L'ANGOLO del CUORE
LETTURE al FEMMINILE
POESIE D'AMORE - MADRIGALI
EROINE del SENTIMENTO
POESIE D'AMORE - MADRIGALI
EROINE del SENTIMENTO
INDICE
- Poesia Amorosa
- L'Amore e l'Estasi
- Gelosia
POESIA AMOROSA
Unica amante che non ha seconda
Bella più di ogni altra donna.
Luminosa e perfetta come la stella sorgente
Di colorito splendente, seduce con lo sguardo
E incanta con le labbra.
Il suo collo è lungo, meraviglioso il seno.
I capelli veri lapislazzuli
Più che oro splendono le braccia
Le dita ricordano i fior di loto.
Perfettamente modellata ai fianchi,
le gambe superano ogni altra sua bellezza.
Nobile è il suo incedere.
Farà schiavo il mio cuore con un abbraccio.
Ogni sguardo la segue mentre lei si allontana
Tale è questa unica Dea
Felice chi potrà abbracciarla tutta.
( di anonimo – risalente alla XVIII Dinastia dei Faraoni)
Unica amante che non ha seconda
Bella più di ogni altra donna.
Luminosa e perfetta come la stella sorgente
Di colorito splendente, seduce con lo sguardo
E incanta con le labbra.
Il suo collo è lungo, meraviglioso il seno.
I capelli veri lapislazzuli
Più che oro splendono le braccia
Le dita ricordano i fior di loto.
Perfettamente modellata ai fianchi,
le gambe superano ogni altra sua bellezza.
Nobile è il suo incedere.
Farà schiavo il mio cuore con un abbraccio.
Ogni sguardo la segue mentre lei si allontana
Tale è questa unica Dea
Felice chi potrà abbracciarla tutta.
( di anonimo – risalente alla XVIII Dinastia dei Faraoni)
L'AMBASCIATORE LONGOBARDO
Una delle porte laterali della grande Sala delle Udienze della corte del Duca di Baviera si aprì ed una giovanissima donna fece il suo ingresso.
Il brusio che era nella sala tacque di colpo ed un silenzio ammirato scese sui presenti: quella giovane era la principessa Teodolinda che veniva a ricevere l’omaggio degli ambasciatori del bellicoso popolo dei Longobardi, inviati da re Autari per chiederla in moglie.
Teodolinda era bellissima. Il volto era dolce, roseo e come di porcellana; due occhi di un profondo azzurro lo illuminavano ed una cascata dei capelli biondi, trattenuti sul capo da una corona d’oro, lo incorniciavano. La figura era snella ed armoniosa e dava classe allo stupendo e prezioso abito di gala che indossava con innata grazia.
Portava una lunga e candida tunica ricamata in oro, trattenuta in vita da una cintura, anche questa d’oro e impreziosita da gemme. Sulle spalle un preziosissimo scialle di tessuto dorato, era trattenuto sul seno da uno splendido gioiello.
Avanzò nella sala fiera e timida al contempo, seguita da uno stuolo di ancelle.
I presenti, dame e cavalieri, si inchinavano al suo passaggio e le facevano ala mentre, la mano in quella del padre, il Duca di Baviera, si dirigeva verso il trono su cui si sarebbe seduta per ricevere i doni degli ambasciatori longobardi.
Quel matrimonio era una delle tante manovre politiche nel gioco delle alleanze. Al Duca di Baviera, minacciato ai confini dai Franchi, occorreva un forte alleato; dal canto loro, i Longobardi si assicuravano alle spalle un potente alleato.
Erano giunti a Pavia, capitale del Regno, con ricchi doni per colei che sarebbe diventata la loro regina. Erano in sei, tra i più nobili di quel popolo guerriero.
Piegarono il ginocchio al passaggio della principessa e la giovane gettò verso di loro un timido sguardo, con un’ombra di
curiosità e non solo quella: era anche un po’ intimorita. Quegli uomini erano lì per lei con doni, è vero, ma anche per giudicarla e riferire al loro Re.
Era gente fiera, sapeva. Era un popolo di guerrieri guidato da un Re Guerriero, di cui lei sarebbe diventata presto la sposa, ma era anche un popolo a cui mancava la raffinatezza della corte bavarese.
Guardava le loro nuche, ma non poteva scorgere il loro volti. Non poteva scorgere le espressioni dei loro volti chini al suo passaggio, ma il loro atteggiamento le parve nobile e fiero. Erano, pensava, sicuramente gli uomini di fiducia del loro Re. I più prodi. I più coraggiosi. I più nobili.
Con lento incedere continuò ad avanzare ed ecco che, l’ultimo della fila, alzò il capo e la guardò fisso negli occhi.
Teodolinda abbassò subito i suoi e le guance le si infiammarono, un po’ spaventata da tanta audacia.
Era bastato quello sguardo, però, al suo cuore, per farlo battere precipitosamente: l’Ambasciatore di re Autari era veramente di aspetto bellissimo.
Con dolce turbamento si sorprese a pensare che quello straniero sarebbe presto diventato uno dei suoi sudditi ed avrebbe giurato fedeltà nelle sue mani.
I suoi occhi azzurri erano come il cielo, pensava, e la guardavano con insistenza, ma senza impertinenza; al contrario, c’era in essi profonda ammirazione e un aperto sorriso sulle sue labbra.
Teodolinda raggiunse il trono, sedette ed aspettò l’omaggio.
Il primo ad avvicinarsi fu proprio il giovane, audace ambasciatore.
Ora, in piedi, egli si mostrava in tutta la possanza del fisico. Era alto e atletico; le spalle erano robuste e forti.
Mentre le si avvicinava, il cuore della principessa tremava.
Il giovane ambasciatore si inginocchiò ai suoi piedi e porse il dono: un astuccio contenente un bracciale che tese con rispettoso gesto. Era d’oro e tempestato di rubini.
“Te lo manda il mio Re. - disse e la sua voce maschia e profonda turbò ancor di più la principessa – Ha saputo che il rubino è la gemma che la sua futura sposa predilige fra le altre.”
“Ringrazia il tuo Rw, nobile signore.” rispose Teodolinda.
“Dolce principessa, - il giovane ambasciatore continuava ad accarezzarla con lo sguardo e la dolcezza della voce. Tutto in lui indicava il guerriero forte e rude, ma la cortesia e il garbo dei modi lo rendevano agli occhi della raffinata principessa bavarese un vero gentiluomo – Anche io, Guadaldo, capitano del mio Re, mi permetto di farti un dono. – il bel longobardo tese un pacchetto che aprì mostrandone il contenuto: uno splendido ventaglio di piume con l’impugnatura d’oro tempestata di pietre preziose – Accettalo, ti prego.”
La principessa lo guardò per un attimo titubante ed incerta, ma il sorriso di quel bel giovane,
Come tutte le donne del suo temo, la principessa Teodolinda aveva per i ventagli una vera passione. Rispose con un sorriso poi un fremito sconosciuto la percorsa tutta quando, nel prendere lo splendido dono, le sue mani sfiorarono quelle brune e forti del bell’ambasciatore.
“Il tuo è stato un pensiero assai gentile, nobile Guadaldo – disse, ritirando la mano e posando il ventaglio in grembo – Ti ringrazio.”
Il giovane chinò il capo poi si alzò per far posto agli altri ambasciatori, ma non staccò mai lo sguardo dal volto di lei.
Molto turbata, Teodolinda si sorprese a desiderare di custodire quel dolce, sconosciuto turbamento lontano da sguardi indiscreti e quando, più tardi, la nutrice venne a prepararla per il banchetto, la trovò davanti alla finestra che guardava di fuori presa da dolci fantasticherie.
“La mia piccola principessa… il mio piccolo fagottello biondo… - la nutrice la trattava sempre come fosse ancora una bambina – Presto lascerà questo castello.”
“Nutrice…”
“La mia agnelletta sta per diventare una donna maritata…Oh, Dio… mi pareva così lontano questo momento…”
“Diventerò sposa di un uomo forte e valoroso…”
“Diventerai Regina… - la interruppe la nutrice – Diventerai Regina.”
Un’ombra passò nello sguardo della principessa, di ansia e trepidazione.
“Come sarà il mio futuro sposo, nutrice? Che aspetto avrà?”
“Lo sanno tutti che re Autari è un giovane di bell’aspetto, mia piccola colomba. E’ un soldato valoroso e farà di te una grande Regina.”
“I suoi ambasciatori sono cavallereschi e gentili.”
“Soprattutto quello giovane e biondo. – sorrise la nutrice – Sembra adorarti, piccola mia. Hai già trovato un fedele servitore.”
“Sono un po’ spaventata. Credi che sarò la benvenuta alla corte di re Autari?”
“Sarai la benvenuta.”
“Ho qualche timore… Re Autari ha scelto per i suoi sudditi una Regina straniera e cattolica.”
“Tu li conquisterai. Re Autari non farà pesare sulla tua bella testolina che il peso della corona di Regina, piccola mia… Ma adesso bando alle ciance. Bisogna acconciarti per il banchetto… La principessa di Baviera deve essere bellissima agli occhi degli ambasciatori del loro Sovrano. – la nutrice batté le mani per chiamare le ancelle – Un bagno profumato per il mio fiorellino.”
La principessa Teodolinda si sottopose di buon grado alle cure necessarie poi indossò una veste verde smeraldo con cintura e nodi dorati. Lasciò i capelli sciolti sulle spalle, secondo l’uso riservato alle donne non sposate, ma li divise sulla fronte da due file di perle; le stesse che le ornavano collo e braccia.
Al braccio del padre, più tardi, raggiunse l’ampia sala del banchetto dove i commensali erano già in attesa e il banchetto ebbe inizio.
Il Duca sedeva a capotavola; accanto a lui avevano preso posto tre degli ambasciatori, tra cui il bel Guadaldo. Dall’altro capo della tavola sedeva la principessa con a fianco gli altri tre.
Il banchetto si protrasse fino a notte inoltrata e durante tutto il tempo, il bell’ambasciatore longobardo non staccò mai, nemmeno per un attimo, lo sguardo dal volto della principessa.
Quando, terminato il banchetto, Teodolinda si ritirò, ma si portò dietro e nel cuore quello sguardo.
“Non devo più pensare a quel giovane. – Il suo sguardo è ardito, ma io devo distrarlo dal mio cuore.”
Però, per tutta la notte non chiuse occhio.
“Il tuo è stato un pensiero assai gentile, nobile Guadaldo – disse, ritirando la mano e posando il ventaglio in grembo – Ti ringrazio.”
Il giovane chinò il capo poi si alzò per far posto agli altri ambasciatori, ma non staccò mai lo sguardo dal volto di lei.
Molto turbata, Teodolinda si sorprese a desiderare di custodire quel dolce, sconosciuto turbamento lontano da sguardi indiscreti e quando, più tardi, la nutrice venne a prepararla per il banchetto, la trovò davanti alla finestra che guardava di fuori presa da dolci fantasticherie.
“La mia piccola principessa… il mio piccolo fagottello biondo… - la nutrice la trattava sempre come fosse ancora una bambina – Presto lascerà questo castello.”
“Nutrice…”
“La mia agnelletta sta per diventare una donna maritata…Oh, Dio… mi pareva così lontano questo momento…”
“Diventerò sposa di un uomo forte e valoroso…”
“Diventerai Regina… - la interruppe la nutrice – Diventerai Regina.”
Un’ombra passò nello sguardo della principessa, di ansia e trepidazione.
“Come sarà il mio futuro sposo, nutrice? Che aspetto avrà?”
“Lo sanno tutti che re Autari è un giovane di bell’aspetto, mia piccola colomba. E’ un soldato valoroso e farà di te una grande Regina.”
“I suoi ambasciatori sono cavallereschi e gentili.”
“Soprattutto quello giovane e biondo. – sorrise la nutrice – Sembra adorarti, piccola mia. Hai già trovato un fedele servitore.”
“Sono un po’ spaventata. Credi che sarò la benvenuta alla corte di re Autari?”
“Sarai la benvenuta.”
“Ho qualche timore… Re Autari ha scelto per i suoi sudditi una Regina straniera e cattolica.”
“Tu li conquisterai. Re Autari non farà pesare sulla tua bella testolina che il peso della corona di Regina, piccola mia… Ma adesso bando alle ciance. Bisogna acconciarti per il banchetto… La principessa di Baviera deve essere bellissima agli occhi degli ambasciatori del loro Sovrano. – la nutrice batté le mani per chiamare le ancelle – Un bagno profumato per il mio fiorellino.”
La principessa Teodolinda si sottopose di buon grado alle cure necessarie poi indossò una veste verde smeraldo con cintura e nodi dorati. Lasciò i capelli sciolti sulle spalle, secondo l’uso riservato alle donne non sposate, ma li divise sulla fronte da due file di perle; le stesse che le ornavano collo e braccia.
Al braccio del padre, più tardi, raggiunse l’ampia sala del banchetto dove i commensali erano già in attesa e il banchetto ebbe inizio.
Il Duca sedeva a capotavola; accanto a lui avevano preso posto tre degli ambasciatori, tra cui il bel Guadaldo. Dall’altro capo della tavola sedeva la principessa con a fianco gli altri tre.
Il banchetto si protrasse fino a notte inoltrata e durante tutto il tempo, il bell’ambasciatore longobardo non staccò mai, nemmeno per un attimo, lo sguardo dal volto della principessa.
Quando, terminato il banchetto, Teodolinda si ritirò, ma si portò dietro e nel cuore quello sguardo.
“Non devo più pensare a quel giovane. – Il suo sguardo è ardito, ma io devo distrarlo dal mio cuore.”
Però, per tutta la notte non chiuse occhio.
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La corte era in fermento: un torneo in onore degli ospiti.
Tutto era pronto da giorni nello spiazzo che si stendeva davanti al castello. Il terreno era stato recintato da una palizzata ed a metà del perimetro erano state sistemate alcune tende ornate di pennoni e frange colorate; davanti ad ognuna di loro c’era lo scudo del cavaliere che avrebbe partecipato al torneo.
Uno scudo bianco con bordo colorato di rosso e con al centro un’Aquila Reale, posava davanti alla seconda tenda: era lo scudo di Abelardo, Campione della principessa Teodolinda.
Sul lato opposto erano state sistemate le tribune per gli spettatori; un piccolo palco sopra un poggio era il posto d’onore e vi avevano preso posto il Duca, la principessa Teodolinda e i suoi ospiti longobardi.
Il torneo ebbe inizio.
Per primi entrarono in campo gli araldi i quali spiegarono le modalità della gara. Proclamarono i nomi dei quatto Campioni: Agililulfo, Gundebaldo, Teobaldo e Abelardo, Campione della principessa.
Ogni cavaliere presente poteva lanciare la sfida ai Campioni ed alla fine della giornata, quello tra i cavalieri che avesse spezzato quattro lance, sarebbe stato nominato Campione del Torneo ed avrebbe ricevuto in dono uno splendido cavallo.
I Cavalieri dovevano scegliere i colori della dama a cui volevano dedicare la vittoria, portando sul cimiero i nastri da lei ricevuti.
Ritiratisi gli araldi, entrarono i Cavalieri e la gara ebbe inizio.
I quattro Campioni, armati di tutto punto e chiusi nelle splendide armature, avanzarono nel campo. Giunti sotto il podio si fermarono per rendere omaggio al Duca ed alla principessa poi, al suono di tamburi, raggiunsero la loro postazione nella parte nord del campo. Gli sfidanti, invece, si allontanarono verso la parte sud.
Al segnale delle trombe, cessati i tamburi, i due gruppi mossero l’uno contro l’altro.
Nel primo scontro rimasero disarcionati tre cavalieri; i cinque superstiti, due sfidanti e tre campioni, tornarono alla loro postazione.
A sfidare il Campione che aveva vinto l’avversario si presentò un nuovo sfidante e il secondo attacco ebbe inizio.
La folla, cavalieri e dame seduti sulle panche sistemate nelle tribune e il popolo assiepato lungo la palizzata, incitava i Campioni e gli Sfidanti con urla e lazzi.
I tornei erano gli svaghi preferiti dell’epoca sia da nobili che dal popolo; i primi l’associavano alla caccia ed al banchetto, i secondi agli avanzi dei quello stesso banchetto.
Al secondo attacco il Campione della principessa fu disarcionato. Seguì un grido di disapprovazione unanime, ma ecco che, mentre i cavalieri tornavano al loro posto, un nuovo sfidante si fece avanti: era il bell’ambasciatore longobardo.
Il giovane si fermò davanti alla principessa.
“Sarò il tuo Campione. – disse chinandosi – Combatterò per te in nome di Re Autari.”
Teodolinda si voltò verso il Duca che ebbe un sorriso compiaciuto: se un capitano di Autari mostrava per sua figlia tale rispetto, certo il suo Re avrebbe fatto ancora di più.
Con un cenno del capo acconsentì e Teodolinda porse al suo nuovo Campione i nastri colorati: bianco e rosso rubino.
Il giovane si allontanò e raggiunse il suo cavallo che uno scudiero reggeva per le briglie al limitare del campo.
Pochi attimi dopo raggiunse la sua postazione e il terzo assalto ebbe inizio.
Non ci furono perdenti e il numero dei contendenti rimase a tre contro tre.
Nel quarto assalto il longobardo ebbe ragione dell’avversario e così nel quinto e nel sesto e anche nel settimo.
Al nobile Guadaldo restava solo un ultimo scontro, ma non erano rimasti avversari: c’erano solo lui e l’altro Campione, il figlio del Duca.
Secondo le leggi della Cavalleria la postazione toccava al Campione del Signore di casa, ma la Cavalleria imponeva gesti di cortesia e così il Campione del Duca, che era nche suo figlio, gli cedette il posto e raggiunse la postazione degli sfidanti.
Il gesto fu salutato con uno scroscio di applausi.
Uno squillo di tromba, subito dopo, annunciò l’ultima gara e i due Campioni si lanciarono in avanti a spron battuto; l’urto delle lance, quando si scontrarono, rimbombò nella pianura con suono metallico e tonante.
Le due lance volarono in pezzi e i cavalieri ondeggiarono; parvero sul punto di cadere, ma ripresero l’equilibrio.
I cavalli s’impennarono, ma i Cavalieri ripresero ben presto anche il controllo su di loro.
Uno sguardo, un braccio levato e i due tornarono alle rispettive postazioni.
Nuove lance e nuovo assalto, ma questa volta il cavallo di Gundebaldo, il figlio del Duca, non resistette all’impatto. Si piegò sui garretti, poi cadde rovinosamente assieme al proprio cavaliere.
Il giovane longobardo saltò giù di sella, s’accostò al vinto e lo aiutò a rialzarsi e questi, toltosi l’elmo, gli fece un profondo inchino, dichiarandosi vinto.
Anche Guadaldo si scoprì il capo poi si avvicinò al palco, baciato dai raggi tiepidi del sole morente e chinò il capo biondo davanti alla principessa.
Teodolinda si alzò, discese i cinque gradini e s’accostò al suo Campione.
Guadaldo staccò dal cimiero i nastri colorati per cui s’era battuto e con mani leggermente tremanti li tese alla principessa che rispose con un sorriso.
Guadaldo stava per rialzarsi, ma:
“Aspetta. – lo fermò Teodolinda, sfilandosi un anello dal dito e porgendoglielo con gesro grazioso– Prendi. E’ per ingraziarti.”
Il giovane converse gli occhi in quelli di lei e la guardò così come si guarda un prodigio, poi prese l’anello e prima di infilarselo al dito lo portò alle labbra.
“Grazie a te, principessa. Lo custodirò come la più preziosa delle reliquie.”
La corte era in fermento: un torneo in onore degli ospiti.
Tutto era pronto da giorni nello spiazzo che si stendeva davanti al castello. Il terreno era stato recintato da una palizzata ed a metà del perimetro erano state sistemate alcune tende ornate di pennoni e frange colorate; davanti ad ognuna di loro c’era lo scudo del cavaliere che avrebbe partecipato al torneo.
Uno scudo bianco con bordo colorato di rosso e con al centro un’Aquila Reale, posava davanti alla seconda tenda: era lo scudo di Abelardo, Campione della principessa Teodolinda.
Sul lato opposto erano state sistemate le tribune per gli spettatori; un piccolo palco sopra un poggio era il posto d’onore e vi avevano preso posto il Duca, la principessa Teodolinda e i suoi ospiti longobardi.
Il torneo ebbe inizio.
Per primi entrarono in campo gli araldi i quali spiegarono le modalità della gara. Proclamarono i nomi dei quatto Campioni: Agililulfo, Gundebaldo, Teobaldo e Abelardo, Campione della principessa.
Ogni cavaliere presente poteva lanciare la sfida ai Campioni ed alla fine della giornata, quello tra i cavalieri che avesse spezzato quattro lance, sarebbe stato nominato Campione del Torneo ed avrebbe ricevuto in dono uno splendido cavallo.
I Cavalieri dovevano scegliere i colori della dama a cui volevano dedicare la vittoria, portando sul cimiero i nastri da lei ricevuti.
Ritiratisi gli araldi, entrarono i Cavalieri e la gara ebbe inizio.
I quattro Campioni, armati di tutto punto e chiusi nelle splendide armature, avanzarono nel campo. Giunti sotto il podio si fermarono per rendere omaggio al Duca ed alla principessa poi, al suono di tamburi, raggiunsero la loro postazione nella parte nord del campo. Gli sfidanti, invece, si allontanarono verso la parte sud.
Al segnale delle trombe, cessati i tamburi, i due gruppi mossero l’uno contro l’altro.
Nel primo scontro rimasero disarcionati tre cavalieri; i cinque superstiti, due sfidanti e tre campioni, tornarono alla loro postazione.
A sfidare il Campione che aveva vinto l’avversario si presentò un nuovo sfidante e il secondo attacco ebbe inizio.
La folla, cavalieri e dame seduti sulle panche sistemate nelle tribune e il popolo assiepato lungo la palizzata, incitava i Campioni e gli Sfidanti con urla e lazzi.
I tornei erano gli svaghi preferiti dell’epoca sia da nobili che dal popolo; i primi l’associavano alla caccia ed al banchetto, i secondi agli avanzi dei quello stesso banchetto.
Al secondo attacco il Campione della principessa fu disarcionato. Seguì un grido di disapprovazione unanime, ma ecco che, mentre i cavalieri tornavano al loro posto, un nuovo sfidante si fece avanti: era il bell’ambasciatore longobardo.
Il giovane si fermò davanti alla principessa.
“Sarò il tuo Campione. – disse chinandosi – Combatterò per te in nome di Re Autari.”
Teodolinda si voltò verso il Duca che ebbe un sorriso compiaciuto: se un capitano di Autari mostrava per sua figlia tale rispetto, certo il suo Re avrebbe fatto ancora di più.
Con un cenno del capo acconsentì e Teodolinda porse al suo nuovo Campione i nastri colorati: bianco e rosso rubino.
Il giovane si allontanò e raggiunse il suo cavallo che uno scudiero reggeva per le briglie al limitare del campo.
Pochi attimi dopo raggiunse la sua postazione e il terzo assalto ebbe inizio.
Non ci furono perdenti e il numero dei contendenti rimase a tre contro tre.
Nel quarto assalto il longobardo ebbe ragione dell’avversario e così nel quinto e nel sesto e anche nel settimo.
Al nobile Guadaldo restava solo un ultimo scontro, ma non erano rimasti avversari: c’erano solo lui e l’altro Campione, il figlio del Duca.
Secondo le leggi della Cavalleria la postazione toccava al Campione del Signore di casa, ma la Cavalleria imponeva gesti di cortesia e così il Campione del Duca, che era nche suo figlio, gli cedette il posto e raggiunse la postazione degli sfidanti.
Il gesto fu salutato con uno scroscio di applausi.
Uno squillo di tromba, subito dopo, annunciò l’ultima gara e i due Campioni si lanciarono in avanti a spron battuto; l’urto delle lance, quando si scontrarono, rimbombò nella pianura con suono metallico e tonante.
Le due lance volarono in pezzi e i cavalieri ondeggiarono; parvero sul punto di cadere, ma ripresero l’equilibrio.
I cavalli s’impennarono, ma i Cavalieri ripresero ben presto anche il controllo su di loro.
Uno sguardo, un braccio levato e i due tornarono alle rispettive postazioni.
Nuove lance e nuovo assalto, ma questa volta il cavallo di Gundebaldo, il figlio del Duca, non resistette all’impatto. Si piegò sui garretti, poi cadde rovinosamente assieme al proprio cavaliere.
Il giovane longobardo saltò giù di sella, s’accostò al vinto e lo aiutò a rialzarsi e questi, toltosi l’elmo, gli fece un profondo inchino, dichiarandosi vinto.
Anche Guadaldo si scoprì il capo poi si avvicinò al palco, baciato dai raggi tiepidi del sole morente e chinò il capo biondo davanti alla principessa.
Teodolinda si alzò, discese i cinque gradini e s’accostò al suo Campione.
Guadaldo staccò dal cimiero i nastri colorati per cui s’era battuto e con mani leggermente tremanti li tese alla principessa che rispose con un sorriso.
Guadaldo stava per rialzarsi, ma:
“Aspetta. – lo fermò Teodolinda, sfilandosi un anello dal dito e porgendoglielo con gesro grazioso– Prendi. E’ per ingraziarti.”
Il giovane converse gli occhi in quelli di lei e la guardò così come si guarda un prodigio, poi prese l’anello e prima di infilarselo al dito lo portò alle labbra.
“Grazie a te, principessa. Lo custodirò come la più preziosa delle reliquie.”
Un cigolio di catene, uno scricchiolio di tavolaccio e il ponte levatoio del castello del conte Aldebrandi si abbassò per far passare un gruppo di cavalieri; gli zoccoli dei cavalli rimbombavano nella valle sottostante.
Erano armati di tutto punto, ma a capo scoperto, segno che non era una spedizione militare. Al contrario, c’era un corteo nuziale e quei cavalieri erano di corta: la principessa Teodolinda di Baviera era in viaggio verso la corte longobarda e quella era stata una delle tappe del lungo viaggio.
Viaggiare, a quei tempi era davvero un’impresa faticosa e disagevole.
La carrozza non era stata ancora inventata; si dovrà aspettare il 1.300 e le nozze di Galeazzo Visconte per vederne comparire la prima a Milano.
La principessa era un po’ provata dal lungo viaggio, ma quella sosta aveva giovato molto anche al suo umore, permettendole perfino di tornare in sella al suo cavallo preferito. Ottima amazzone, Teodolinda aveva rifiuto la comodità di una portantina.
Furono in vita delle mura di Pavia dopo qualche ora, ma la vista di quei bastioni la rese assorta e pensierosa.
Guadebaldo, l’amatissimo fratello, che cavalcava al suo fianco, le faceva da accompagnatore. Faceva le veci del Duca suo padre, rimasto a custodire il Regno, come la prudenza suggeriva nel groviglio della situazione politica creatasi con la caduta dell’Impero Romano.
“Sorridi, sorellina. – la incoraggiò, avvedendosi di quel cambiamento d’umore – Presto sarai Regina.”
“Credi che il popolo dei Longobardi accetterà una Regina cattolica?” domandò lei.
“Oh, cara Teodolinda. – le sorrise il fratello – I miei occhi di soldato e di principe vedono le molte differenze che esistono tra i popoli conquistati e i popoli conquistatori… La situazione politica di entrambi, però, suggerisce di annullare qualcuna di queste differenze.”
“Io sono una donna e non mi sono occupata mai di politica.” replicò la principessa.
“Non ancora. – rispose il fratello – Ma presto sarai Regina e dovrai occupatene…. – una breve pausa per un affettuoso sorriso, poi –Dio ti aiuterà a sostenere il difficile ruolo di Regina di un popolo non cattolico.” continuò.
“Non cattolico…. – ripeté la principessa – Già!… Non ancora!” aggiunse.
Le porte di Pavia erano sempre più vicine.
La verde e generosa pianura era interrotta a tratti da brulle colline, ma i pendii erano dolci e sinuosi; d’ un tratto qualcosa attraversò l’aria… come di un suono lontano.
“Ma… non senti anche tu, Gundebaldo? Non senti…”
“Sì, Teodolinda. – la interruppe il fratello – Suono di campane! Campane a festa accolgono la nuova Regina. I tuoi nuovi sudditi ti fanno festa.”
Le mura della città erano ormai vicinissime ed un gruppo di donne e bambini venne fuori di un casolare.
“Dio salvi la Regina.” cominciarono a gridare mentre altre persone sbucavano da ogni parte; ad ogni metro che il suo cavallo guadagnava, altra gente sbucava da ogni dove. Quando le mura della città furono raggiunte, a seguirla c’era una folla.
Sotto le mura il corteo si fermò ed un giovane riccamente vestito si staccò dalla porta principale e le venne incontro. Reggeva l’elmo dall’alto cimiero sotto il braccio in segno di grande deferenza .
“Salute a te, nobile Teodolinda. Sono il principe Ausul e ti do il benvenuto a nome di re Autari, mio fratello. Se vuoi degnarti di seguirmi, ti condurrò fino a Palazzo .” salutò con un profondo inchino, poi con un gesto di perfetta galanteria, prese le briglie del cavallo della principessa e lo guidò verso il castello.
Dall’alto della sella, Teodolinda guardava la bella testa bionda e ricciuta del giovanissimo fratello del suo ormai prossimo sposo, il fisico atletico, le mani guatate ed avvezze alle armi e pensava:
“Questo giovane è fiero e bello… il suo sguardo è leale. Come sarà suo fratello?”
Una domanda che continuò a porsi tutto il giorno ed anche a tavola, la sera, al sontuoso banchetto offerto in onore suo e del suo seguito.
Autari non c’era. L’etichetta gli imponeva di non vedere la sposa prima del momento delle nozze, ma neppure il nobile Guadaldo era presente. Invano i suoi occhi lo cercarono per tutta la sala del convito, infine pensò che fosse rimasto a tener compagnia al suo Re in quella serata per lui solitaria.
A tavola le era stato assegnato il posto d’onore, quello che di solito occupava re Autari.
La tavola era lunghissima ed apparecchiata con coppe, piatti e posate d’oro, coltelli e cucchiai; la forchetta non era ancora d’uso.
La principessa se ne stupì piacevolmente: non si aspettava di trovare tale raffinatezza in una corte barbara.
Il banchetto si protrasse fino a tardi e proseguì ancora dopo che la principessa e le sue dame si furono allontanate; sarebbe terminato solo con la sbornia generale di tutti i commensali, da smaltire nella mattinata del giorno dopo.
Lasciata la sala del banchetto, Teodolinda raggiunse il suo appartamento. L’accompagnava il principe Ausul, che aveva fatto gli onori di casa insieme alle ancelle che l’aspettavano nel corridoio.
Davanti all’uscio della sua camera privata, il principe si fermò, ma prima di accomiatarsi le consegnò un pacchetto.
“Da parte di re Autari, tuo promesso sposo.” disse.
La principessa prese il pacchetto e spinse l’uscio; all’interno c’era ad attenderla la nutrice.
“Piccola mia. –l a donna le si avvicinò, chiamandola, con quella sua vocina così esile ed in contrasto con l’abbondante mole del fisico – Re Autari non è solo un valoroso guerriero, ma anche un uomo assai premuroso… Apri quel pacchetto… su… su…Non vedi che spasimo di curiosità…”
Nel pacchetto c’erano una minuscola chiave d’oro ed un ventaglio.
“C’è qualcosa scritto su questo ventaglio.” osservò la principessa.
“Che cosa aspetti? – la sollecitò la nutrice –Leggi cosa ti manda a dire il tuo sposo.”
Teodolinda lesse.
“Questa è la chiave del mio cuore, mia dolce Teodolinda e solamente tu potrai aprirla perché ne sei la Regina.”
“Che squisito cavaliere è il tuo sposo,mio piccola cerbiatta. – la voce della nutrice era tenera e commossa – Adesso so che sarai felice in questa terra.”
“Ma lui non mi ha mai vista.” replicò la principessa.
“Ti hanno vista i suoi ambasciatori… Ti ha visto il giovane Guadaldo, che avrà intessuto le sue lodi, piccola mia.”
Teodilnda sorrise poi andò a dormire, pensando al suo Campione che, come diceva la nutrice, doveva aver intessuto le sue lodi.
**************
Erano armati di tutto punto, ma a capo scoperto, segno che non era una spedizione militare. Al contrario, c’era un corteo nuziale e quei cavalieri erano di corta: la principessa Teodolinda di Baviera era in viaggio verso la corte longobarda e quella era stata una delle tappe del lungo viaggio.
Viaggiare, a quei tempi era davvero un’impresa faticosa e disagevole.
La carrozza non era stata ancora inventata; si dovrà aspettare il 1.300 e le nozze di Galeazzo Visconte per vederne comparire la prima a Milano.
La principessa era un po’ provata dal lungo viaggio, ma quella sosta aveva giovato molto anche al suo umore, permettendole perfino di tornare in sella al suo cavallo preferito. Ottima amazzone, Teodolinda aveva rifiuto la comodità di una portantina.
Furono in vita delle mura di Pavia dopo qualche ora, ma la vista di quei bastioni la rese assorta e pensierosa.
Guadebaldo, l’amatissimo fratello, che cavalcava al suo fianco, le faceva da accompagnatore. Faceva le veci del Duca suo padre, rimasto a custodire il Regno, come la prudenza suggeriva nel groviglio della situazione politica creatasi con la caduta dell’Impero Romano.
“Sorridi, sorellina. – la incoraggiò, avvedendosi di quel cambiamento d’umore – Presto sarai Regina.”
“Credi che il popolo dei Longobardi accetterà una Regina cattolica?” domandò lei.
“Oh, cara Teodolinda. – le sorrise il fratello – I miei occhi di soldato e di principe vedono le molte differenze che esistono tra i popoli conquistati e i popoli conquistatori… La situazione politica di entrambi, però, suggerisce di annullare qualcuna di queste differenze.”
“Io sono una donna e non mi sono occupata mai di politica.” replicò la principessa.
“Non ancora. – rispose il fratello – Ma presto sarai Regina e dovrai occupatene…. – una breve pausa per un affettuoso sorriso, poi –Dio ti aiuterà a sostenere il difficile ruolo di Regina di un popolo non cattolico.” continuò.
“Non cattolico…. – ripeté la principessa – Già!… Non ancora!” aggiunse.
Le porte di Pavia erano sempre più vicine.
La verde e generosa pianura era interrotta a tratti da brulle colline, ma i pendii erano dolci e sinuosi; d’ un tratto qualcosa attraversò l’aria… come di un suono lontano.
“Ma… non senti anche tu, Gundebaldo? Non senti…”
“Sì, Teodolinda. – la interruppe il fratello – Suono di campane! Campane a festa accolgono la nuova Regina. I tuoi nuovi sudditi ti fanno festa.”
Le mura della città erano ormai vicinissime ed un gruppo di donne e bambini venne fuori di un casolare.
“Dio salvi la Regina.” cominciarono a gridare mentre altre persone sbucavano da ogni parte; ad ogni metro che il suo cavallo guadagnava, altra gente sbucava da ogni dove. Quando le mura della città furono raggiunte, a seguirla c’era una folla.
Sotto le mura il corteo si fermò ed un giovane riccamente vestito si staccò dalla porta principale e le venne incontro. Reggeva l’elmo dall’alto cimiero sotto il braccio in segno di grande deferenza .
“Salute a te, nobile Teodolinda. Sono il principe Ausul e ti do il benvenuto a nome di re Autari, mio fratello. Se vuoi degnarti di seguirmi, ti condurrò fino a Palazzo .” salutò con un profondo inchino, poi con un gesto di perfetta galanteria, prese le briglie del cavallo della principessa e lo guidò verso il castello.
Dall’alto della sella, Teodolinda guardava la bella testa bionda e ricciuta del giovanissimo fratello del suo ormai prossimo sposo, il fisico atletico, le mani guatate ed avvezze alle armi e pensava:
“Questo giovane è fiero e bello… il suo sguardo è leale. Come sarà suo fratello?”
Una domanda che continuò a porsi tutto il giorno ed anche a tavola, la sera, al sontuoso banchetto offerto in onore suo e del suo seguito.
Autari non c’era. L’etichetta gli imponeva di non vedere la sposa prima del momento delle nozze, ma neppure il nobile Guadaldo era presente. Invano i suoi occhi lo cercarono per tutta la sala del convito, infine pensò che fosse rimasto a tener compagnia al suo Re in quella serata per lui solitaria.
A tavola le era stato assegnato il posto d’onore, quello che di solito occupava re Autari.
La tavola era lunghissima ed apparecchiata con coppe, piatti e posate d’oro, coltelli e cucchiai; la forchetta non era ancora d’uso.
La principessa se ne stupì piacevolmente: non si aspettava di trovare tale raffinatezza in una corte barbara.
Il banchetto si protrasse fino a tardi e proseguì ancora dopo che la principessa e le sue dame si furono allontanate; sarebbe terminato solo con la sbornia generale di tutti i commensali, da smaltire nella mattinata del giorno dopo.
Lasciata la sala del banchetto, Teodolinda raggiunse il suo appartamento. L’accompagnava il principe Ausul, che aveva fatto gli onori di casa insieme alle ancelle che l’aspettavano nel corridoio.
Davanti all’uscio della sua camera privata, il principe si fermò, ma prima di accomiatarsi le consegnò un pacchetto.
“Da parte di re Autari, tuo promesso sposo.” disse.
La principessa prese il pacchetto e spinse l’uscio; all’interno c’era ad attenderla la nutrice.
“Piccola mia. –l a donna le si avvicinò, chiamandola, con quella sua vocina così esile ed in contrasto con l’abbondante mole del fisico – Re Autari non è solo un valoroso guerriero, ma anche un uomo assai premuroso… Apri quel pacchetto… su… su…Non vedi che spasimo di curiosità…”
Nel pacchetto c’erano una minuscola chiave d’oro ed un ventaglio.
“C’è qualcosa scritto su questo ventaglio.” osservò la principessa.
“Che cosa aspetti? – la sollecitò la nutrice –Leggi cosa ti manda a dire il tuo sposo.”
Teodolinda lesse.
“Questa è la chiave del mio cuore, mia dolce Teodolinda e solamente tu potrai aprirla perché ne sei la Regina.”
“Che squisito cavaliere è il tuo sposo,mio piccola cerbiatta. – la voce della nutrice era tenera e commossa – Adesso so che sarai felice in questa terra.”
“Ma lui non mi ha mai vista.” replicò la principessa.
“Ti hanno vista i suoi ambasciatori… Ti ha visto il giovane Guadaldo, che avrà intessuto le sue lodi, piccola mia.”
Teodilnda sorrise poi andò a dormire, pensando al suo Campione che, come diceva la nutrice, doveva aver intessuto le sue lodi.
**************
************** La notte era terminata.
L’Aurora mandava giù da cielo un chiarore iridescente e il cielo era di una limpidezza da ferire lo sguardo. Ci si abituava presto, però, ed era bello guardarlo.
La vita a palazzo iniziava presto, ma quel giorno, il giorno delle nozze del Re, iniziò ancor prima. Per alcuni, in verità il riposo non c’era neppure stato.
Anche la sposa, però, si alzò molto presto. Aiutata dalle ancelle si preparò per il grande evento.
Un leggerissimo tocco di rosa sulle guance e un profumo sulla persona e sui capelli… per essi, in verità, molta più cura.
Spazzolati a lungo,, i bei capelli della principessa furono lasciati sciolti sulle spalle e divisi sulla fronte e portati dietro le orecchie.
Fu portato l’abito da sposa e lei lo indossò.
Era di finissima seta bianca stretto in vita e trattenuto da una cintura d’oro; ampio e con ricami in oro sulle maniche e sull’orlo.
Non indossò gioielli, all’infuori di un paio di orecchini con due splendidi diamanti ed in testa un meraviglioso diadema tempestato di preziosi, che facevano parte del suo corredo di sposa.
L’uso longobardo, in verità, era che a fare il “dono del mattino” fosse lo sposo e non la sposa con la sua dote: un omaggio alla donna.
Il corteo lasciò il Palazzo e si diresse verso la Cattedrale.
Le campane suonavano a festa e tutta la città era per strada; tappeti di fiori per terra e fiori che scendevano giù da finestre e balconi sulla portantina della sposa tirata da quattro cavalli bianchi montati da palafrenieri del Re.
Le campane della Cattedrale la accolsero suonando; profumo di fiori ed incenso.
Teodolinda varcò la soglia al braccio del fratello.
Era un po’ pallida.
Entrò nella navata.
Il suono delle campane restò fuori e l’accolse invece un coro celestiale di bambini.
A passo lieve si diresse verso l’altare tra due ali di volti sorridenti.
Sull’altare, di spalle, colui che stava per diventare il suo sposo l’aspettava insieme al prete che doveva celebrare; il cuore le tremava mentre, sempre avanzando, continuava a fissare le sue spalle, la figura salda ed atletica.
Avanzò ancora; solo due o tre metri la separavano da lui ed egli finalmente si voltò.
Teodolinda si arrestò; suo fratello si girà a guardarla.
La principessa fissava come incantata il suo promesso: re Autari, il suo Campione, il generoso cavaliere che si era battuto pe lei, il bell’ambasciatoe longobardo dallo sguardo audace.
Il cuore le batteva così forte nel petto che temette potesse egli sentirne i battiti; l’emozione la fece impallidire, arrossire e impallidire ancora.
Lo sguardo seguiva trepidante la figura di lui che si staccava dall’altare e veniva verso di lei, sorridente ed innamorato: Sentì le sue mani, forti e protettive, prendere le sue ed un brivido intenso le attraversò la schiena.
Le campane suonarono ancora, ma solo dentro di lei.
“Tu!” disse semplicemente.
L’Aurora mandava giù da cielo un chiarore iridescente e il cielo era di una limpidezza da ferire lo sguardo. Ci si abituava presto, però, ed era bello guardarlo.
La vita a palazzo iniziava presto, ma quel giorno, il giorno delle nozze del Re, iniziò ancor prima. Per alcuni, in verità il riposo non c’era neppure stato.
Anche la sposa, però, si alzò molto presto. Aiutata dalle ancelle si preparò per il grande evento.
Un leggerissimo tocco di rosa sulle guance e un profumo sulla persona e sui capelli… per essi, in verità, molta più cura.
Spazzolati a lungo,, i bei capelli della principessa furono lasciati sciolti sulle spalle e divisi sulla fronte e portati dietro le orecchie.
Fu portato l’abito da sposa e lei lo indossò.
Era di finissima seta bianca stretto in vita e trattenuto da una cintura d’oro; ampio e con ricami in oro sulle maniche e sull’orlo.
Non indossò gioielli, all’infuori di un paio di orecchini con due splendidi diamanti ed in testa un meraviglioso diadema tempestato di preziosi, che facevano parte del suo corredo di sposa.
L’uso longobardo, in verità, era che a fare il “dono del mattino” fosse lo sposo e non la sposa con la sua dote: un omaggio alla donna.
Il corteo lasciò il Palazzo e si diresse verso la Cattedrale.
Le campane suonavano a festa e tutta la città era per strada; tappeti di fiori per terra e fiori che scendevano giù da finestre e balconi sulla portantina della sposa tirata da quattro cavalli bianchi montati da palafrenieri del Re.
Le campane della Cattedrale la accolsero suonando; profumo di fiori ed incenso.
Teodolinda varcò la soglia al braccio del fratello.
Era un po’ pallida.
Entrò nella navata.
Il suono delle campane restò fuori e l’accolse invece un coro celestiale di bambini.
A passo lieve si diresse verso l’altare tra due ali di volti sorridenti.
Sull’altare, di spalle, colui che stava per diventare il suo sposo l’aspettava insieme al prete che doveva celebrare; il cuore le tremava mentre, sempre avanzando, continuava a fissare le sue spalle, la figura salda ed atletica.
Avanzò ancora; solo due o tre metri la separavano da lui ed egli finalmente si voltò.
Teodolinda si arrestò; suo fratello si girà a guardarla.
La principessa fissava come incantata il suo promesso: re Autari, il suo Campione, il generoso cavaliere che si era battuto pe lei, il bell’ambasciatoe longobardo dallo sguardo audace.
Il cuore le batteva così forte nel petto che temette potesse egli sentirne i battiti; l’emozione la fece impallidire, arrossire e impallidire ancora.
Lo sguardo seguiva trepidante la figura di lui che si staccava dall’altare e veniva verso di lei, sorridente ed innamorato: Sentì le sue mani, forti e protettive, prendere le sue ed un brivido intenso le attraversò la schiena.
Le campane suonarono ancora, ma solo dentro di lei.
“Tu!” disse semplicemente.
L'Amore e l'Estasi
L'AMORE e L'ESTASI
(illustrazione di Manuel Lance)
Si allontanarono verso l'interno
della casa, la mente ancora occupata dal pensiero della sorte della liberta di
Nerone, ma con nuove prospettive di gioia e felicità. Si ritrovarono da soli e
Lucilla, coperta unicamente dallo sguardo innamorato di Marco.
Il giovane le si avvicinò piano.
Lentamente. Assaporando l'attimo meravigliosamente prossimo di un frutto da
cogliere. La guardava con tutta la sessualità accesa, l'olfatto eccitato:
l'aveva desiderata fisicamente fin dal loro primo incontro sul Palatino. Un desiderio che lo aveva quasi ossessionato e spinto altrove: un desid erio maisoddisfatto con alcuna altra donna, però. Un desiderio sempre più potente. Piùdi ogni altra sensazione ed eguagliato solamente dall'amore che, per lui, era sfaccettatura dello stesso sentimento.
Anche lei lo guardava. A piedi nudi, le mani tremanti che reggevano un telo di lino e con dentro gli occhi
qualcosa che Marco non capiva. Le fu vicino. Lei continuava a fissarlo con "quello" sguardo. Lui continuò ad accarezzarle le spalle nude poi le cinse la schiena; il desiderio gli premeva dentro prepotente.
Lucilla si sollevò sulla punta dei piedi; con un braccio gli circondò il collo e con l'altro continuò a reggere il lembo del telo che copriva ormai così poco del suo corpo, ma nascondeva tutto il suo pudore che brillava intenso, rannicchiato negli occhi azzurri; Marco tremava d'emozione, mentre si chinava a cercare quella curva eccitante; l'anima e i sensi, imprigionati dall'odore di lei.
"Marco, io.." cominciò lei con le palpebre abbassate.
Marco comprese.
"Hai paura? - domandò - No!... Non devi averne, tesoro mio. L'amore è una cosa dolcissima!" la rassicurò rituffandosi nel suo sguardo e prendendo possesso dei suoi sensi e del suo pudore. Abbassò il capo e la bocca affondò ghiotta sulla nuca e sul capo; il
telo scivolò a terra; il tripode, poco discosto, ardeva crepitando. Con le mani la percorse: la schiena, i fianchi, la vita. Si insinuò tra curve e pieghe.
Lentamente. Leggermente. Dolcemente.
Lei sentiva liquido fuoco vivo attraversarla tutta e l'eccitazione consumarla: il contatto con la diversità di lui. Così dura. Così terrificantemente eccitante. Poi la bocca di lui, che scivolava lungo il collo, la gola per fermarsi sul seno: "Oh!..." gemette.
Vinto da quella resa voluttuosa e dall'ardore del proprio temperamento, Marco piegò un ginocchio e la trascinò a
terra con sé; con l'altro ginocchio, piegato, la sostenne; il soffio ansante delle sue labbra sfiorava i capelli di lei.
Lucilla cercò di trattenere gli ultimi brandelli di pudore, ma lui sorrise con inusitata dolcezza in tanta
eccitazione. Prese la mano di lei e ne guidò le dita tremanti sotto la tunica slacciata. La pelle eccitata fremette. La bocca, sempre affondata nella dolcissima curva tra collo e spalla, impazzì di piacere. Premette più forte.
Un brivido percorse Lucilla. Così profondo da darle la sensazione di perdere conoscenza e vacillare. La sua mano
smise di carezzarlo; le dita si contrassero, le unghia quasi si conficcarono nella schiena di lui. Si accorse di essere distesa per terra, al bordo del letto. Supina.
Marco, a torso nudo, era sopra di lei. La tunica di lui era per terra accanto al suo telo di lino, ma lei ne vedeva solo un lembo, segmentato di rosso. Vedeva l'aria rilucere del riflesso del tripode e il bel volto di lui trasfigurato dall'eccitazione e dalla passione. Chiuse gli occhi e sentì le labbra di lui che cercavano la sua bocca; le sue mani continuavano a percorrerla. Rispose al bacio.
Nuovamente Marco prese la sua mano per guidarla su di sè. Nuovamente lei fremette, mentre imparava a conoscere quel corpo che amava e in cui era concentrato tutto il mondo, che andava scomparendo intorno a lei: sempre più piccolo e stretto, fino a ridursi
a quel solo essere adorato. Le pareva, mentre con le dita scorreva e scopriva la pelle eccitata di lui, i rigonfiamenti, i muscoli, gli incavi, di conoscerlo già: quante volte aveva accarezzato quel corpo facendo l'amore con lui con la fantasia.
Un'altalena di emozioni, un groviglio di sensazioni che elevava e inabissava e i respiri ora corti, ora lunghi. Pian piano i respiri si fecero calmi, placidi. Fino a scivolare all'unisono lungo un tempo immobile. Come trasognata, Lucilla sentiva il capo di lui fremere contro la sua spalla, il suo petto ansante, le sue mani sulle gambe. E Marco sentiva le braccia di lei intorno al busto, le gambe avvinghiate alle sue, le dita accarezzargli dolcemente la schiena. Ancora cercò le labbra di lei, poi, quando le labbra la lasciarono per
saziarsi altrove, le vide reclinare il capo dolcemente di lato. Completamente arresa. Completamente abbandonata. Completamente rilassata. Rilassati i muscoli delle gambe, rilassato il grembo, rilassata la pelle intorno all'inguine.
Un dolore acuto le strappò un gemito, poi una sensazione di sconfinato piacere che mutò in eccitato languore i gemiti di dolore e che la trasportò in alto, verso vette sconosciute e immacolate, in un tempo immobile, insieme a lui, in dimensione irreale e magica.
Giacquero, l'una sull'altro, per riemergere storditi e appagati.
(continua)
tratto dal libro LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses di Maria Pace
di prossima pubblicazione
(illustrazione di Manuel Lance)
Si allontanarono verso l'interno
della casa, la mente ancora occupata dal pensiero della sorte della liberta di
Nerone, ma con nuove prospettive di gioia e felicità. Si ritrovarono da soli e
Lucilla, coperta unicamente dallo sguardo innamorato di Marco.
Il giovane le si avvicinò piano.
Lentamente. Assaporando l'attimo meravigliosamente prossimo di un frutto da
cogliere. La guardava con tutta la sessualità accesa, l'olfatto eccitato:
l'aveva desiderata fisicamente fin dal loro primo incontro sul Palatino. Un desiderio che lo aveva quasi ossessionato e spinto altrove: un desid erio maisoddisfatto con alcuna altra donna, però. Un desiderio sempre più potente. Piùdi ogni altra sensazione ed eguagliato solamente dall'amore che, per lui, era sfaccettatura dello stesso sentimento.
Anche lei lo guardava. A piedi nudi, le mani tremanti che reggevano un telo di lino e con dentro gli occhi
qualcosa che Marco non capiva. Le fu vicino. Lei continuava a fissarlo con "quello" sguardo. Lui continuò ad accarezzarle le spalle nude poi le cinse la schiena; il desiderio gli premeva dentro prepotente.
Lucilla si sollevò sulla punta dei piedi; con un braccio gli circondò il collo e con l'altro continuò a reggere il lembo del telo che copriva ormai così poco del suo corpo, ma nascondeva tutto il suo pudore che brillava intenso, rannicchiato negli occhi azzurri; Marco tremava d'emozione, mentre si chinava a cercare quella curva eccitante; l'anima e i sensi, imprigionati dall'odore di lei.
"Marco, io.." cominciò lei con le palpebre abbassate.
Marco comprese.
"Hai paura? - domandò - No!... Non devi averne, tesoro mio. L'amore è una cosa dolcissima!" la rassicurò rituffandosi nel suo sguardo e prendendo possesso dei suoi sensi e del suo pudore. Abbassò il capo e la bocca affondò ghiotta sulla nuca e sul capo; il
telo scivolò a terra; il tripode, poco discosto, ardeva crepitando. Con le mani la percorse: la schiena, i fianchi, la vita. Si insinuò tra curve e pieghe.
Lentamente. Leggermente. Dolcemente.
Lei sentiva liquido fuoco vivo attraversarla tutta e l'eccitazione consumarla: il contatto con la diversità di lui. Così dura. Così terrificantemente eccitante. Poi la bocca di lui, che scivolava lungo il collo, la gola per fermarsi sul seno: "Oh!..." gemette.
Vinto da quella resa voluttuosa e dall'ardore del proprio temperamento, Marco piegò un ginocchio e la trascinò a
terra con sé; con l'altro ginocchio, piegato, la sostenne; il soffio ansante delle sue labbra sfiorava i capelli di lei.
Lucilla cercò di trattenere gli ultimi brandelli di pudore, ma lui sorrise con inusitata dolcezza in tanta
eccitazione. Prese la mano di lei e ne guidò le dita tremanti sotto la tunica slacciata. La pelle eccitata fremette. La bocca, sempre affondata nella dolcissima curva tra collo e spalla, impazzì di piacere. Premette più forte.
Un brivido percorse Lucilla. Così profondo da darle la sensazione di perdere conoscenza e vacillare. La sua mano
smise di carezzarlo; le dita si contrassero, le unghia quasi si conficcarono nella schiena di lui. Si accorse di essere distesa per terra, al bordo del letto. Supina.
Marco, a torso nudo, era sopra di lei. La tunica di lui era per terra accanto al suo telo di lino, ma lei ne vedeva solo un lembo, segmentato di rosso. Vedeva l'aria rilucere del riflesso del tripode e il bel volto di lui trasfigurato dall'eccitazione e dalla passione. Chiuse gli occhi e sentì le labbra di lui che cercavano la sua bocca; le sue mani continuavano a percorrerla. Rispose al bacio.
Nuovamente Marco prese la sua mano per guidarla su di sè. Nuovamente lei fremette, mentre imparava a conoscere quel corpo che amava e in cui era concentrato tutto il mondo, che andava scomparendo intorno a lei: sempre più piccolo e stretto, fino a ridursi
a quel solo essere adorato. Le pareva, mentre con le dita scorreva e scopriva la pelle eccitata di lui, i rigonfiamenti, i muscoli, gli incavi, di conoscerlo già: quante volte aveva accarezzato quel corpo facendo l'amore con lui con la fantasia.
Un'altalena di emozioni, un groviglio di sensazioni che elevava e inabissava e i respiri ora corti, ora lunghi. Pian piano i respiri si fecero calmi, placidi. Fino a scivolare all'unisono lungo un tempo immobile. Come trasognata, Lucilla sentiva il capo di lui fremere contro la sua spalla, il suo petto ansante, le sue mani sulle gambe. E Marco sentiva le braccia di lei intorno al busto, le gambe avvinghiate alle sue, le dita accarezzargli dolcemente la schiena. Ancora cercò le labbra di lei, poi, quando le labbra la lasciarono per
saziarsi altrove, le vide reclinare il capo dolcemente di lato. Completamente arresa. Completamente abbandonata. Completamente rilassata. Rilassati i muscoli delle gambe, rilassato il grembo, rilassata la pelle intorno all'inguine.
Un dolore acuto le strappò un gemito, poi una sensazione di sconfinato piacere che mutò in eccitato languore i gemiti di dolore e che la trasportò in alto, verso vette sconosciute e immacolate, in un tempo immobile, insieme a lui, in dimensione irreale e magica.
Giacquero, l'una sull'altro, per riemergere storditi e appagati.
(continua)
tratto dal libro LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses di Maria Pace
di prossima pubblicazione
La Gelosia
La principessa Jasmine si ristabilì presto; tre giorni dopo si sentiva già abbastanza in forze. Seduta sulla sponda del letto, si teneva le ginocchia con le dita delle mani intrecciate; la spalla le doleva ancora.
Si girò, due o tre volte, per guardarsi intorno: il letto di Rashid. Grande, largo, basso. L'aveva accolta tra le coltri calde, tranquille e sicure per ben tre giorni e tre notti.
Il letto di Rashid. Immenso e soffice, dove lui consumava le sue notti d'amore e di passione con altre donne, avvolto in quella stessa grande coperta di broccato amaranto.
Chiuse gli occhi e quasi di sorpresa l'assalì il pianto, quel bisogno antico sollecitato dal dolore, quel privilegio quasi del tutto femminile che doleva come una ferita fisica. Poteva "vederlo", il suo Rashid, disteso accanto "all'altra", avvinghiato in spasmi di passione, in una fusione di respiri ansanti, soffocati dall'intensità del piacere.... all'altra... a Selima... A Selima, a cui lui prestava fede più che a lei... d'un tratto la sua voce, come evocata dai suoi pensieri:
"Jasmine, amore mio. Sono felice di vederti seduta e non distesa nel letto. Letizia, qui fuori, mi ha detto che stavi riposando."
Jasmine trasalì; era di spalle e non lo aveva visto né sentito entrare. Non si voltò, ma lasciò scivolare in avanti le gambe.
Non indossava più la veste da notte, ma un'ampia tunica color sabbia ricamata in oro che le lasciava scoperte solamente le braccia. Era stata la piccola Agar, la figlia minore di Alina, ad aiutarla a vestirsi. Agar in quei tre giorni non l'aveva lasciata mai sola un istante per farsi raccontare favole d'amore; la sua voce, adesso, proveniva da fuori squillante ed allegra.
Rashid avanzò a passi lenti; raggiunse l'immenso letto e lo aggirò. Immobile, Jasmine si calò sul bellissimo volto il velo di seta blu e nascose il rossore di quei pensieri.
Rashid l'aveva raggiunta.
"Non farlo." le sorrise.
Quante volte aveva ripetuto quella frase.
"Non farlo." ripeté, prendendo tra le sue entrambe le mani di lei che stringevano i lembi del velo, ma questa volta lei si liberò della stretta e si sistemò il velo sul capo.
"E' sconveniente che io mostri il volto ad occhi maschili. - disse, sottraendogli la visione del bel volto in fiamme e concedendogli solo l'emozione dei suoi occhi verdi - Come è sconveniente che io continui a dormire nel tuo letto, Rashid. - lui fece l'atto di replicare, ma lei lo prevenne - Sei stato molto generoso, Rashid, ad ospitarmi qui, ma è ora che io torni sotto la mia tenda - ." aggiunse in tono che non ammetteva repliche.
E Rashid non ne fece. Non subito, ma tese un piccolo cesto di datteri.
"E' un regalo di pace da parte di Selima. - disse con un sorriso conciliante - Dice di essere mortificata per tutta questa situazione e che vuole chiarirsi con te." aggiunse sedendo sul letto accanto a lei.
"Sei stato da lei? - domandò Jasmine con voce incolore ed a testa bassa, mentre un lampo le attraversava lo sguardo, poi, mutando di tono - Lo voglio anch'io! - mentì - Rassicurala... Rassicura Selima... quel giorno vaneggiavo.... L'hai detto anche tu che vaneggiavo..."
Mentiva, con quell'accento persuasivo, soavemente ingannevole, dolcemente remissivo. Aveva imparato a mentire in quei tre giorni trascorsi nella languidezza abusiva di quel letto su cui adesso erano seduti entrambi, ma che custodiva tracce di altri corpi femminili... di Selima.
Aveva imparato a mentire per nascondersi e non mostrarsi ferita agli occhi di lui. Aveva imparato a mentire perché tutte le sue difese erano concentrate nell'istinto che l'aveva sempre protetta e l'istinto ora le suggeriva di mentire, mentre inquietudine e gelosia le contraevano la carne e arrivavano ovunque, passando attraverso lo sguardo.
Aveva imparato a mentire e Rashid ne era dolorosamente consapevole.
Il suo sguardo, però, non mentiva, né mentiva il sorriso, triste e privo di quegli angoli ai lati degli occhi. Ed erano solo quelli, di tutta la persona, che lei gli concesse di guardare: perfino la bocca, colorata come un fiore di melograno e anche il naso che si levava elegante e curvo, lei gli aveva sottratto alla vista.
Lei fingeva di credergli, fingeva di adattarsi alle sue congetture e lui ne era consapevole, mortificato e addolorato: lei lo faceva con dolcezza soave, ma con dolorosa certezza e lui si sentiva colpevole, ma non sapeva spiegarsi di quale colpa. Colpevole e basta!
Il giovane si alzò; posò un ginocchio a terra davanti a lei e con gesti delicati e pieni d'amore le prese tra le mani il volto velato, sfiorandone i contorni con trepida dolcezza.
"Jasmine, mia adorata, vuoi diventare la mia sposa?" proruppe, mentre le dita scivolavano con dolce lentezza sulle sopracciglia frementi, le ciglia abbassate e le labbra tremanti; il velo era bagnato di lacrime.
Un fremito, però, gli contrasse la carne: Jasmine scuoteva il capo in segno di diniego.
"Jasmine, mio tesoro..."
Rashid era sinceramente stupito; si aspettava fremiti, aneliti, slanci di gioia e invece lei lo respingeva.
"Se me lo avessi chiesto prima... - la udì sussurrare - Non oggi... Non oggi, Rashid!"
"Ma perché? Perché, Jasmine, mia adorata?"
"Troppe ombre tra noi, Rashid."
"Ma io ti amo, Jasmine, Luce degli Occhi miei! Io non ho altro desiderio che svegliarmi al mattino con te tra le braccia."
"No! - lei continuava a scuotere il capo - Non oggi, amore mio. Non oggi, sull'onda di tante emozioni... Non sulla spinta di tante emozioni."
"Tu.. tu credi, amore mio, che la mia richiesta sia dettata dall'emotività di questi eventi?... Oh, Jasmine..." proruppe il grande predone, affondando il capo nel grembo caldo e soffice di lei e circondandole la vita con le braccia.
"Chiedimelo ancora, Rashid, se mi ami... Ma non oggi. Non oggi." gli sussurrò lei, chinando il capo fino a sfiorare quello di lui e ponendovi le labbra, poi gli scompigliò i capelli neri, folti e ricci, così come si fa con un bambino che vuol essere consolato dalla sua piccola grande pena; glieli accarezzò a lungo, con movimenti dolcissimi e lenti e di infinita tenerezza.
Il rais sollevò il capo; afferrò entrambe le mani di lei e se le portò alle labbra tremando: lui, l'uomo davanti a cui, eccetto la Natura, tutti chinavano il capo.
"Se è la presenza di Selima a impedirti di essere felice, amore mio, io la rimando oggi stesso alla sua gente. E allontanerò da questa casa ogni altra donna che risultasse non gradita alla mia principessa." disse alzandosi e tornando a sederle accanto.
Con gesti di infinita tenerezza le tolse il velo, che posò alle loro spalle e le sciolse i capelli che Jasmine aveva legato sulla sommità del capo; lei lo lasciò fare e si lasciò attirare nell'incavo delle sue braccia forti e protettive.
"Non è questo che voglio.... ma, se Allah... - disse, infine, sollevando su di lui gli occhi verdi in cui un'ombra navigava veloce - ... se Allah ti ha concesso l'amore di altre donne, io vorrei che non ci fossero ombre..."
"Oh, Jasmine! Nessuna donna all'infuori di te!" la interruppe lui con enfasi attirandola a sé con quella dolce violenza con cui lei lo immaginava impegnato con altre donne e la baciò con dolce passione. Un bacio tenero e indugiante. Sensuale. Che suscitò furiosa eccitazione e spasmi impetuosi in lui ed inconfessati desideri in lei.
"Letizia ha ragione, dunque!" sussurrò come trasognata, Jasmine, bruciata da quel liquido fuoco vivo che le scorreva nelle vene e dentro le ossa, alimentato dalle mani di lui che la cercavano e la percorrevano.
"Che cosa dice Letizia?" mormorò Rashid, quasi distrattamente e con le labbra chiuse intorno all'orecchio di lei che spuntava come una rosea conchiglia tra i capelli.
"Che un uomo innamorato sa trovare nella donna che ama, tutte le qualità che Allah ha distribuito in tutte le altre donne!"
"Sì! Letizia ha ragione!" assentì lui e si disse che un uomo davvero innamorato avrebbe desiderato la sua donna anche dopo averla appena posseduta. Si disse che lui, ogni volta, posseduta una donna, mai pago e sempre insoddisfatto, non aveva mai desiderato di trattenerla e che aveva provato sempre un senso di sollievo, dopo, a vederla scivolar via dal suo letto.
Quella sua abilità erotica, si disse, quella capacità di trarre piacere senza coinvolgimenti emotivi, non valevano per la sua Jasmine: lei lo appagava soltanto guardandolo negli occhi.
Le labbra lasciarono l'orecchio per cercare il mento e poi la gola e tornare ancora alle guance, alle palpebre e fermarsi alla bocca.
"Resta, Jasmine." pregò.
Ma lei non restò.
(brano tratto dal romanzo "IL RAIS- Fiamme sul deserto" ... prossimamente
Si girò, due o tre volte, per guardarsi intorno: il letto di Rashid. Grande, largo, basso. L'aveva accolta tra le coltri calde, tranquille e sicure per ben tre giorni e tre notti.
Il letto di Rashid. Immenso e soffice, dove lui consumava le sue notti d'amore e di passione con altre donne, avvolto in quella stessa grande coperta di broccato amaranto.
Chiuse gli occhi e quasi di sorpresa l'assalì il pianto, quel bisogno antico sollecitato dal dolore, quel privilegio quasi del tutto femminile che doleva come una ferita fisica. Poteva "vederlo", il suo Rashid, disteso accanto "all'altra", avvinghiato in spasmi di passione, in una fusione di respiri ansanti, soffocati dall'intensità del piacere.... all'altra... a Selima... A Selima, a cui lui prestava fede più che a lei... d'un tratto la sua voce, come evocata dai suoi pensieri:
"Jasmine, amore mio. Sono felice di vederti seduta e non distesa nel letto. Letizia, qui fuori, mi ha detto che stavi riposando."
Jasmine trasalì; era di spalle e non lo aveva visto né sentito entrare. Non si voltò, ma lasciò scivolare in avanti le gambe.
Non indossava più la veste da notte, ma un'ampia tunica color sabbia ricamata in oro che le lasciava scoperte solamente le braccia. Era stata la piccola Agar, la figlia minore di Alina, ad aiutarla a vestirsi. Agar in quei tre giorni non l'aveva lasciata mai sola un istante per farsi raccontare favole d'amore; la sua voce, adesso, proveniva da fuori squillante ed allegra.
Rashid avanzò a passi lenti; raggiunse l'immenso letto e lo aggirò. Immobile, Jasmine si calò sul bellissimo volto il velo di seta blu e nascose il rossore di quei pensieri.
Rashid l'aveva raggiunta.
"Non farlo." le sorrise.
Quante volte aveva ripetuto quella frase.
"Non farlo." ripeté, prendendo tra le sue entrambe le mani di lei che stringevano i lembi del velo, ma questa volta lei si liberò della stretta e si sistemò il velo sul capo.
"E' sconveniente che io mostri il volto ad occhi maschili. - disse, sottraendogli la visione del bel volto in fiamme e concedendogli solo l'emozione dei suoi occhi verdi - Come è sconveniente che io continui a dormire nel tuo letto, Rashid. - lui fece l'atto di replicare, ma lei lo prevenne - Sei stato molto generoso, Rashid, ad ospitarmi qui, ma è ora che io torni sotto la mia tenda - ." aggiunse in tono che non ammetteva repliche.
E Rashid non ne fece. Non subito, ma tese un piccolo cesto di datteri.
"E' un regalo di pace da parte di Selima. - disse con un sorriso conciliante - Dice di essere mortificata per tutta questa situazione e che vuole chiarirsi con te." aggiunse sedendo sul letto accanto a lei.
"Sei stato da lei? - domandò Jasmine con voce incolore ed a testa bassa, mentre un lampo le attraversava lo sguardo, poi, mutando di tono - Lo voglio anch'io! - mentì - Rassicurala... Rassicura Selima... quel giorno vaneggiavo.... L'hai detto anche tu che vaneggiavo..."
Mentiva, con quell'accento persuasivo, soavemente ingannevole, dolcemente remissivo. Aveva imparato a mentire in quei tre giorni trascorsi nella languidezza abusiva di quel letto su cui adesso erano seduti entrambi, ma che custodiva tracce di altri corpi femminili... di Selima.
Aveva imparato a mentire per nascondersi e non mostrarsi ferita agli occhi di lui. Aveva imparato a mentire perché tutte le sue difese erano concentrate nell'istinto che l'aveva sempre protetta e l'istinto ora le suggeriva di mentire, mentre inquietudine e gelosia le contraevano la carne e arrivavano ovunque, passando attraverso lo sguardo.
Aveva imparato a mentire e Rashid ne era dolorosamente consapevole.
Il suo sguardo, però, non mentiva, né mentiva il sorriso, triste e privo di quegli angoli ai lati degli occhi. Ed erano solo quelli, di tutta la persona, che lei gli concesse di guardare: perfino la bocca, colorata come un fiore di melograno e anche il naso che si levava elegante e curvo, lei gli aveva sottratto alla vista.
Lei fingeva di credergli, fingeva di adattarsi alle sue congetture e lui ne era consapevole, mortificato e addolorato: lei lo faceva con dolcezza soave, ma con dolorosa certezza e lui si sentiva colpevole, ma non sapeva spiegarsi di quale colpa. Colpevole e basta!
Il giovane si alzò; posò un ginocchio a terra davanti a lei e con gesti delicati e pieni d'amore le prese tra le mani il volto velato, sfiorandone i contorni con trepida dolcezza.
"Jasmine, mia adorata, vuoi diventare la mia sposa?" proruppe, mentre le dita scivolavano con dolce lentezza sulle sopracciglia frementi, le ciglia abbassate e le labbra tremanti; il velo era bagnato di lacrime.
Un fremito, però, gli contrasse la carne: Jasmine scuoteva il capo in segno di diniego.
"Jasmine, mio tesoro..."
Rashid era sinceramente stupito; si aspettava fremiti, aneliti, slanci di gioia e invece lei lo respingeva.
"Se me lo avessi chiesto prima... - la udì sussurrare - Non oggi... Non oggi, Rashid!"
"Ma perché? Perché, Jasmine, mia adorata?"
"Troppe ombre tra noi, Rashid."
"Ma io ti amo, Jasmine, Luce degli Occhi miei! Io non ho altro desiderio che svegliarmi al mattino con te tra le braccia."
"No! - lei continuava a scuotere il capo - Non oggi, amore mio. Non oggi, sull'onda di tante emozioni... Non sulla spinta di tante emozioni."
"Tu.. tu credi, amore mio, che la mia richiesta sia dettata dall'emotività di questi eventi?... Oh, Jasmine..." proruppe il grande predone, affondando il capo nel grembo caldo e soffice di lei e circondandole la vita con le braccia.
"Chiedimelo ancora, Rashid, se mi ami... Ma non oggi. Non oggi." gli sussurrò lei, chinando il capo fino a sfiorare quello di lui e ponendovi le labbra, poi gli scompigliò i capelli neri, folti e ricci, così come si fa con un bambino che vuol essere consolato dalla sua piccola grande pena; glieli accarezzò a lungo, con movimenti dolcissimi e lenti e di infinita tenerezza.
Il rais sollevò il capo; afferrò entrambe le mani di lei e se le portò alle labbra tremando: lui, l'uomo davanti a cui, eccetto la Natura, tutti chinavano il capo.
"Se è la presenza di Selima a impedirti di essere felice, amore mio, io la rimando oggi stesso alla sua gente. E allontanerò da questa casa ogni altra donna che risultasse non gradita alla mia principessa." disse alzandosi e tornando a sederle accanto.
Con gesti di infinita tenerezza le tolse il velo, che posò alle loro spalle e le sciolse i capelli che Jasmine aveva legato sulla sommità del capo; lei lo lasciò fare e si lasciò attirare nell'incavo delle sue braccia forti e protettive.
"Non è questo che voglio.... ma, se Allah... - disse, infine, sollevando su di lui gli occhi verdi in cui un'ombra navigava veloce - ... se Allah ti ha concesso l'amore di altre donne, io vorrei che non ci fossero ombre..."
"Oh, Jasmine! Nessuna donna all'infuori di te!" la interruppe lui con enfasi attirandola a sé con quella dolce violenza con cui lei lo immaginava impegnato con altre donne e la baciò con dolce passione. Un bacio tenero e indugiante. Sensuale. Che suscitò furiosa eccitazione e spasmi impetuosi in lui ed inconfessati desideri in lei.
"Letizia ha ragione, dunque!" sussurrò come trasognata, Jasmine, bruciata da quel liquido fuoco vivo che le scorreva nelle vene e dentro le ossa, alimentato dalle mani di lui che la cercavano e la percorrevano.
"Che cosa dice Letizia?" mormorò Rashid, quasi distrattamente e con le labbra chiuse intorno all'orecchio di lei che spuntava come una rosea conchiglia tra i capelli.
"Che un uomo innamorato sa trovare nella donna che ama, tutte le qualità che Allah ha distribuito in tutte le altre donne!"
"Sì! Letizia ha ragione!" assentì lui e si disse che un uomo davvero innamorato avrebbe desiderato la sua donna anche dopo averla appena posseduta. Si disse che lui, ogni volta, posseduta una donna, mai pago e sempre insoddisfatto, non aveva mai desiderato di trattenerla e che aveva provato sempre un senso di sollievo, dopo, a vederla scivolar via dal suo letto.
Quella sua abilità erotica, si disse, quella capacità di trarre piacere senza coinvolgimenti emotivi, non valevano per la sua Jasmine: lei lo appagava soltanto guardandolo negli occhi.
Le labbra lasciarono l'orecchio per cercare il mento e poi la gola e tornare ancora alle guance, alle palpebre e fermarsi alla bocca.
"Resta, Jasmine." pregò.
Ma lei non restò.
(brano tratto dal romanzo "IL RAIS- Fiamme sul deserto" ... prossimamente
L'AMORE.... ARRUFFATO
... Marco e Lucio sedettero al tavolo vicino alle scale e Lucio esordì:
"E' vero che qui si serve dell'ottimo cinghiale alla salsa di pinoli?"
L'oste si avvicinò al tavolo. La sua faccia, larga, rubiconda e piatta, si distese in uno sfolgorante sorriso.
Grasso e massiccio, tanto da doversi girare di lato per circolare tra i tavoli, era una montagna di carne portata con allegra disinvoltura. Odorava di vino, olio e sudore.
"E' quello che sto aspettando da un pezzo anch'io.- esordì qualcuno seduto a un tavolo vicino - Forse quel cinghiale non è stato ancora cacciato!... Salute, tribuno Marco Valerio e anche a te che non conosco, legionario!"
Marco si voltò a guardarlo.
Labbra grosse, volto rubicondo, occhio appannato, indice di un trasporto per il Falerno, l'uomo aveva ancora il braccio levato in atto di saluto.
"Salute a te, Lacone!" rispose Marco, intanto che la ostessa, lasciato il bancone, si avvicinava premurosa.
"La buona cucina vuole il suo tempo! - disse la donna - Per gustare il "cinghiale alla salsa di pinoli" di Arrunzia Claudia non bisogna avere premura. Perciò, torna ai tuoi dadi e aspetta."
Arrunzia Claudia. La chiamavano così, per via del suo passo claudicante, ma avrebbero potuto bene affibbiarle anche il soprannome di Arrunzia Crassa, tanto era grossa e massiccia, o Arrunzia Russa, tanto la sua chioma era fiammeggiante.
Il suo aspetto richiamava più quello di un atleta che di una donna; più simile a Ercole che a Diana. Ad azzopparla era stata l'incornata di un toro nella villa rustica di un patrizio, dove era stata condotta schiava dalla Siria e dove, proprio per quel suo aspetto insolito per una donna, era stata respinta e dileggiata. Perfino al mercato degli schiavi, dove il padrone aveva finito per metterla in vendita, era stata disdegnata quasi da tutti.
Quasi da tutti, ma non da tutti.
Non da Metrobio, che aveva visto in quell'Ercole al femminile, dalle spalle quadrate, le braccia muscolose e lo sguardo mansueto come quello di un bove, un ottimo investimento per sé e per l'attività che intendeva aprire.
Metrobio era di quelli che non disdegnavano il lavoro e a Roma quella dell'oste era una delle attività più remunerative per chi avesse avuto voglia di lavorare e fosse a conoscenza di qualche buona ricetta. Possibilmente esotica!
Arrunzia possedeva quelle qualità e per Metrobio acquistarla era stato un ottimo affare. Affrancarla e poi sposarla, era stato un affare ancora maggiore: Claudia conosceva certe ricette segrete e afrodisiache, tali da richiamare avventori di ogni sesso ed età, come il latte appena munto attrae le mosche.
Claudia si era attaccata al marito-padrone con la dedizione assoluta di un cane fedele, ma, per ragioni imperscrutabili, anche l'oste aveva finito per affezionarsi a lei con la stessa dedizione. Così, senza nemmeno rendersene conto, Metrobio aveva finito per ritrovarsi appese al proprio collo quelle stesse catene che aveva messo al collo di lei, fino al ribaltamento totale della situazione, che vedeva Arrunzia padrona di Metrobio. Una padrona affettuosa e garbata, per la verità, tanto che la gente cominciò a chiamarli Bauci e Filemone, come i due della leggenda del Diluvio, risparmiati da Giove e trasformati in tiglio e quercia.
La porta che si apriva sotto spinta vigorosa e la figura di Fabio che faceva il suo ingresso seguito dal suo optio Ottavio, riassorbì l'attenzione di Marco, che si alzò per andare incontro al suo centurione; anche l'oste, grondante sudore, si girò verso l'uscio.
brano tratto dal libro: "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses" di Maria Pace
di prossima pubblicazione
... Marco e Lucio sedettero al tavolo vicino alle scale e Lucio esordì:
"E' vero che qui si serve dell'ottimo cinghiale alla salsa di pinoli?"
L'oste si avvicinò al tavolo. La sua faccia, larga, rubiconda e piatta, si distese in uno sfolgorante sorriso.
Grasso e massiccio, tanto da doversi girare di lato per circolare tra i tavoli, era una montagna di carne portata con allegra disinvoltura. Odorava di vino, olio e sudore.
"E' quello che sto aspettando da un pezzo anch'io.- esordì qualcuno seduto a un tavolo vicino - Forse quel cinghiale non è stato ancora cacciato!... Salute, tribuno Marco Valerio e anche a te che non conosco, legionario!"
Marco si voltò a guardarlo.
Labbra grosse, volto rubicondo, occhio appannato, indice di un trasporto per il Falerno, l'uomo aveva ancora il braccio levato in atto di saluto.
"Salute a te, Lacone!" rispose Marco, intanto che la ostessa, lasciato il bancone, si avvicinava premurosa.
"La buona cucina vuole il suo tempo! - disse la donna - Per gustare il "cinghiale alla salsa di pinoli" di Arrunzia Claudia non bisogna avere premura. Perciò, torna ai tuoi dadi e aspetta."
Arrunzia Claudia. La chiamavano così, per via del suo passo claudicante, ma avrebbero potuto bene affibbiarle anche il soprannome di Arrunzia Crassa, tanto era grossa e massiccia, o Arrunzia Russa, tanto la sua chioma era fiammeggiante.
Il suo aspetto richiamava più quello di un atleta che di una donna; più simile a Ercole che a Diana. Ad azzopparla era stata l'incornata di un toro nella villa rustica di un patrizio, dove era stata condotta schiava dalla Siria e dove, proprio per quel suo aspetto insolito per una donna, era stata respinta e dileggiata. Perfino al mercato degli schiavi, dove il padrone aveva finito per metterla in vendita, era stata disdegnata quasi da tutti.
Quasi da tutti, ma non da tutti.
Non da Metrobio, che aveva visto in quell'Ercole al femminile, dalle spalle quadrate, le braccia muscolose e lo sguardo mansueto come quello di un bove, un ottimo investimento per sé e per l'attività che intendeva aprire.
Metrobio era di quelli che non disdegnavano il lavoro e a Roma quella dell'oste era una delle attività più remunerative per chi avesse avuto voglia di lavorare e fosse a conoscenza di qualche buona ricetta. Possibilmente esotica!
Arrunzia possedeva quelle qualità e per Metrobio acquistarla era stato un ottimo affare. Affrancarla e poi sposarla, era stato un affare ancora maggiore: Claudia conosceva certe ricette segrete e afrodisiache, tali da richiamare avventori di ogni sesso ed età, come il latte appena munto attrae le mosche.
Claudia si era attaccata al marito-padrone con la dedizione assoluta di un cane fedele, ma, per ragioni imperscrutabili, anche l'oste aveva finito per affezionarsi a lei con la stessa dedizione. Così, senza nemmeno rendersene conto, Metrobio aveva finito per ritrovarsi appese al proprio collo quelle stesse catene che aveva messo al collo di lei, fino al ribaltamento totale della situazione, che vedeva Arrunzia padrona di Metrobio. Una padrona affettuosa e garbata, per la verità, tanto che la gente cominciò a chiamarli Bauci e Filemone, come i due della leggenda del Diluvio, risparmiati da Giove e trasformati in tiglio e quercia.
La porta che si apriva sotto spinta vigorosa e la figura di Fabio che faceva il suo ingresso seguito dal suo optio Ottavio, riassorbì l'attenzione di Marco, che si alzò per andare incontro al suo centurione; anche l'oste, grondante sudore, si girò verso l'uscio.
brano tratto dal libro: "LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses" di Maria Pace
di prossima pubblicazione
L' EGIZIANA
Zoccoli di cavalli, stridori di ruote sul selciato: un carro da guerra correva veloce sulla strada principale di Nippur, lastricata di pietre larghe e quadrangolari. Un suono ben noto per i passanti, che si scansarono per farlo passare.
Un gruppo di pecore che un pastore spingeva fuori delle porte della città, si sparpagliò. Buoi aggiogati ai carri, asini someggiati fino all’inverosimile, drappelli di soldati dal passo marziale, schiavi al lavoro nei cantieri di nuovi Templi e Palazzi, operai e infinite altre persone ancora: la vita nella antichissima città sumerica si svolgeva in maniera non del tutto dissimile da quella di duemila o tremila anni dopo.
I passanti riconobbero il carro da guerra del nobile Sushin.
Era comparso in fondo alla strada e il guerriero, ritto e superbo, incitava i cavalli, neri come la pece, facendo sibilare la frusta nell’aria
Il carro si fermò davanti ad una casa del quartiere dei ricchi ed alcuni servi ne uscirono per venirgli incontro.
Sushin ritornava da un avamposto militar in prossimità delle montagne del Gutium, le cui genti, pur considerate “barbari” dai raffinati abitanti della città di Nippur, erano gli schiavi più ricercati ed apprezzati per il colore chiaro della pelle e dei capelli.
Alto e prestante, coperto del solo perizoma che metteva in risalto il fisico forgiato dalla massacrante vita di guerra, il volto dalla maschia bellezza, lo sguardo fiero e la mascella quadrata e volitiva, Sushin era un tipo davvero assai interessante.
Entrato nel cortile, quadrato e pavimentato di lastre di selce, il giovane balzò giù dal carro di corsa lo attraversò e raggiunse la scalinata che portava al piano di sopra; la casa era a due piani, grande e confortevole.
Sotto il portico, che circondava il cortile, si affacciava un gran numero di porte; Sushin si diresse verso una di esse, l’aprì ed entrò.
Ampia ed ariosa, la stanza era arredata con pochi mobili, ma di pregio e gusto: un letto, letteralmente sepolto da cuscini e tavolini occupati da ciotole, brocche e coppe; sul pavimento erano stesi tappeti e stuoie. Numerosi lucernai attaccati alle pareti facevano luce.
C’era una donna seduta su uno scanno e un schiava le reggeva lo specchio mentre altre tre o quattro l’aiutavano nella toeletta.
Al comparire del giovane sull’uscio, con un gesto della mano la donna le congedò; tutte meno una, quella che reggeva lo specchio.
“Shusin, mio amato: Fratello del mio cuore. Torni a me dopo lunga attesa.” esclamò con voce gioiosa alzandosi e correndogli incontro per gettargli le braccia al collo.
“Salute a te, Subad. – salutò il giovane – E’ giorno lieto per la mia sposa.”
“Sacrificherò agli Dei per il tuo ritorno, Suchin.”
Sushin si sciolse dall’abbraccio e sedette sullo stesso scanno occupato un attimo prima dalla donna; mosse lo sguardo intorno improvvisamente i suoi occhi incrociarono quelli della piccola schiava.
Era molto bella e molto giovane. Carnagione bruna, occhi scuri, capelli nerissimi e tagliati a frangia sulla fronte. Non era molto alta, ma assai ben proporzionata: una gioia per lo sguardo.
L’umile tunica da schiava, indossata con la grazia di un mantello regale, invece di mortificarne la grazia innata, la metteva prepotentemente in risalto.
“E tu chi sei?” domandò Sushin.
“Il mio nome è Nefrure, mio signore e padrone.”
“Sei tu Nefrure? – il giovane mostrò un sorriso di stupito compiacimento – Ishtar, la Dea dell’Amore e della Bellezza, ha messo sul tuo volto tanta grazia che il cuore di chi guarda gioisce.”
Nefrure abbassò lo sguardo.
Nefrure aveva quindici anni. Era una schiava egiziana che Subad aveva portato con sé un anno addietro sposando Sushin.
Secondo la legge, sposando Subad, Sushin aveva sposato anche la sua schiava e con contratto matrimoniale che, però, era solamente una litania dei doveri della schiava verso la padrona e il nuovo padrone.
Nefrure doveva, per legge, occuparsi della cura della persona della padrona, portare il suo seggio nella Casa di Dio in occasione di Cerimonie Sacre, essere triste o lieta secondo l’umore della padrona e infine, essere madre, assieme a lei, dei propri figli che, in altre parole voleva dire: diritto di prendersi i suoi figli.
Verso il padrone aveva il dovere di servirlo in tutto: anche a letto.
In verità presso molti dei popoli antichi la poligamia, sia pur con qualche ristrettezza, era largamente riconosciuta e praticata. Poteva accadere che, per non essere ripudiata in caso di sterilità… e la disgrazia più grande per la donna dell’antichità era proprio la sterilità, la donna portasse in dote anche una schiava che potesse diventare legittima concubina del marito.
Senza diritto alcuno, naturalmente.
“Portami da bere.” ordinò Sushin.
La piccola schiava si allontanò, pr ricomparire poco dopo con un bricco di terracotta contenente del vino e una ciotola, anche questa di terracotta, stracolma di fumanti ciambelle al miele.
Sushin prese il bricco e se lo portò alle labbra.
“Tu, vai! – la padrona si girò verso la ragazza – Servirò io il mio signore.” disse accompagnando le parole con un gesto delle mani.
“No. Aspetta. – la trattenne Sushin con un sorriso, asciugandosi la bocca sul dorso della mano e porgendole il bricco – Bevi anche tu.”
Nefrure fece convergere uno sguardo un po’ preoccupato verso la padrona,
“Bevi.” ordinò Sushin, addentando una seconda ciambella con la bocca ancora piena.
Nefrure prese la coppa e la portò alle labbra; Subad la fissava severa: con il capo aveva dato il consenso, ma con lo sguardo esprimeva tutta la sua disapprovazione.
Dopo aver bevuto la piccola Nefrure si allontanò, ma lo sguardo dolce e gentile del padrone l’aveva raggiunta al cuore.
Quella notte si girò e rigirò sulla stuoia, nella stanza accanto, che la padrona con magnanimità le aveva regalato; non riusciva a prender sonno.
La condizione dello schiavo presso i Sumeri non era facile, ma non raggiunse mai quel livello di perdita di individualità e caratteristica di “persona” che conoscerà, invece, lo schiavo d’epoca più tardi, quale la schiavitù romana o quella americana. Sono giunti, infatti, documenti riguardati matrimoni tra schiavi e gente libera, testimonianze di un divario fra le due categorie, non proprio incolmabile.
Era già l’alba. Il chiarore del primo mattino filtrava nella stanzetta che dava sul portico e Nefrure era ancora sveglia.
D’un tratto, nel vano dell’uscio senza porta comparve l’atletica figura di Sushin.
Il cuore della piccola schiava tremò. Giacquero e così anche le notti successive.
Il giovane guerriero si era innamorato della piccola schiava e non ne faceva mistero.
Subad, naturalmente, era molto gelosa. Inutilmente ricorse ad ogni astuzia femminile nel tentativo di riconquistare il cuore del marito: Sushin non vedeva che la piccola Nefrure e non desiderava altro che la sua compagnia.
Un giorno Subad mandò Nefrure ad attingere acqua al pozzo di Atzam, assai distante dalla città. Era un’incobenza degli schiavi, che generalmente vi andavano col carretto.
La ragazza ubbidì. Raggiunse il pozzo, riempì le brocche, una sul capo, altre due sotto il braccio, poi tornò in città.
Era molto stanca quando fu in vista delle porte della città e si fermò un attimo a riposare.
Così la trovò Sushin che stava passando di lì col suo carro.
Più tardi, quando Subad la vide arrivare non già come una schiava, ma come una regina, si morse le labbra e giurò di vendicarsi.
***********************
Erano trascorsi due anni. Gudea continuava a regnare sui Sumeri facendo conoscere loro anni di pace e di benessere.
Nei grandi magazzini del Templi erano state riposte ricchezze ingenti e un grande Santuario era stato innalzato in onore del dio Ningirsu , “splendente come il sole tra le stelle”, come lo stesso re Gudea amava ripetere.
Giunsero i giorni della festa del Nuovo Anno: sette giorni di feste e rituali.
Verso il tramonto dell’ultimo di quei giorni, una lettiga si fermò davanti alla casa del nobile guerriero Sushin. Portava le insegne reali dei Faraoni di Tebe.
Ne discese una donna velata che chiese dei padroni di casa e quando fu ricevuta, con gli onori che competevano al suo rango, la donna si mostrò in volto: era Nefrure.
Una scorta di soldati egiziani l’accompagnava.
“Tu? – esclamò Subad, cerea in volto, indietreggiando – Che cosa cerchi nella casa del nobile Sushin?”
“Vengo a riprendermi ciò che è mio!” sibilò la giovane donna.
“Una schiava non possiede null’altro che il nome con cui è chiamata e…” le alitò in faccia Subad, ripresasi dalla sorpresa, ma Nefrure la interruppe, altera e distaccata.
“Non si può tener schiavo il sangue reale a lungo. – rispose - Io sono Nefrure, principesa di Tebe, fatta prigioniera dai Gutei e venduta a tuo padre… ma non sarei rimasta a lungo nella condizione di schiava… - si girò verso l’ufficiale che comandava il drappello di soldati – Il Signore d’Egitto avrebbe mandato un riscatto, se tu, ubbidendo al tuo cuore malvagio, non mi avessi scacciata… Ma ora sono qui e reclamo diritti.”
Sushin si fece avanti con le braccia tese.
“Nefrure, mio dolce fior di loto! – sorrise, increduto e felice - Amica dei miei sogni, compagna dei miei desideri… Nefrure…”
Ma Nefrure, principessa di Tebe, ricusò l’abbraccio.
Subad guardava il marito.
“Hai dimenticato presto il tuo dolce fior di loto!” disse in tono di profondo rimprovero colei che era stata schiava.
“Ti ho cercata a lungo, Nefrure, ma mi accorgo di averti cercata nei posti sbagliati. Oggi andrò a sacrificare e Ningirsu perché ti ha ricondotta a me proprio nel giorno della sua festa.”
“Andrò via come sono giunta, – continuò con amarezza la giovane principessa di Tebe – ma porterò con me il frutto del mio seno.”
“Troppo tardi!” esclamò trionfante la perfida Subad.
“Non è troppo tardi. Il funzionario di re Gudea è con me per assicurarsi che tutto avvenga secondo la Legge e la mia scorta è qui per proteggermi… Ridammi mio figlio, Subad.”
“Nefrure, cosa dici? – proruppe Sushin – Di quale figlio parli?”
“Di Menkaura, che lei – Nefrure puntò l’indice accusatore contro la donna – che lei chiama Assur e pretende essere suo figlio, ma che è carne della mia carne.”
“Troppo tardi, Nefrure. – scandì Subad con negli occhi quello scintillio di cattiveria che la principessa Nefrure conosceva assai bene – Tuo figlio è morto!”
“No! No!” gridò la povera Nefrure.
“Subad… ma che cosa stai dicendo?”
Anche quello di Sushin era un urlo.
“Che Assur non era del mio sangue, ma del tuo e del suo.” e perfino quello di Subad era un urlo. Ma di rabbia.
“Che tu sia maledetta!” gemè Nefrure cadendo in ginocchio; sul suo bel volto, l’espressione di pronfondo, inatteso dolore aveva cancellato tracce di ogni altro sentimento. Udì la voce del funzionario del Re che ordinava:
“Sia portata via questa donna e subisca il castigo per tanta colpa.”
La donna si lasciò trascinare senza opporre resistenza; alle spalle le giunse la voce dell’uomo per amore del quale aveva fatto tanto male.
“Vieni, Nefrure. – Sushin si era chinato sulla principessa e l’aiutava a rialzasi – Andiamo a piangere sulla tomba di nostro figlio. Per molto tempo ho pianto da solo, ma se tu vorrai…”
“Sushin… - Nefrure sollevò lo sguardo in volto all’uomo che amava – Credevo che mi avessi dimenticata,”
“Non potrei mai dimenticare il mio dolce fior di loto… Vieni… Andiamo! “ e con estrema delicatezza, il giovane guerriero le asciugò con le dita le lacrime che le solcavano le guance.
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Zoccoli di cavalli, stridori di ruote sul selciato: un carro da guerra correva veloce sulla strada principale di Nippur, lastricata di pietre larghe e quadrangolari. Un suono ben noto per i passanti, che si scansarono per farlo passare.
Un gruppo di pecore che un pastore spingeva fuori delle porte della città, si sparpagliò. Buoi aggiogati ai carri, asini someggiati fino all’inverosimile, drappelli di soldati dal passo marziale, schiavi al lavoro nei cantieri di nuovi Templi e Palazzi, operai e infinite altre persone ancora: la vita nella antichissima città sumerica si svolgeva in maniera non del tutto dissimile da quella di duemila o tremila anni dopo.
I passanti riconobbero il carro da guerra del nobile Sushin.
Era comparso in fondo alla strada e il guerriero, ritto e superbo, incitava i cavalli, neri come la pece, facendo sibilare la frusta nell’aria
Il carro si fermò davanti ad una casa del quartiere dei ricchi ed alcuni servi ne uscirono per venirgli incontro.
Sushin ritornava da un avamposto militar in prossimità delle montagne del Gutium, le cui genti, pur considerate “barbari” dai raffinati abitanti della città di Nippur, erano gli schiavi più ricercati ed apprezzati per il colore chiaro della pelle e dei capelli.
Alto e prestante, coperto del solo perizoma che metteva in risalto il fisico forgiato dalla massacrante vita di guerra, il volto dalla maschia bellezza, lo sguardo fiero e la mascella quadrata e volitiva, Sushin era un tipo davvero assai interessante.
Entrato nel cortile, quadrato e pavimentato di lastre di selce, il giovane balzò giù dal carro di corsa lo attraversò e raggiunse la scalinata che portava al piano di sopra; la casa era a due piani, grande e confortevole.
Sotto il portico, che circondava il cortile, si affacciava un gran numero di porte; Sushin si diresse verso una di esse, l’aprì ed entrò.
Ampia ed ariosa, la stanza era arredata con pochi mobili, ma di pregio e gusto: un letto, letteralmente sepolto da cuscini e tavolini occupati da ciotole, brocche e coppe; sul pavimento erano stesi tappeti e stuoie. Numerosi lucernai attaccati alle pareti facevano luce.
C’era una donna seduta su uno scanno e un schiava le reggeva lo specchio mentre altre tre o quattro l’aiutavano nella toeletta.
Al comparire del giovane sull’uscio, con un gesto della mano la donna le congedò; tutte meno una, quella che reggeva lo specchio.
“Shusin, mio amato: Fratello del mio cuore. Torni a me dopo lunga attesa.” esclamò con voce gioiosa alzandosi e correndogli incontro per gettargli le braccia al collo.
“Salute a te, Subad. – salutò il giovane – E’ giorno lieto per la mia sposa.”
“Sacrificherò agli Dei per il tuo ritorno, Suchin.”
Sushin si sciolse dall’abbraccio e sedette sullo stesso scanno occupato un attimo prima dalla donna; mosse lo sguardo intorno improvvisamente i suoi occhi incrociarono quelli della piccola schiava.
Era molto bella e molto giovane. Carnagione bruna, occhi scuri, capelli nerissimi e tagliati a frangia sulla fronte. Non era molto alta, ma assai ben proporzionata: una gioia per lo sguardo.
L’umile tunica da schiava, indossata con la grazia di un mantello regale, invece di mortificarne la grazia innata, la metteva prepotentemente in risalto.
“E tu chi sei?” domandò Sushin.
“Il mio nome è Nefrure, mio signore e padrone.”
“Sei tu Nefrure? – il giovane mostrò un sorriso di stupito compiacimento – Ishtar, la Dea dell’Amore e della Bellezza, ha messo sul tuo volto tanta grazia che il cuore di chi guarda gioisce.”
Nefrure abbassò lo sguardo.
Nefrure aveva quindici anni. Era una schiava egiziana che Subad aveva portato con sé un anno addietro sposando Sushin.
Secondo la legge, sposando Subad, Sushin aveva sposato anche la sua schiava e con contratto matrimoniale che, però, era solamente una litania dei doveri della schiava verso la padrona e il nuovo padrone.
Nefrure doveva, per legge, occuparsi della cura della persona della padrona, portare il suo seggio nella Casa di Dio in occasione di Cerimonie Sacre, essere triste o lieta secondo l’umore della padrona e infine, essere madre, assieme a lei, dei propri figli che, in altre parole voleva dire: diritto di prendersi i suoi figli.
Verso il padrone aveva il dovere di servirlo in tutto: anche a letto.
In verità presso molti dei popoli antichi la poligamia, sia pur con qualche ristrettezza, era largamente riconosciuta e praticata. Poteva accadere che, per non essere ripudiata in caso di sterilità… e la disgrazia più grande per la donna dell’antichità era proprio la sterilità, la donna portasse in dote anche una schiava che potesse diventare legittima concubina del marito.
Senza diritto alcuno, naturalmente.
“Portami da bere.” ordinò Sushin.
La piccola schiava si allontanò, pr ricomparire poco dopo con un bricco di terracotta contenente del vino e una ciotola, anche questa di terracotta, stracolma di fumanti ciambelle al miele.
Sushin prese il bricco e se lo portò alle labbra.
“Tu, vai! – la padrona si girò verso la ragazza – Servirò io il mio signore.” disse accompagnando le parole con un gesto delle mani.
“No. Aspetta. – la trattenne Sushin con un sorriso, asciugandosi la bocca sul dorso della mano e porgendole il bricco – Bevi anche tu.”
Nefrure fece convergere uno sguardo un po’ preoccupato verso la padrona,
“Bevi.” ordinò Sushin, addentando una seconda ciambella con la bocca ancora piena.
Nefrure prese la coppa e la portò alle labbra; Subad la fissava severa: con il capo aveva dato il consenso, ma con lo sguardo esprimeva tutta la sua disapprovazione.
Dopo aver bevuto la piccola Nefrure si allontanò, ma lo sguardo dolce e gentile del padrone l’aveva raggiunta al cuore.
Quella notte si girò e rigirò sulla stuoia, nella stanza accanto, che la padrona con magnanimità le aveva regalato; non riusciva a prender sonno.
La condizione dello schiavo presso i Sumeri non era facile, ma non raggiunse mai quel livello di perdita di individualità e caratteristica di “persona” che conoscerà, invece, lo schiavo d’epoca più tardi, quale la schiavitù romana o quella americana. Sono giunti, infatti, documenti riguardati matrimoni tra schiavi e gente libera, testimonianze di un divario fra le due categorie, non proprio incolmabile.
Era già l’alba. Il chiarore del primo mattino filtrava nella stanzetta che dava sul portico e Nefrure era ancora sveglia.
D’un tratto, nel vano dell’uscio senza porta comparve l’atletica figura di Sushin.
Il cuore della piccola schiava tremò. Giacquero e così anche le notti successive.
Il giovane guerriero si era innamorato della piccola schiava e non ne faceva mistero.
Subad, naturalmente, era molto gelosa. Inutilmente ricorse ad ogni astuzia femminile nel tentativo di riconquistare il cuore del marito: Sushin non vedeva che la piccola Nefrure e non desiderava altro che la sua compagnia.
Un giorno Subad mandò Nefrure ad attingere acqua al pozzo di Atzam, assai distante dalla città. Era un’incobenza degli schiavi, che generalmente vi andavano col carretto.
La ragazza ubbidì. Raggiunse il pozzo, riempì le brocche, una sul capo, altre due sotto il braccio, poi tornò in città.
Era molto stanca quando fu in vista delle porte della città e si fermò un attimo a riposare.
Così la trovò Sushin che stava passando di lì col suo carro.
Più tardi, quando Subad la vide arrivare non già come una schiava, ma come una regina, si morse le labbra e giurò di vendicarsi.
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Erano trascorsi due anni. Gudea continuava a regnare sui Sumeri facendo conoscere loro anni di pace e di benessere.
Nei grandi magazzini del Templi erano state riposte ricchezze ingenti e un grande Santuario era stato innalzato in onore del dio Ningirsu , “splendente come il sole tra le stelle”, come lo stesso re Gudea amava ripetere.
Giunsero i giorni della festa del Nuovo Anno: sette giorni di feste e rituali.
Verso il tramonto dell’ultimo di quei giorni, una lettiga si fermò davanti alla casa del nobile guerriero Sushin. Portava le insegne reali dei Faraoni di Tebe.
Ne discese una donna velata che chiese dei padroni di casa e quando fu ricevuta, con gli onori che competevano al suo rango, la donna si mostrò in volto: era Nefrure.
Una scorta di soldati egiziani l’accompagnava.
“Tu? – esclamò Subad, cerea in volto, indietreggiando – Che cosa cerchi nella casa del nobile Sushin?”
“Vengo a riprendermi ciò che è mio!” sibilò la giovane donna.
“Una schiava non possiede null’altro che il nome con cui è chiamata e…” le alitò in faccia Subad, ripresasi dalla sorpresa, ma Nefrure la interruppe, altera e distaccata.
“Non si può tener schiavo il sangue reale a lungo. – rispose - Io sono Nefrure, principesa di Tebe, fatta prigioniera dai Gutei e venduta a tuo padre… ma non sarei rimasta a lungo nella condizione di schiava… - si girò verso l’ufficiale che comandava il drappello di soldati – Il Signore d’Egitto avrebbe mandato un riscatto, se tu, ubbidendo al tuo cuore malvagio, non mi avessi scacciata… Ma ora sono qui e reclamo diritti.”
Sushin si fece avanti con le braccia tese.
“Nefrure, mio dolce fior di loto! – sorrise, increduto e felice - Amica dei miei sogni, compagna dei miei desideri… Nefrure…”
Ma Nefrure, principessa di Tebe, ricusò l’abbraccio.
Subad guardava il marito.
“Hai dimenticato presto il tuo dolce fior di loto!” disse in tono di profondo rimprovero colei che era stata schiava.
“Ti ho cercata a lungo, Nefrure, ma mi accorgo di averti cercata nei posti sbagliati. Oggi andrò a sacrificare e Ningirsu perché ti ha ricondotta a me proprio nel giorno della sua festa.”
“Andrò via come sono giunta, – continuò con amarezza la giovane principessa di Tebe – ma porterò con me il frutto del mio seno.”
“Troppo tardi!” esclamò trionfante la perfida Subad.
“Non è troppo tardi. Il funzionario di re Gudea è con me per assicurarsi che tutto avvenga secondo la Legge e la mia scorta è qui per proteggermi… Ridammi mio figlio, Subad.”
“Nefrure, cosa dici? – proruppe Sushin – Di quale figlio parli?”
“Di Menkaura, che lei – Nefrure puntò l’indice accusatore contro la donna – che lei chiama Assur e pretende essere suo figlio, ma che è carne della mia carne.”
“Troppo tardi, Nefrure. – scandì Subad con negli occhi quello scintillio di cattiveria che la principessa Nefrure conosceva assai bene – Tuo figlio è morto!”
“No! No!” gridò la povera Nefrure.
“Subad… ma che cosa stai dicendo?”
Anche quello di Sushin era un urlo.
“Che Assur non era del mio sangue, ma del tuo e del suo.” e perfino quello di Subad era un urlo. Ma di rabbia.
“Che tu sia maledetta!” gemè Nefrure cadendo in ginocchio; sul suo bel volto, l’espressione di pronfondo, inatteso dolore aveva cancellato tracce di ogni altro sentimento. Udì la voce del funzionario del Re che ordinava:
“Sia portata via questa donna e subisca il castigo per tanta colpa.”
La donna si lasciò trascinare senza opporre resistenza; alle spalle le giunse la voce dell’uomo per amore del quale aveva fatto tanto male.
“Vieni, Nefrure. – Sushin si era chinato sulla principessa e l’aiutava a rialzasi – Andiamo a piangere sulla tomba di nostro figlio. Per molto tempo ho pianto da solo, ma se tu vorrai…”
“Sushin… - Nefrure sollevò lo sguardo in volto all’uomo che amava – Credevo che mi avessi dimenticata,”
“Non potrei mai dimenticare il mio dolce fior di loto… Vieni… Andiamo! “ e con estrema delicatezza, il giovane guerriero le asciugò con le dita le lacrime che le solcavano le guance.
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