, però, godeva di grande prestigio in seno alla comunità.
Arrivò con un bricco di terracotta contenente un intruglio di erbe e in compagnia di Selima che reggeva in mano la cassetta dei medicinali .
Per prima cosa, la donna spogliò Jasmine degli indumenti e ripulì accuratamente la ferita, dopo averla bene esaminata: la ferita, alla spalla sinistra, non era molto profonda, ma piuttosto irregolare.
“Chi ha fatto questo scempio – disse – doveva essere davvero arrabbiato.”
Terminata la medicazione, Alina bendò accuratamente la spalla, poi fece bere all’inferma l’intruglio contenuto nella ciotola e la principessa piombò subito in un sonno profondo. Dopo fece mettere veli alle aperture per ombreggiare l’ambiente ed invitò tutti, con l’autorità che le veniva dall’età, a lasciare la stanza.
Le ubbidirono tutti, lo stesso Rashid, che uscì senza una parola, dopo un’ultima, amorevole occhiata alla sua Jasmine; a sorvegliare la principessa rimasero soltanto Zaira, Letizia e la stessa Alina.
Rashid, però, non riuscì a stare a lungo lontano dall’amatissima Jasmine e meno di mezz’ora dopo, era nuovamente al suo capezzale.
“Come sta?” domandò avvicinandosi al letto, immenso, in cui Jasmine pareva come sperduta ed in cui si trovava sdraiata per la prima volta.
“E’ una brutta ferita. Ha perso molto sangue.” rispose Letizia.
“Chi le ha procurato questa ferita – le fece eco Zaira – sa maneggiare bene il pugnale.”
“Chiunque sia, del suo sangue non resterà una sola goccia, quando lo avrò fra le mani… e giuro che questo avverrà molto presto.” ruggì Rashid, sedendo al capezzale dell’inferma e prendendole una mano fra le sue.
“Tu credi che l’aggressore si trovi ancora qui?” domandò Letizia.
Rashid fece l’atto di rispondere alla domanda, ma Zaira lo prevenne:
“Conosco bene Hakam e la sua gente. – disse – Non lasciano mai opera incompiuta. Ci proveranno ancora.”
“Credete… credete che siano state quelle belve sanguinarie?” domandò Letizia in tono sempre più apprensivo.
“Chi altri vorrebbe il male di una persona come la principessa Jasmine? - sorrise Zaira – Lei… lei è la loro Dea-Vivente… Quei pazzi sanguinari non desisteranno fino a quando non l’avranno nelle loro mani.”
“Questo non accadrà mai!” tornò a ruggire Rashid.
“Hhhhh! – la vecchia Alina, accoccolata su un cuscino ai piedi del letto, ebbe un sospiro - Il mio sedativo farà dormire la principessa Jasmine, ma non può farla guarire.”
Come in risposta al rincrescimento della donna, la principessa Jasmine cominciò a lamentarsi; Zaira si precipitò al capezzale.
Anche la vecchia lasciò il cuscino e si avvicinò, fece cenno a Rashid di scostarsi e sollevò il velo che ricopriva la ragazza.
Jasmine aprì gli occhi; erano ancora appannati e assenti.
“Senti dolore, principessa?” domandò Alina.
Jasmine richiuse gli occhi e li riaprì ancora, con l’evidente sforzo di chi fatica a riacquistare e riannodare fili pendenti di emozioni e sensazioni; rispose, infine, ma solo con un cenno affermativo del capo e tanto bastò per mettere in apprensione tutti quanti.
“Devo guardare la ferita. – disse Alina – Quei lembi irregolari non mi piacevano neanche un po’.”
Un cenno e Zaira si avvicinò con un catino d’acqua, spugna, garza e bende.
Un’occhiata bastò alla vecchia Alina ed allo stesso Rashid per capire che la ferita s’era infettata; il giovane trattenne un grido di rabbia e contrarietà.
“Presto. – sollecitò la vecchia Alina – Portate nuovamente qui la cassetta dei medicinali.”
Alina, la madre di Ibrahim, era la più autorevole tra le donne della tribù per la numerosa figliolanza: madre di ben quattordici maschi a cui, come ogni donna araba, era legata da vincoli quasi servili, ma a causa di cui, però, godeva di grande prestigio in seno alla comunità.
Arrivò con un bricco di terracotta contenente un intruglio di erbe e in compagnia di Selima che reggeva in mano la cassetta dei medicinali .
Per prima cosa, la donna spogliò Jasmine degli indumenti e ripulì accuratamente la ferita, dopo averla bene esaminata: la ferita, alla spalla sinistra, non era molto profonda, ma piuttosto irregolare.
“Chi ha fatto questo scempio – disse – doveva essere davvero arrabbiato.”
Terminata la medicazione, Alina bendò accuratamente la spalla, poi fece bere all’inferma l’intruglio contenuto nella ciotola e la principessa piombò subito in un sonno profondo. Dopo fece mettere veli alle aperture per ombreggiare l’ambiente ed invitò tutti, con l’autorità che le veniva dall’età, a lasciare la stanza.
Le ubbidirono tutti, lo stesso Rashid, che uscì senza una parola, dopo un’ultima, amorevole occhiata alla sua Jasmine; a sorvegliare la principessa rimasero soltanto Zaira, Letizia e la stessa Alina.
Rashid, però, non riuscì a stare a lungo lontano dall’amatissima Jasmine e meno di mezz’ora dopo, era nuovamente al suo capezzale.
“Come sta?” domandò avvicinandosi al letto, immenso, in cui Jasmine pareva come sperduta ed in cui si trovava sdraiata per la prima volta.
“E’ una brutta ferita. Ha perso molto sangue.” rispose Letizia.
“Chi le ha procurato questa ferita – le fece eco Zaira – sa maneggiare bene il pugnale.”
“Chiunque sia, del suo sangue non resterà una sola goccia, quando lo avrò fra le mani… e giuro che questo avverrà molto presto.” ruggì Rashid, sedendo al capezzale dell’inferma e prendendole una mano fra le sue.
“Tu credi che l’aggressore si trovi ancora qui?” domandò Letizia.
Rashid fece l’atto di rispondere alla domanda, ma Zaira lo prevenne:
“Conosco bene Hakam e la sua gente. – disse – Non lasciano mai opera incompiuta. Ci proveranno ancora.”
“Credete… credete che siano state quelle belve sanguinarie?” domandò Letizia in tono sempre più apprensivo.
“Chi altri vorrebbe il male di una persona come la principessa Jasmine? - sorrise Zaira – Lei… lei è la loro Dea-Vivente… Quei pazzi sanguinari non desisteranno fino a quando non l’avranno nelle loro mani.”
“Questo non accadrà mai!” tornò a ruggire Rashid.
“Hhhhh! – la vecchia Alina, accoccolata su un cuscino ai piedi del letto, ebbe un sospiro - Il mio sedativo farà dormire la principessa Jasmine, ma non può farla guarire.”
Come in risposta al rincrescimento della donna, la principessa Jasmine cominciò a lamentarsi; Zaira si precipitò al capezzale.
Anche la vecchia lasciò il cuscino e si avvicinò, fece cenno a Rashid di scostarsi e sollevò il velo che ricopriva la ragazza.
Jasmine aprì gli occhi; erano ancora appannati e assenti.
“Senti dolore, principessa?” domandò Alina.
Jasmine richiuse gli occhi e li riaprì ancora, con l’evidente sforzo di chi fatica a riacquistare e riannodare fili pendenti di emozioni e sensazioni; rispose, infine, ma solo con un cenno affermativo del capo e tanto bastò per mettere in apprensione tutti quanti.
“Devo guardare la ferita. – disse Alina – Quei lembi irregolari non mi piacevano neanche un po’.”
Un cenno e Zaira si avvicinò con un catino d’acqua, spugna, garza e bende.
Un’occhiata bastò alla vecchia Alina ed allo stesso Rashid per capire che la ferita s’era infettata; il giovane trattenne un grido di rabbia e contrarietà.
“Presto. – sollecitò la vecchia Alina – Portate nuovamente qui la cassetta dei medicinali.”
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Letizia si allontanò verso l’interno della grande tenda, nella zona delle donne, dove Selima aveva riportato indietro la cassetta dei medicinali.
La cassetta era sparita.
Selima giurava di averla riposta là dove stava sempre, ma adesso non ve n’era traccia.
“Forse basterà il mio unguento a sanare la ferita della principessa.” interloquì Zaira alle loro spalle; in mano la ragazza recava un’ampolla dal color amaranto.
“E’ un unguento che ho portato con me dal Tempio. – disse e tutti tirarono un sospiro di sollievo che, però, si mutò in disappunto quando la ragazza l’aprì e fece seguire un esclamazione soffocata - Misericordia degli Dei!… l’ampolla è vuota. – la ragazza tese il contenitore aperto e vuoto – Guarda. … Guardate il suo prezioso contenuto… ahimè!… l’arsura l’ha evaporato.”
“Maledizione!” proruppe il grande predone.
“No! No! Non temere, Rashid. – lo rassicurò con un sorriso Letizia – Zaira conosce il segreto di questo unguento. Se partirete subito alla ricerca delle erbe necessarie per…”
La voce sconfortata di Zaira, però, smorzò immediatamente gli entusiasmi:
“No! – disse, facendosi avanti – Il catha edulis e l’acacia senna ed anche la dendron myria – spiegò con accento mortificato – crescono tra i monti Akhadar, assai lontano da qui: andare alla loro ricerca, tornare e farne fermentare le radici richiede molto tempo e… ed è proprio quello che manca a Jasmine… il tempo!” aggiunse, girandosi verso l’inferma, pallidissima, il bel volto madido di sudore gelido, sprofondato nel grande cuscino.
“Brucia! – proruppe Rashid – La sua fronte brucia di febbre…”
“Non… non preoccuparti… troppo, Rashid… - Jasmine respirava con affanno; cercò un sorriso con cui rassicurarlo e rassicurare gli altri – C’è … c’è ancora un .. rimedio…” suggerì, sempre con quel sorriso, sofferente ma rassicurante, capace di raggiungere i meandri più profondi dello spirito inquieto del grande predone.
“Quale rimedio, mio bene infinito?” domandò lui, con un nodo in gola, accarezzandola con le mani e con lo sguardo: il sorriso di lei aveva conservato tutta la dolcezza, ma lo sguardo era appannato ed adombrato, come lucernai ancora appesi alle porte di ruderi e rovine.
“Non… non resta che… cauterizzarla… cauterizzare la ferita.” suggerì lei.
“No! No! – inorridì Rashid; il pensiero tremendo di torturare la carne di lei così morbida e delicata, di deturparne la bellezza leggendaria – No!” fece cupo; Selima, alle sue spalle, era una sfinge.
“Non ancora!” la voce del piccolo Akim, proveniente dalla sala riservata agli ospiti, fece convergere gli sguardi da quella parte.
“Jasmine ha ragione! – riudirono la sua voce quasi priva di emozioni – Non resterà che cauterizzare la ferita se… - una brevissima pausa riempita dal silenzio più profondo e dal respiro altrettanto profondo del ragazzo che s’era fatto avanti - … se il mio tentativo dovesse fallire.” aggiunse nel tono più misterioso ed enigmatico che gli era familiare ed interrompendo in sul nascere la replica di Rashid che, tuttavia, domandò:
“Quale tentativo?”
Il ragazzo non rispose; scosse il capo dal grosso, coloratissimo turbante e tese la piccola mano bruna verso il contenitore che Zaira reggeva con entrambe le mani e con espressione sconfortata.
Akim lo prese e sedette per terra a gambe incrociate, poi, con gesto imperioso, comandò il silenzio.
Profondo come la profondità stessa del deserto il silenzio cadde intorno a lui e anche fuori della tenda, dove fu proibito qualunque rumore, cosicché il “mago” potesse concentrare tutte le forze sull’ampolla e il suo contenuto: era ormai chiaro a tutti qual era il tentativo cui si riferiva il formidabile fanciullo.
Evitando perfino di respirare, si immobilizzarono tutti come statue; solo gli sguardi scorrevano dall’ampolla al ragazzo, in attesa del miracolo.
Un tremito leggero cominciò ad attraversare le mani del piccolo Akim, perle di sudore vennero ad imperlargli la fronte; il sembiante tutto sbiancò, divenendo esangue e cereo.
Un’eternità!
Chi poteva misurare il tempo che passava?
Un violento scatto scosse d’un tratto il corpo del ragazzo, una specie di convulsione, poi Akim si lasciò cadere su un fianco, con la piccola mano tesa verso l’alto.
Fu Rashid a lanciarsi in avanti per primo per raccoglierla e evitare che la spossatezza del ragazzo la facesse cadere, poi accorsero tutti gli altri e fu Zairaa ad occuparsi di lui: gli deterse il sudore e gli dette qualcosa per fargli riacquistare le forze perdute.
Jasmine reagì al farmaco in modo sorprendente e quando, tre o quattro ore dopo, riapriva gli occhi, la febbre era completamente calata e le forze in parte riacquistate.
Seduto al suo capezzale, Rashid le accarezzava dolcemente la fronte e la massa setosa dei capelli ancora bagnati di sudore.
Li lasciarono da soli.
Lui la chiamò, con i nomi più dolci e teneri e la sua bocca cercò la dolcissima curva, tra la nuca e il collo, che tanto lo inebriava. Il suo sguardo si tuffò in quello di lei che luccicava, verde e dorato, all’avvampare della luce del sole che penetrava dall’apertura della tenda; verde e limpido… troppo limpido per pensare ad un vaneggiamento, quando lei tornò ad accusare:
“Dov’è Selima? – domandò, tentando di sollevarsi su un braccio, ma ricadendo all’indietro – Voglio chiederle di persona perché mi ha conficcato quel pugnale nella spalla.”
“Selima?” fece lui di rimando, mostrando una faccia sinceramente stupita.
“L’ho già detto. E’ stata Selima ad aggredirmi davanti alla Fontana del Fico.” insistette lei.
“Non è possibile, tesoro mio. – le sorrise lui accarezzandole la guancia come si fa con una bambina spaventata – Selima era con me quando sei stata aggredita.”
“No!”
“Invece sì, mio tesoro! – continuava a sorriderle e ad accarezzarla lui – S’ era appena allontanata da me quando le grida di Abdul hanno spinto i miei passi verso la Fontana del Fico e..”
“Il corsetto!… il corsetto di Selima è sporco del mio sangue.” lo interruppe nuovamente lei, quasi con veemenza.
“Non ho visto nessun corsetto sporco di sangue addosso a Selima.” insistette Rashid e Jasmine, facendo convergere su di lui uno sguardo in cui parevano essersi concentrati tutta l’amarezza e lo sconforto di questo mondo:
“Non mi credi?” disse.
“Oh!… Luce degli Occhi Miei! – proruppe il grande predone con voce più dolce e carezzevole che mai - Tu hai subito una grave aggressione, amor mio, ed hai la mente ancora offuscata… Quando starai meglio, ogni cosa apparirà nella sua vera luce, tesoro mio…”
“Vedo già le cose nella loro luce, Rashid e so già da dove arriva il pericolo.”
“Non temere, mio bene. – cercò di rassicurarla lui - Io non permetterò più a nessuno di farti del male, Jasmine. …Non farai un sol passo senza essere sorvegliata e..”
“Credi davvero, Rashid, che io abbia bisogno di essere sorvegliata? - insorse lei con lieve sarcasmo – Mi credi davvero una tenera colomba da proteggere da falchi ed avvoltoi?… Io so difendermi da sola, Rashid… - incalzò quasi con durezza - Non mi occorre protezione… e non ne voglio… Oh! – fece un lungo respiro, poi girò il capo dall’altra parte – Sono stanca. – disse – Sono molto stanca… Vorrei riposare, Rashid e… restare da sola.”
Rashid assentì col capo e a malincuore si allontanò, con la sensazione che deve provare l’assetato che sente l’acqua sfuggirgli di tra le dita senza potersi dissetare.
La cassetta era sparita.
Selima giurava di averla riposta là dove stava sempre, ma adesso non ve n’era traccia.
“Forse basterà il mio unguento a sanare la ferita della principessa.” interloquì Zaira alle loro spalle; in mano la ragazza recava un’ampolla dal color amaranto.
“E’ un unguento che ho portato con me dal Tempio. – disse e tutti tirarono un sospiro di sollievo che, però, si mutò in disappunto quando la ragazza l’aprì e fece seguire un esclamazione soffocata - Misericordia degli Dei!… l’ampolla è vuota. – la ragazza tese il contenitore aperto e vuoto – Guarda. … Guardate il suo prezioso contenuto… ahimè!… l’arsura l’ha evaporato.”
“Maledizione!” proruppe il grande predone.
“No! No! Non temere, Rashid. – lo rassicurò con un sorriso Letizia – Zaira conosce il segreto di questo unguento. Se partirete subito alla ricerca delle erbe necessarie per…”
La voce sconfortata di Zaira, però, smorzò immediatamente gli entusiasmi:
“No! – disse, facendosi avanti – Il catha edulis e l’acacia senna ed anche la dendron myria – spiegò con accento mortificato – crescono tra i monti Akhadar, assai lontano da qui: andare alla loro ricerca, tornare e farne fermentare le radici richiede molto tempo e… ed è proprio quello che manca a Jasmine… il tempo!” aggiunse, girandosi verso l’inferma, pallidissima, il bel volto madido di sudore gelido, sprofondato nel grande cuscino.
“Brucia! – proruppe Rashid – La sua fronte brucia di febbre…”
“Non… non preoccuparti… troppo, Rashid… - Jasmine respirava con affanno; cercò un sorriso con cui rassicurarlo e rassicurare gli altri – C’è … c’è ancora un .. rimedio…” suggerì, sempre con quel sorriso, sofferente ma rassicurante, capace di raggiungere i meandri più profondi dello spirito inquieto del grande predone.
“Quale rimedio, mio bene infinito?” domandò lui, con un nodo in gola, accarezzandola con le mani e con lo sguardo: il sorriso di lei aveva conservato tutta la dolcezza, ma lo sguardo era appannato ed adombrato, come lucernai ancora appesi alle porte di ruderi e rovine.
“Non… non resta che… cauterizzarla… cauterizzare la ferita.” suggerì lei.
“No! No! – inorridì Rashid; il pensiero tremendo di torturare la carne di lei così morbida e delicata, di deturparne la bellezza leggendaria – No!” fece cupo; Selima, alle sue spalle, era una sfinge.
“Non ancora!” la voce del piccolo Akim, proveniente dalla sala riservata agli ospiti, fece convergere gli sguardi da quella parte.
“Jasmine ha ragione! – riudirono la sua voce quasi priva di emozioni – Non resterà che cauterizzare la ferita se… - una brevissima pausa riempita dal silenzio più profondo e dal respiro altrettanto profondo del ragazzo che s’era fatto avanti - … se il mio tentativo dovesse fallire.” aggiunse nel tono più misterioso ed enigmatico che gli era familiare ed interrompendo in sul nascere la replica di Rashid che, tuttavia, domandò:
“Quale tentativo?”
Il ragazzo non rispose; scosse il capo dal grosso, coloratissimo turbante e tese la piccola mano bruna verso il contenitore che Zaira reggeva con entrambe le mani e con espressione sconfortata.
Akim lo prese e sedette per terra a gambe incrociate, poi, con gesto imperioso, comandò il silenzio.
Profondo come la profondità stessa del deserto il silenzio cadde intorno a lui e anche fuori della tenda, dove fu proibito qualunque rumore, cosicché il “mago” potesse concentrare tutte le forze sull’ampolla e il suo contenuto: era ormai chiaro a tutti qual era il tentativo cui si riferiva il formidabile fanciullo.
Evitando perfino di respirare, si immobilizzarono tutti come statue; solo gli sguardi scorrevano dall’ampolla al ragazzo, in attesa del miracolo.
Un tremito leggero cominciò ad attraversare le mani del piccolo Akim, perle di sudore vennero ad imperlargli la fronte; il sembiante tutto sbiancò, divenendo esangue e cereo.
Un’eternità!
Chi poteva misurare il tempo che passava?
Un violento scatto scosse d’un tratto il corpo del ragazzo, una specie di convulsione, poi Akim si lasciò cadere su un fianco, con la piccola mano tesa verso l’alto.
Fu Rashid a lanciarsi in avanti per primo per raccoglierla e evitare che la spossatezza del ragazzo la facesse cadere, poi accorsero tutti gli altri e fu Zairaa ad occuparsi di lui: gli deterse il sudore e gli dette qualcosa per fargli riacquistare le forze perdute.
Jasmine reagì al farmaco in modo sorprendente e quando, tre o quattro ore dopo, riapriva gli occhi, la febbre era completamente calata e le forze in parte riacquistate.
Seduto al suo capezzale, Rashid le accarezzava dolcemente la fronte e la massa setosa dei capelli ancora bagnati di sudore.
Li lasciarono da soli.
Lui la chiamò, con i nomi più dolci e teneri e la sua bocca cercò la dolcissima curva, tra la nuca e il collo, che tanto lo inebriava. Il suo sguardo si tuffò in quello di lei che luccicava, verde e dorato, all’avvampare della luce del sole che penetrava dall’apertura della tenda; verde e limpido… troppo limpido per pensare ad un vaneggiamento, quando lei tornò ad accusare:
“Dov’è Selima? – domandò, tentando di sollevarsi su un braccio, ma ricadendo all’indietro – Voglio chiederle di persona perché mi ha conficcato quel pugnale nella spalla.”
“Selima?” fece lui di rimando, mostrando una faccia sinceramente stupita.
“L’ho già detto. E’ stata Selima ad aggredirmi davanti alla Fontana del Fico.” insistette lei.
“Non è possibile, tesoro mio. – le sorrise lui accarezzandole la guancia come si fa con una bambina spaventata – Selima era con me quando sei stata aggredita.”
“No!”
“Invece sì, mio tesoro! – continuava a sorriderle e ad accarezzarla lui – S’ era appena allontanata da me quando le grida di Abdul hanno spinto i miei passi verso la Fontana del Fico e..”
“Il corsetto!… il corsetto di Selima è sporco del mio sangue.” lo interruppe nuovamente lei, quasi con veemenza.
“Non ho visto nessun corsetto sporco di sangue addosso a Selima.” insistette Rashid e Jasmine, facendo convergere su di lui uno sguardo in cui parevano essersi concentrati tutta l’amarezza e lo sconforto di questo mondo:
“Non mi credi?” disse.
“Oh!… Luce degli Occhi Miei! – proruppe il grande predone con voce più dolce e carezzevole che mai - Tu hai subito una grave aggressione, amor mio, ed hai la mente ancora offuscata… Quando starai meglio, ogni cosa apparirà nella sua vera luce, tesoro mio…”
“Vedo già le cose nella loro luce, Rashid e so già da dove arriva il pericolo.”
“Non temere, mio bene. – cercò di rassicurarla lui - Io non permetterò più a nessuno di farti del male, Jasmine. …Non farai un sol passo senza essere sorvegliata e..”
“Credi davvero, Rashid, che io abbia bisogno di essere sorvegliata? - insorse lei con lieve sarcasmo – Mi credi davvero una tenera colomba da proteggere da falchi ed avvoltoi?… Io so difendermi da sola, Rashid… - incalzò quasi con durezza - Non mi occorre protezione… e non ne voglio… Oh! – fece un lungo respiro, poi girò il capo dall’altra parte – Sono stanca. – disse – Sono molto stanca… Vorrei riposare, Rashid e… restare da sola.”
Rashid assentì col capo e a malincuore si allontanò, con la sensazione che deve provare l’assetato che sente l’acqua sfuggirgli di tra le dita senza potersi dissetare.
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La principessa Jasmine si ristabilì presto; tre giorni dopo si sentiva già abbastanza in forze. Seduta sulla sponda del letto, si teneva le ginocchia con le dita delle mani intrecciate; la spalla le doleva ancora.
Si girò, due o tre volte, per guardarsi intorno: il letto di Rashid. Grande, largo, basso. L'aveva accolta tra le coltri calde, tranquille e sicure per ben tre giorni e tre notti.
Il letto di Rashid. Immenso e soffice, dove lui consumava le sue notti d'amore e di passione con altre donne, avvolto in quella stessa grande coperta di broccato amaranto.
Chiuse gli occhi e quasi di sorpresa l'assalì il pianto, quel bisogno antico sollecitato dal dolore, quel privilegio quasi del tutto femminile che doleva come una ferita fisica. Poteva "vederlo", il suo Rashid, disteso accanto "all'altra", avvinghiato in spasmi di passione, in una fusione di respiri ansanti, soffocati dall'intensità del piacere.... all'altra... a Selima... A Selima, a cui lui prestava fede più che a lei... d'un tratto la sua voce, come evocata dai suoi pensieri:
"Jasmine, amore mio. Sono felice di vederti seduta e non distesa nel letto. Letizia, qui fuori, mi ha detto che stavi riposando."
Jasmine trasalì; era di spalle e non lo aveva visto né sentito entrare. Non si voltò, ma lasciò scivolare in avanti le gambe.
Non indossava più la veste da notte, ma un'ampia tunica color sabbia ricamata in oro che le lasciava scoperte solamente le braccia. Era stata la piccola Agar, la figlia minore di Alina, ad aiutarla a vestirsi. Agar in quei due giorni non l'aveva lasciata mai sola un istante per farsi raccontare favole d'amore; la sua voce, adesso, proveniva da fuori squillante ed allegra.
Rashid avanzò a passi lenti; raggiunse l'immenso letto e lo aggirò. Immobile, Jasmine si calò sul bellissimo volto il velo di seta blu e nascose il rossore di quei pensieri.
Rashid l'aveva raggiunta.
"Non farlo." le sorrise.
Quante volte aveva ripetuto quella frase.
"Non farlo." ripeté, prendendo tra le sue entrambe le mani di lei che stringevano i lembi del velo, ma questa volta lei si liberò della stretta e si sistemò il velo sul capo.
"E' sconveniente che io mostri il volto ad occhi maschili. - disse, sottraendogli la visione del bel volto in fiamme e concedendogli solo l'emozione dei suoi occhi verdi - Come è sconveniente che io continui a dormire nel tuo letto, Rashid. - lui fece l'atto di replicare, ma lei lo prevenne - Sei stato molto generoso, Rashid, ad ospitarmi qui, ma è ora che io torni sotto la mia tenda - ." aggiunse in tono che non ammetteva repliche.
E Rashid non ne fece. Non subito, ma tese un piccolo cesto di datteri.
"E' un regalo di pace da parte di Selima. - disse con un sorriso conciliante - Dice di essere mortificata per tutta questa situazione e che vuole chiarirsi con te." aggiunse sedendo sul letto accanto a lei.
"Sei stato da lei? - domandò Jasmine con voce incolore ed a testa bassa, mentre un lampo le attraversava lo sguardo, poi, mutando di tono - Lo voglio anch'io! - mentì - Rassicurala... Rassicura Selima... quel giorno vaneggiavo.... L'hai detto anche tu che vaneggiavo..."
Mentiva, con quell'accento persuasivo, soavemente ingannevole, dolcemente remissivo. Aveva imparato a mentire in quei tre giorni trascorsi nella languidezza abusiva di quel letto su cui adesso erano seduti entrambi, ma che custodiva tracce di altri corpi femminili... di Selima.
Aveva imparato a mentire per nascondersi e non mostrarsi ferita agli occhi di lui. Aveva imparato a mentire perché tutte le sue difese erano concentrate nell'istinto che l'aveva sempre protetta e l'istinto ora le suggeriva di mentire, mentre inquietudine e gelosia le contraevano la carne e arrivavano ovunque, passando attraverso lo sguardo.
Aveva imparato a mentire e Rashid ne era dolorosamente consapevole. Il suo sguardo, però, non mentiva, né mentiva il sorriso, triste e privo di quegli angoli ai lati degli occhi.
Ed erano solo quelli, di tutta la persona, che lei gli concesse di guardare: perfino la bocca, colorata come un fiore di melograno e anche il naso che si levava elegante e curvo, lei gli aveva sottratto alla vista.
Lei fingeva di credergli, fingeva di adattarsi alle sue congetture e lui ne era consapevole, mortificato e addolorato: lei lo faceva con dolcezza soave, ma con dolorosa certezza e lui si sentiva colpevole, ma non sapeva spiegarsi di quale colpa. Colpevole e basta! Si alzò; posò un ginocchio a terra davanti a lei e con gesti delicati e pieni d'amore le prese tra le mani il volto velato, sfiorandone i contorni con trepida dolcezza.
"Jasmine, mia adorata, vuoi diventare la mia sposa?" proruppe, mentre le dita scivolavano con dolce lentezza sulle sopracciglia frementi, le ciglia abbassate e le labbra tremanti; il velo era bagnato di lacrime.
Un fremito, però, gli contrasse la carne: Jasmine scuoteva il capo in segno di diniego.
"Jasmine, mio tesoro..."
Rashid era sinceramente stupito; si aspettava fremiti, aneliti, slanci di gioia e invece lei lo respingeva.
"Se me lo avessi chiesto prima... - la udì sussurrare - Non oggi... Non oggi, Rashid!"
"Ma perché? Perché, Jasmine, mia adorata?"
"Troppe ombre tra noi, Rashid."
"Ma io ti amo, Jasmine, Luce degli Occhi miei! Io non ho altro desiderio che svegliarmi al mattino con te tra le braccia."
"No! - lei continuava a scuotere il capo - Non oggi, amore mio. Non oggi, sull'onda di tante emozioni... Non s ulla spinta di tante emozioni."
"Tu.. tu credi, amore mio, che la mia richiesta sia dettata dall'emotività di questi eventi?... Oh, Jasmine..." proruppe il grande predone, affondando il capo nel grembo caldo e soffice di lei e circondandole la vita con le braccia.
"Chiedimelo ancora, Rashid, se mi ami... Ma non oggi. Non oggi." gli sussurrò lei, chinando il capo fino a sfiorare quello di lui e ponendovi le labbra, poi gli scompigliò i capelli neri, folti e ricci, così come si fa con un bambino che vuol essere consolato dalla sua piccola grande pena; glieli accarezzò a lungo, con movimenti dolcissimi e lenti e di infinita tenerezza.
Il rais sollevò il capo; afferrò entrambe le mani di lei e se le portò alle labbra tremando: lui, l'uomo davanti a cui, eccetto la Natura, tutti chinavano il capo.
"Se è la presenza di Selima a impedirti di essere felice, amore mio, io la rimando oggi stesso alla sua gente. E allontanerò da questa casa ogni altra donna che risultasse non gradita alla mia principessa." disse alzandosi e tornando a sederle accanto.
Con gesti di infinita tenerezza le tolse il velo, che posò alle loro spalle e le sciolse i capelli che Jasmine aveva legato sulla sommità del capo; lei lo lasciò fare e si lasciò attirare nell'incavo delle sue braccia forti e protettive.
"Non è questo che voglio.... ma, se Allah... - disse, infine, sollevando su di lui gli occhi verdi in cui un'ombra navigava veloce - ... se Allah ti concede l'amore di altre donne, io vorrei che non ci fossero ombre..."
"Oh, Jasmine! Nessuna donna all'infuori di te!" la interruppe lui con enfasi attirandola a sé con quella dolce violenza con cui lei lo immaginava impegnato con altre donne e la baciò con dolce passione. Un bacio tenero e indugiante. Sensuale. Che suscitò furiosa eccitazione e spasmi impetuosi in lui ed inconfessati desideri in lei.
"Letizia ha ragione, dunque!" sussurrò come trasognata, Jasmine, bruciata da quel liquido fuoco vivo che le scorreva nelle vene e dentro le ossa, alimentato dalle mani di lui che la cercavano e la percorrevano.
"Che cosa dice Letizia?" mormorò Rashid, quasi distrattamente e con le labbra chiuse intorno all'orecchio di lei che spuntava come una rosea conchiglia tra i capelli.
"Che un uomo innamorato sa trovare nella donna che ama, tutte le qualità che Allah ha distribuito in tutte le altre donne!"
"Sì! Letizia ha ragione!" assentì lui e si disse che un uomo davvero innamorato avrebbe desiderato la sua donna anche dopo averla appena posseduta. Si disse che lui, ogni volta, posseduta una donna, mai pago e sempre insoddisfatto, non aveva mai desiderato di trattenerla e che aveva provato sempre un senso di sollievo, dopo, a vederla scivolar via dal suo letto.
Quella sua abilità erotica, si disse, quella capacità di trarre piacere senza coinvolgimenti emotivi, non valevano per la sua Jasmine: lei lo appagava soltanto guardandolo negli occhi.
Le labbra lasciarono l'orecchio per cercare il mento e poi la gola e tornare ancora alle guance, alle palpebre e fermarsi alla bocca.
"Resta, Jasmine." pregò.
Ma lei non restò.
Si girò, due o tre volte, per guardarsi intorno: il letto di Rashid. Grande, largo, basso. L'aveva accolta tra le coltri calde, tranquille e sicure per ben tre giorni e tre notti.
Il letto di Rashid. Immenso e soffice, dove lui consumava le sue notti d'amore e di passione con altre donne, avvolto in quella stessa grande coperta di broccato amaranto.
Chiuse gli occhi e quasi di sorpresa l'assalì il pianto, quel bisogno antico sollecitato dal dolore, quel privilegio quasi del tutto femminile che doleva come una ferita fisica. Poteva "vederlo", il suo Rashid, disteso accanto "all'altra", avvinghiato in spasmi di passione, in una fusione di respiri ansanti, soffocati dall'intensità del piacere.... all'altra... a Selima... A Selima, a cui lui prestava fede più che a lei... d'un tratto la sua voce, come evocata dai suoi pensieri:
"Jasmine, amore mio. Sono felice di vederti seduta e non distesa nel letto. Letizia, qui fuori, mi ha detto che stavi riposando."
Jasmine trasalì; era di spalle e non lo aveva visto né sentito entrare. Non si voltò, ma lasciò scivolare in avanti le gambe.
Non indossava più la veste da notte, ma un'ampia tunica color sabbia ricamata in oro che le lasciava scoperte solamente le braccia. Era stata la piccola Agar, la figlia minore di Alina, ad aiutarla a vestirsi. Agar in quei due giorni non l'aveva lasciata mai sola un istante per farsi raccontare favole d'amore; la sua voce, adesso, proveniva da fuori squillante ed allegra.
Rashid avanzò a passi lenti; raggiunse l'immenso letto e lo aggirò. Immobile, Jasmine si calò sul bellissimo volto il velo di seta blu e nascose il rossore di quei pensieri.
Rashid l'aveva raggiunta.
"Non farlo." le sorrise.
Quante volte aveva ripetuto quella frase.
"Non farlo." ripeté, prendendo tra le sue entrambe le mani di lei che stringevano i lembi del velo, ma questa volta lei si liberò della stretta e si sistemò il velo sul capo.
"E' sconveniente che io mostri il volto ad occhi maschili. - disse, sottraendogli la visione del bel volto in fiamme e concedendogli solo l'emozione dei suoi occhi verdi - Come è sconveniente che io continui a dormire nel tuo letto, Rashid. - lui fece l'atto di replicare, ma lei lo prevenne - Sei stato molto generoso, Rashid, ad ospitarmi qui, ma è ora che io torni sotto la mia tenda - ." aggiunse in tono che non ammetteva repliche.
E Rashid non ne fece. Non subito, ma tese un piccolo cesto di datteri.
"E' un regalo di pace da parte di Selima. - disse con un sorriso conciliante - Dice di essere mortificata per tutta questa situazione e che vuole chiarirsi con te." aggiunse sedendo sul letto accanto a lei.
"Sei stato da lei? - domandò Jasmine con voce incolore ed a testa bassa, mentre un lampo le attraversava lo sguardo, poi, mutando di tono - Lo voglio anch'io! - mentì - Rassicurala... Rassicura Selima... quel giorno vaneggiavo.... L'hai detto anche tu che vaneggiavo..."
Mentiva, con quell'accento persuasivo, soavemente ingannevole, dolcemente remissivo. Aveva imparato a mentire in quei tre giorni trascorsi nella languidezza abusiva di quel letto su cui adesso erano seduti entrambi, ma che custodiva tracce di altri corpi femminili... di Selima.
Aveva imparato a mentire per nascondersi e non mostrarsi ferita agli occhi di lui. Aveva imparato a mentire perché tutte le sue difese erano concentrate nell'istinto che l'aveva sempre protetta e l'istinto ora le suggeriva di mentire, mentre inquietudine e gelosia le contraevano la carne e arrivavano ovunque, passando attraverso lo sguardo.
Aveva imparato a mentire e Rashid ne era dolorosamente consapevole. Il suo sguardo, però, non mentiva, né mentiva il sorriso, triste e privo di quegli angoli ai lati degli occhi.
Ed erano solo quelli, di tutta la persona, che lei gli concesse di guardare: perfino la bocca, colorata come un fiore di melograno e anche il naso che si levava elegante e curvo, lei gli aveva sottratto alla vista.
Lei fingeva di credergli, fingeva di adattarsi alle sue congetture e lui ne era consapevole, mortificato e addolorato: lei lo faceva con dolcezza soave, ma con dolorosa certezza e lui si sentiva colpevole, ma non sapeva spiegarsi di quale colpa. Colpevole e basta! Si alzò; posò un ginocchio a terra davanti a lei e con gesti delicati e pieni d'amore le prese tra le mani il volto velato, sfiorandone i contorni con trepida dolcezza.
"Jasmine, mia adorata, vuoi diventare la mia sposa?" proruppe, mentre le dita scivolavano con dolce lentezza sulle sopracciglia frementi, le ciglia abbassate e le labbra tremanti; il velo era bagnato di lacrime.
Un fremito, però, gli contrasse la carne: Jasmine scuoteva il capo in segno di diniego.
"Jasmine, mio tesoro..."
Rashid era sinceramente stupito; si aspettava fremiti, aneliti, slanci di gioia e invece lei lo respingeva.
"Se me lo avessi chiesto prima... - la udì sussurrare - Non oggi... Non oggi, Rashid!"
"Ma perché? Perché, Jasmine, mia adorata?"
"Troppe ombre tra noi, Rashid."
"Ma io ti amo, Jasmine, Luce degli Occhi miei! Io non ho altro desiderio che svegliarmi al mattino con te tra le braccia."
"No! - lei continuava a scuotere il capo - Non oggi, amore mio. Non oggi, sull'onda di tante emozioni... Non s ulla spinta di tante emozioni."
"Tu.. tu credi, amore mio, che la mia richiesta sia dettata dall'emotività di questi eventi?... Oh, Jasmine..." proruppe il grande predone, affondando il capo nel grembo caldo e soffice di lei e circondandole la vita con le braccia.
"Chiedimelo ancora, Rashid, se mi ami... Ma non oggi. Non oggi." gli sussurrò lei, chinando il capo fino a sfiorare quello di lui e ponendovi le labbra, poi gli scompigliò i capelli neri, folti e ricci, così come si fa con un bambino che vuol essere consolato dalla sua piccola grande pena; glieli accarezzò a lungo, con movimenti dolcissimi e lenti e di infinita tenerezza.
Il rais sollevò il capo; afferrò entrambe le mani di lei e se le portò alle labbra tremando: lui, l'uomo davanti a cui, eccetto la Natura, tutti chinavano il capo.
"Se è la presenza di Selima a impedirti di essere felice, amore mio, io la rimando oggi stesso alla sua gente. E allontanerò da questa casa ogni altra donna che risultasse non gradita alla mia principessa." disse alzandosi e tornando a sederle accanto.
Con gesti di infinita tenerezza le tolse il velo, che posò alle loro spalle e le sciolse i capelli che Jasmine aveva legato sulla sommità del capo; lei lo lasciò fare e si lasciò attirare nell'incavo delle sue braccia forti e protettive.
"Non è questo che voglio.... ma, se Allah... - disse, infine, sollevando su di lui gli occhi verdi in cui un'ombra navigava veloce - ... se Allah ti concede l'amore di altre donne, io vorrei che non ci fossero ombre..."
"Oh, Jasmine! Nessuna donna all'infuori di te!" la interruppe lui con enfasi attirandola a sé con quella dolce violenza con cui lei lo immaginava impegnato con altre donne e la baciò con dolce passione. Un bacio tenero e indugiante. Sensuale. Che suscitò furiosa eccitazione e spasmi impetuosi in lui ed inconfessati desideri in lei.
"Letizia ha ragione, dunque!" sussurrò come trasognata, Jasmine, bruciata da quel liquido fuoco vivo che le scorreva nelle vene e dentro le ossa, alimentato dalle mani di lui che la cercavano e la percorrevano.
"Che cosa dice Letizia?" mormorò Rashid, quasi distrattamente e con le labbra chiuse intorno all'orecchio di lei che spuntava come una rosea conchiglia tra i capelli.
"Che un uomo innamorato sa trovare nella donna che ama, tutte le qualità che Allah ha distribuito in tutte le altre donne!"
"Sì! Letizia ha ragione!" assentì lui e si disse che un uomo davvero innamorato avrebbe desiderato la sua donna anche dopo averla appena posseduta. Si disse che lui, ogni volta, posseduta una donna, mai pago e sempre insoddisfatto, non aveva mai desiderato di trattenerla e che aveva provato sempre un senso di sollievo, dopo, a vederla scivolar via dal suo letto.
Quella sua abilità erotica, si disse, quella capacità di trarre piacere senza coinvolgimenti emotivi, non valevano per la sua Jasmine: lei lo appagava soltanto guardandolo negli occhi.
Le labbra lasciarono l'orecchio per cercare il mento e poi la gola e tornare ancora alle guance, alle palpebre e fermarsi alla bocca.
"Resta, Jasmine." pregò.
Ma lei non restò.
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/1741983.jpeg?465)
Nonostante il sole si fosse già alzato, la luce non superava l'intensità del crepuscolo; appoggiata alla staccionata, all'interno del recinto dei cavalli, Jasmine, il mattino del giorno dopo, osservava i cavalli al galoppo e dalle criniere al vento, che riempivano l'aria di nitriti.
La principessa di Shammar amava i cavalli; era cresciuta tra cavalli, che avevano nutrito i suoi primi sogni di fanciulla, che si attardavano con lei prima di porre la guancia sul cuscino e con lei si svegliavano al mattino col primo battito di ciglia.
Koal, lo splendido baio, dono di Rashid, scalpitava sotto la sua carezza, tendendo la bella testa nobile e fiera.
Le dicevano tutti che era proprio un bel cavallo, anche Alì, uno dei giovani addetti al governo di quegli splendidi animali, che lo aveva condotto, trotterellando, fino allo steccato.
Le frogi frementi, i grandi occhi spalancati, il collo dal lucido pelo raso, Koal mostrava di gradire davvero le sue carezze e Jasmine correva da lui tutte le volte che poteva, soprattutto al mattinoi, quando il silenzio, rotto solo da nitriti e scalpittii di zoccoli, avvolgeva ogni cosa.
"A me pare che il tuo cavallo ti stia chiedendo di fare una bella galoppata... Perché non lo accontenti?"
La voce ferocemente ironica di Selima la sorprese sgradevolmente alle spalle. Si girò; Kaol aveva smesso di nitrire.
Selima, la Favorita del suo Rashid, la fissava, al di là dello steccato, con un sorriso sottilmente e femminilmente perfido ed ironico.
"Selima. - esclamò - Selima. Che cosa vuoi?... Che cosa ci fai qui a qust'ora del mattino? Tu ti muovi con il favore delle tenebre."
"Ah.ah.ah! - rise la ragazza - Non ti rode lo spirito, il fatto che nessuno presti fede ai tuoi vaneggiamenti, principessa? Ah.ah..." il rancore le spezzava la voce.
"Io so che sei stata tu, Selima e questo è quello che conta!"
"Prova che sono stata io a conficcarti quello stiletto nella spalla.. ah.ah.ah..." continuò, l'opulento corpo scosso dall'isterica risata.
Quell'ilarità, però, durò poco: l'arrivo improvviso di Rashid che si fermava alle sue spalle, in sella al suo cavallo.
"Mattiniere, le mie ragazze. - esclamò il giovane smontando e legando allo steccato il cavallo, accanto a Selima.
"Rashid, mio signore..."
Selima si sporse verso di lui.
"Allah sia con te, Selima. - il giovane conteso bel predone gratificò di un sorriso colei che ormai da tempo non considerava più la sua Favorita; attraversò lo steccato e raggiunse la principessa - Vieni, mio tesoro. Sembra che Koal voglia invitarti ad una bella galoppata. - disse: quasi le stesse parole di Selima - Anch'io, però, ho un invito per te." continuò, passandole un braccio intorno alla vita e sostenendola, affinché non incespicasse nel suolo di sabbia e ciottoli.."
Si allontanarono, Rashid e Jasmine, seguiti dallo sguardo di Selima carico di rancore e lui la guidò verso il cancello di tavole inchiodate, che con premura le tenne aperto, nell' aiutarla ad oltrepassarlo.
Jasmine, però, si fermò; tese la mano verso una di quelle tavole e vi si attaccò saldamente. Lo sguardo sollevato su di lui, un po' stupita ma anche spaventata perché lui non l'aveva ancora sfiorata nemmeno con una carezza, Jasmine lasciò andare i lembi del velo color avorio pallido che le cadde sulle spalle, mostrando lo splendore perlaceo-dorato del bellissimo volto dalle linee pure e delicate.
"Dove mi porti?" domandò.
"Non lontano. - rispose semplicemente Rashid, indicando un crostone dei brevi monti calcarei che profilavano Sahab a nord-ovest - Non lontano. " ripeté, prendendola per la vita e issandola in sella a Daysi, il suo celeberrimo cavallo, poi montò dietro di lei e lanciò il cavallo al galoppo in quella direzione.
La cavalcata durò poco; raggiunte le pendici dei monti, Rashid fermò il cavallo, smontò ed aiutò Jasmine, che fece l'atto di prendere la parola.
"Dobbiamo solo aspettare." la prevenne lui, tuffando lo sguardo nella magia di quello di lei, verde e scintillante come purissimi smeraldi, in cui brillava la fiamma d'amore che lui aveva acceso.
Gli occhi di Rashid, profondi ed irrequeti, da uccello predatore, la fissavano con passione impetuosa e desiderio furiosamente controllato: un silenzio carico di eccitazione trattenuta era calato su di loro, imobili e ammutoliti, come in attesa di qualcosa.
Proprio quando lei si scosse, quasi sgomenta di quell'insolito silenzio, ecco due aquile comparire nel cielo in un volteggiare potente e maestoso. Un maschio e una femmina.
"Aquile! Signore del cielo! - esclamò Rashid - Guarda, Jasmine, con quanta sublime grazia e maestà volano nel cielo."
Con occhi sgranati, i due giovani seguirono il maschio che si alzava più in alto per poi lanciarsi in picchiata verso la femmina, quasi per attaccarla; videro quella compiere un largo volo in rovesciata con gli artigli rivolti verso l'alto.
"Precipiterà... - si sgomentò Jasmine - Si sfracellerà sulle rocce."
"No, tesoro mio! - Rashid sorrise e l'attirò a sé - E' la "Danza delle aquile". E' il rituale di accoppiamento." spiegò, chinandosi a deporle un bacio sui capelli.
Tornarono a guardare verso l'alto con il cuore il gola e lo stupore negli occhi.
Il maschio aveva raggiunto la femmina; i suoi artigli cercarono quelli della compagna e si intrecciarono con essi e qualcosa di prodigioso accadde: così legate, le due aquile si lasciarono precipitare giù. Lentamente. Dolcemente. Vorticosamente. Girando su se stesse.
"Precipiteranno..." si angosciò Jasmine.
Non precipitarono. A pochi metri dalla protuberanza rocciosa, le due aquile si staccarono l'una dall'altra, ebbero un'impennata e tornarono verso l'alto. Ripeterono la straordinaria evoluzione quattro o cinque volte, poi si allontanarono e scomparvero nel cielo.
"Quando il rito sarà completato e l'accoppiamento avvenuto, quelle due aquile non si separeranno fino alla morte." disse Rashid, mentre la sua mano grande, forte, protettiva e possessiva cercava quelle di lei, poi si chinò a cercare la sua bocca che trovò, per la prima volta, pronta a ricevere la sua e si saziò di baci; si sciolsero, infine, dall'abbraccio e voltarono le spalle ai monti. Rashid sollevò Jasmine in sella e montò dietro di lei.
"Sono commossa!" Jasmine posò la testa sulla spalla di lui e si abbandonò nelle sue braccia, assecondando i movimenti del cavallo e offrendo il bel volto al vento che le colorì e tonificò le guance; lui le sfiorò la nuca con le labbra.
"Posso offrirti del caffè, Rashid? - chiese lei d'un tratto - Con ciambelle al miele."
"Ne sto già pregustando la dolcezza... - sorrise lui - ma c'è una sorpresa che ti aspetta prima del caffè." aggiunse in tono misterioso.
"Una sorpresa?" domandò lei girando il capo e incontrando con le labbra la mascella di lui, energica e forte, sottolineata da un cenno di barba; anche Rashid girò il capo e le labbra si sfiorarono.
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/5391636.jpg?296)
Rashid spronò il cavallo; raggiunte le prime tende di Sahab puntò in direzione della tenda che Jasmine divideva con Zaira.
"Qualcuno ci ha preceduti. - disse - Non senti che profumo di caffé?"
"Delizioso! - assentì Jasmine annusando l'aria con gesto che sollecitò il sorriso divertito del rais; tendeva verso di lei le braccia per aiutarla a smontare e la sorresse con dolce lievità, mentre la deponeva a terra con delicatezza, come un prezioso tesoro - Delizioso anche il profumo di ciambelle. Sembrano ancora sfrigolare sul fuoco... Devono essere state la piccola Agar e Zaira..."
La sorpresa, però, non era il caffé e neppure erano le ciambelle, anche se caffè e ciambelle posavano su un prezioso tappeto steso al suolo su un altrettanto preezioso vassoio d'argento.
La sorpresa era il giardino che pareva aver preso vita sotto la tenda, attorno al prezioso tappeto: un trionfo di colori e profumi.
Jasmine si fermò come trasognata sull'imbocco della tenda, dai lembi sollevati per rendere più spettacolare l'effetto.
"OH!" esclamò, sopraffatta dall'emozione; Rashid guardava il suo incantato stupore come si guarda un prodigio, poi le circondò le spalle.
"Ho fatto arrivare da Wakra i fiori del tuo giardino di Doha: rose rosse, orchidee bianche, azalee cremisi, azzurre ortensie e verdi rampicanti. - la condusse al centro di quello straordinario "giardino", le prese il bel volto tra le mani - Ci siamo rubati il primo bacio di nascosto, a Doha, fra questi fiori... Ricordi, amor mio? - sussurrò con tanta dolcezza che a Jasmine il cuore parve scoppiare nel petto - Vuoi sposarmi, Jasmine?"
"Sì!"
Un monosillabo che era più forte e saldo dell'anello più saldo della più solida delle catene e i loro sguardi si incontrarono, le labbra si avvicinarono, ma una voce allarmata ruppe l'incanto:
"Rashid!... Rashid!"
Si portarono fuori della tenda; era Ashraf, il fratello di Ibrahim.
"Stanno arrivando." disse.
"Chi sta arrivando?" domandò Jasmine.
"Gli Aws - rispose il grande predone- Li aspettavamo. Rivogliono Fatima... Il matrimonio della figlia dello sceicco degli Aws con il cugino dello sceicco dei Kinda, per gli Aws non è valido né accettabile... Lo sceicco degli Aws vuole che sua figlia sposi lo sceicco dei Kinda."
"Che cosa accadrà, adesso?"
"Penso ad Ibrahim ed alla morte dello sceicco Feysal della tribù dei Kaza.... Si sono alleati agli Aws."
"Ma Ibrahim non è colpevole." replicò lei.
"Ho ascoltato i membri della Delegazione che i Kaza hanno inviato ad Harith: vogliono Ibrahim."
"Non lo consegnerete, vero?"
"Certamente no! - seguì una pausa che il rais riempì con un sospiro - Ciò che mi rende perplesso è l'audacia di Ben. Prima rifiuta di pagare il tributo, respinge gli emissari, maltratta i nostri ambasciatori e infine osa reclamare il sangue di qualcuno che è stato lui ad affendere... Ed ora si allea con gli Aws."
"Ben è un giovane pazzo e irresponsabile."
"Irresponsabile, sì! - fece Rashid scuotendo il capo - Mi basterebbe alzare una mano per spazzare dalla sabbia del deserto lui e la sua tribù. - ancora una pausa, per schiarirsi la voce e controllare la collera - Non voglio farlo, ma la sua tracotanza va punita. Penserò a lui dopo il Consiglio."
"Ben è uno sciocco a sfidare la tua collera."
Jasmine tornò a sfiorargli la nuca con gesto dolce, ripetitivo; le dita si insinuarono nella massa contorta e ribelle dei capelli. Non erano morbidi come i suoi, si sorprese a pensare, ma era eccitante toccarli e lasciarli scorrere tra le dita e anche lui doveva provare piacere a quel contatto, si compiacque, perchè lo sentiva fremere.
"Se ancora non sono intervenuto è soltanto per il rispetto che nutro per la madre di Ibrahim, che è nata nella tribù dei Kaza." diss'egli.
"Alina?" stupì Jasmine; l'altra mano smise di toccare i fiori di quello splendido "giardino".
"Senti ancora tanto dolore alla spalla?" domandò lui, sentendola rigida nel piegarsi.
"Soltanto nei gesti bruschi. - rispose lei, poi aggiunse - Povera Fatima. Questa storia di sangue ha macchiato la sua veste nuziale."
"Sì! Povera Fatima." Rashid raccolse con l'indice e il medio il mento di lei arrotondato e levigato e lo guidò verso le sue labbra.
"Quel Ben non vorrà costringere Ibrahim a ripudiare Fatima e sposare sua sorella Kassida.. che si dice anche lei promessa di Ibrahim?"
"No! Credo che siano altri i loro piani... piani di Ben ed Amud: Ben vorrà assicurarsi l'alleanza degli Aws dando in sposa sua sorella Kassida a un membro influente della tribù... allo stesso Amud, forse. - spiegò, poi, avvolgendola con uno sguardo che era una promessa e una carezza, continuò - Una cosa è sicura: Ibrahim non si lascerà portar via la sua donna e nessuna donna prenderà il posto di Fatima accanto a lui, come nessuna donna potrebbe mai prendere il tuo posto accanto a me, Jasmine." le sussurrò con tanta dolcezza e tenerezza che a Jasmine il cuore parve volerle scoppiare nel petto.
Lei si girò a guardare i suoi occhi, neri e profondi, in cui parevano essersi concentrati tutti suoi sentimenti; lui restituì lo sguardo, travolto dalle stesse emozioni e l' attirò nell'incavo delle braccia. Dalla forza con cui lui la stringeva, Jasmine comprese quanto indifesa e vulnerabile fosse nelle sue braccia, ma dal modo in cui la guardava, capì di esser nata soltanto per lui.
"Perdonami, mio tesoro. - Rashid, infine, si sciolse dall'abbraccio - Mi piange il cuore a doverti lasciare proprio adesso, ma devo andare... devo proprio andare."
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La nuvola di polvere s'era fermata all'orizzonte, a mezzo miglio dalle palme dell'oasi. Un centinaio, almeno, avevano riferito gli uomini di vedetta di Rashid, tra cavalieri e cammellieri.
Rashid aveva raggiunto la tenda del suo sceicco e vi aveva trovato ad espettarlo tutti i suoi uomini, assieme ad Ibrahim e sir Richard, armati di tutto punto e pronti a sostenere l'attacco.
Non attesero molto. Dal grosso drappello si staccarono una mezza dozzina di uomini, due cavaliere e quattro cammellieri.
Rashid, in piedi davanti alla tenda del suo capo, riconobbe subito il mantello color dattero di uno dei due cavalieri. Era Amud, figlio di Feysal, sceicco degli Aws e l'altro cavaliere, pensò il rais dei Kinda, doveva essere Ben, figlio dello sceicco dei Kaza, ora alleati contro i Kinda.
Chiedevano di parlamentare e raggiunsero la tenda di Harith scortati da una dozzina di uomini di Rashid.