IL RAIS
Misteri d'Oriente
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Versione cartacea
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VERSIONE E-BOOK
Introduzione
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Il forte interesse e la grande ammirazione verso tutto ciò che era Orientale, creò nel XIX secolo uno dei capitoli più complessi della storia intellettuale europea.
Si trattò di un fenomeno assai diffuso a causa dello spiccato interesse per tutto quanto fosse orientale e per alcune caratteristiche in particolare: l’arte, la falconeria, i divertimenti (soprattutto danza del ventre).
Si giunse perfino a deporre l’abito europeo per preferire quello orientale. Molte personalità lo fecero: il pittore David, l’archeologo Belzoni, l’avventuriero Laurence d’Arabia, per citarne solo alcuni.
Si trascurarono, però, alcuni degli aspetti fondamentali di quella cultura; a volte si finì anche per ironizzarne.
Mancò spesso il rispetto per una cultura considerata piuttosto folkloristica e quel che è peggio, si trascurò la condizione assai precaria che la donna (salvo poche eccezioni) ricopriva in quella società.
Ossessione per una terra ed una cultura che, in fondo, non si conosceva affatto, ma che spinse tanti europei a travestirsi da arabi…
Le vicende narrate in questa che è una saga tribale, non vogliono affrontare quei temi, ma soltanto sfiorarli.
In queste vicende, infatti, non si incontreranno solamente figure storiche realmente esistite, ma anche personaggi partoriti dalla fantasia, perché il tema principale e:
AMORE - PASSIONE - SANGUE - STORIA – AVVENTURA – ETNOGRAFIA – FANTASIA - FASCINO
A tutti, buona lettura…
Si trattò di un fenomeno assai diffuso a causa dello spiccato interesse per tutto quanto fosse orientale e per alcune caratteristiche in particolare: l’arte, la falconeria, i divertimenti (soprattutto danza del ventre).
Si giunse perfino a deporre l’abito europeo per preferire quello orientale. Molte personalità lo fecero: il pittore David, l’archeologo Belzoni, l’avventuriero Laurence d’Arabia, per citarne solo alcuni.
Si trascurarono, però, alcuni degli aspetti fondamentali di quella cultura; a volte si finì anche per ironizzarne.
Mancò spesso il rispetto per una cultura considerata piuttosto folkloristica e quel che è peggio, si trascurò la condizione assai precaria che la donna (salvo poche eccezioni) ricopriva in quella società.
Ossessione per una terra ed una cultura che, in fondo, non si conosceva affatto, ma che spinse tanti europei a travestirsi da arabi…
Le vicende narrate in questa che è una saga tribale, non vogliono affrontare quei temi, ma soltanto sfiorarli.
In queste vicende, infatti, non si incontreranno solamente figure storiche realmente esistite, ma anche personaggi partoriti dalla fantasia, perché il tema principale e:
AMORE - PASSIONE - SANGUE - STORIA – AVVENTURA – ETNOGRAFIA – FANTASIA - FASCINO
A tutti, buona lettura…
BRANI tratti dal LIBRO
Cap. I - La fine del Ramadan
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immagine di E. Fromentin
caccia col falco
"Per maturare i suoi frutti la palma deve avere i piedi nell'acqua e la testa nel fuoco" - proverbio arabo “
CAPITOLO I - LA FINE DEL RAMADAN
Un colpo di cannone partì dal ribat piccolo forte costiero e rimbombò sulle verdi acque del porto annunciando la fine del Ramadan e le celebrazioni del Bayran, la fine del mese della quaresima musulmana.
“Lailaha illaallah Maummad Rasulu Allah!” cantilenava il muezzin dall’alto del minareto della Moschea che il sultano di Doha aveva fatto innalzar più per la sua gloria che per quella di Allah.
Le incerte luci del nuovo giorno sorpresero gli ultimi spettatori di una notte di follie offerta da fanatici dervisci, monaci musulmani, i quali avevano atteso un anno intero per dar prova con scene da raccapriccio della loro incondizionata dedizione di sé a Dio.
Poi la notte tacque e si assopì; l’aria si fece luminosa e la costa fiammeggiò. Tacquero anche flauti e tamburi.
Ma il silenzio fu breve. Nuovi rumori invasero l’aria, acuti e squillanti: i corni di caccia di Sayed Alì, il Sultano di Doha.
Fin dai tempi del Profeta, la caccia col falcone è sempre stata l’attività venatoria preferita degli Arabi e un drappello di cavalieri era lanciati al galoppo nella solare distesa di sabbia alle spalle della città.
La passione per i cavalli gli arabi ce l’hanno nel sangue:
“Dio prese una manciata di vento del Sud e creò il cavallo.” recita il Corano.
Splendido animale, il cavallo arabo è il migliore della specie per eleganza e armonia di forme; era ed è vanto ed orgoglio di ogni cavaliere.
Correvano, cavallo e cavaliere e parevano una sola creatura, tanto era armonico e completo il loro rapporto.
Correvano, in uno svolazzare di mantelli e criniere, avvolti in una nuvola di polvere iridescente, dietro uno stormo di falchi in volo sulle tracce di un branco di gazzelle.
Lanciati in alto, i falchi spiarono ogni duna, ogni buca, ogni cespuglio e alla fine avvistarono la preda in mezzo al branco: un giovane maschio che cercava scampo ad una inevitabile fine con una disperata quanto inutile fuga. Furono gli slughi, però, i famosi levrieri del deserto, che braccarono la preda fino all’arrivo dei cavalieri.
“A voi l’onore del colpo di grazia, principe Ben.” il sultano si girò verso il giovane alla sua sinistra.
Venticinque o ventisei anni, fisico atletico, il giovane cacciatore portava alla mente l’immagine degli antichi guerrieri celti avversari dei Cesari; gli occhi, sotto il mindil trattenuto sulla fronte da un cordone di pelle, erano scuri e penetranti.
Egli guardò la bestia agonizzante, poi scosse il capo.
“All’ospite di questa terra, l’onore, Altezza.” disse facendo convergere lo sguardo verso l’orizzonte occupato da ruderi d’avamposti in disuso, testimonianze di passaggio e dominio straniero.
Edward Honey, l’ospite del sultano, accolse la provocazione:
“Un ospite più gradito di quel predone che si aggira tra queste dune, io spero!” replicò.
Honey, dell’esercito di Sua Maestà Britannica era in visita non ufficiale a Doha: l’Inghilterra che già aveva stretto un Trattato con il sultano del Bahrein, non nascondeva le mire espansionistiche anche sul Qatar.
Honey assomigliava ad un ritratto sbiadito: sbiadito il colore rossiccio di ciglia e capelli, sbiadito quello marrone degli occhi, sbiaditi i contorni del volto, abbozzati da una rada barbetta. Al contrario delle insignificanti caratteristiche del volto, il fisico era corpulento e massiccio.
“Ah! – proruppe il sultano – Quel predone! Che Allah lo fulmini!”
“I beduini sono pastori e razziatori per cultura e la loro arretratezza materiale e spirituale…” cominciò Honey cui il tono stesso delle parole era di per sé una risposta alla provocazione del principe.
Ben, però, le stroncò subito mentre intorno a loro era un solo fremito di ali: i falchi che tornavano ai padroni.
“Razziatori, forse, ma liberi e indipendenti. – ribadì -… come ben sapete, maggiore.” aggiunse in tono mordace, accogliendo sul braccio guantato il suo falco, uno splendido animale dallo sguardo rapace e corrucciato come quello del padrone.
“Il maggiore ha ragione! – interloquì il sultano arrestando il suo cavallo – I predoni del deserto sono una minaccia costante alle nostre carovane ed il Rais dei Kinda… che l’Inferno lo inghiotta… è una spina nel fianco.”
“Lo erano anche i Pirati della Costa prima dell’intervento diplomatico del mio Paese.” intervenne Honey.
“Vale a dire?” chiese Ben.
“Vale a dire, altezza, che il trattato di Amnistia stipulato dalla Corona Britannica con i Pirati della Costa…”
“Amnistia? – lo interruppe ancora Ben – Vorrà dire un prezzo da pagare. Cosa chiede, che non ha ancora chiesto, la Vostra Graziosa Maestà in cambio della sua protezione?” aggiunse in tono sempre provocatorio
“I Protettorati godono degli stessi privilegi della Madre Patria.” replicò il maggiore.
“Deve essere così! – ironizzò Ben con insostenibile tono, poi aggiunse - I Beduini, però, sono assai attaccati alla loro libertà… Non sarà facile addomesticare il Rais dei Kinda con le vostre amnistie.”
Preoccupato della piega che stava prendendo quella conversazione, il sultano dette fiato al corno ricoperto d’oro ed annunciò la fine della caccia.
CAPITOLO I - LA FINE DEL RAMADAN
Un colpo di cannone partì dal ribat piccolo forte costiero e rimbombò sulle verdi acque del porto annunciando la fine del Ramadan e le celebrazioni del Bayran, la fine del mese della quaresima musulmana.
“Lailaha illaallah Maummad Rasulu Allah!” cantilenava il muezzin dall’alto del minareto della Moschea che il sultano di Doha aveva fatto innalzar più per la sua gloria che per quella di Allah.
Le incerte luci del nuovo giorno sorpresero gli ultimi spettatori di una notte di follie offerta da fanatici dervisci, monaci musulmani, i quali avevano atteso un anno intero per dar prova con scene da raccapriccio della loro incondizionata dedizione di sé a Dio.
Poi la notte tacque e si assopì; l’aria si fece luminosa e la costa fiammeggiò. Tacquero anche flauti e tamburi.
Ma il silenzio fu breve. Nuovi rumori invasero l’aria, acuti e squillanti: i corni di caccia di Sayed Alì, il Sultano di Doha.
Fin dai tempi del Profeta, la caccia col falcone è sempre stata l’attività venatoria preferita degli Arabi e un drappello di cavalieri era lanciati al galoppo nella solare distesa di sabbia alle spalle della città.
La passione per i cavalli gli arabi ce l’hanno nel sangue:
“Dio prese una manciata di vento del Sud e creò il cavallo.” recita il Corano.
Splendido animale, il cavallo arabo è il migliore della specie per eleganza e armonia di forme; era ed è vanto ed orgoglio di ogni cavaliere.
Correvano, cavallo e cavaliere e parevano una sola creatura, tanto era armonico e completo il loro rapporto.
Correvano, in uno svolazzare di mantelli e criniere, avvolti in una nuvola di polvere iridescente, dietro uno stormo di falchi in volo sulle tracce di un branco di gazzelle.
Lanciati in alto, i falchi spiarono ogni duna, ogni buca, ogni cespuglio e alla fine avvistarono la preda in mezzo al branco: un giovane maschio che cercava scampo ad una inevitabile fine con una disperata quanto inutile fuga. Furono gli slughi, però, i famosi levrieri del deserto, che braccarono la preda fino all’arrivo dei cavalieri.
“A voi l’onore del colpo di grazia, principe Ben.” il sultano si girò verso il giovane alla sua sinistra.
Venticinque o ventisei anni, fisico atletico, il giovane cacciatore portava alla mente l’immagine degli antichi guerrieri celti avversari dei Cesari; gli occhi, sotto il mindil trattenuto sulla fronte da un cordone di pelle, erano scuri e penetranti.
Egli guardò la bestia agonizzante, poi scosse il capo.
“All’ospite di questa terra, l’onore, Altezza.” disse facendo convergere lo sguardo verso l’orizzonte occupato da ruderi d’avamposti in disuso, testimonianze di passaggio e dominio straniero.
Edward Honey, l’ospite del sultano, accolse la provocazione:
“Un ospite più gradito di quel predone che si aggira tra queste dune, io spero!” replicò.
Honey, dell’esercito di Sua Maestà Britannica era in visita non ufficiale a Doha: l’Inghilterra che già aveva stretto un Trattato con il sultano del Bahrein, non nascondeva le mire espansionistiche anche sul Qatar.
Honey assomigliava ad un ritratto sbiadito: sbiadito il colore rossiccio di ciglia e capelli, sbiadito quello marrone degli occhi, sbiaditi i contorni del volto, abbozzati da una rada barbetta. Al contrario delle insignificanti caratteristiche del volto, il fisico era corpulento e massiccio.
“Ah! – proruppe il sultano – Quel predone! Che Allah lo fulmini!”
“I beduini sono pastori e razziatori per cultura e la loro arretratezza materiale e spirituale…” cominciò Honey cui il tono stesso delle parole era di per sé una risposta alla provocazione del principe.
Ben, però, le stroncò subito mentre intorno a loro era un solo fremito di ali: i falchi che tornavano ai padroni.
“Razziatori, forse, ma liberi e indipendenti. – ribadì -… come ben sapete, maggiore.” aggiunse in tono mordace, accogliendo sul braccio guantato il suo falco, uno splendido animale dallo sguardo rapace e corrucciato come quello del padrone.
“Il maggiore ha ragione! – interloquì il sultano arrestando il suo cavallo – I predoni del deserto sono una minaccia costante alle nostre carovane ed il Rais dei Kinda… che l’Inferno lo inghiotta… è una spina nel fianco.”
“Lo erano anche i Pirati della Costa prima dell’intervento diplomatico del mio Paese.” intervenne Honey.
“Vale a dire?” chiese Ben.
“Vale a dire, altezza, che il trattato di Amnistia stipulato dalla Corona Britannica con i Pirati della Costa…”
“Amnistia? – lo interruppe ancora Ben – Vorrà dire un prezzo da pagare. Cosa chiede, che non ha ancora chiesto, la Vostra Graziosa Maestà in cambio della sua protezione?” aggiunse in tono sempre provocatorio
“I Protettorati godono degli stessi privilegi della Madre Patria.” replicò il maggiore.
“Deve essere così! – ironizzò Ben con insostenibile tono, poi aggiunse - I Beduini, però, sono assai attaccati alla loro libertà… Non sarà facile addomesticare il Rais dei Kinda con le vostre amnistie.”
Preoccupato della piega che stava prendendo quella conversazione, il sultano dette fiato al corno ricoperto d’oro ed annunciò la fine della caccia.
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immagine di Fabio Fabbi
“Il mio signore dice che la festa sta per cominciare, principe Ben e desidera che lo raggiungiate.”
Un paggio venne a bussare alla porta; Ben lo seguì, dopo aver infilato sotto il mantello color dattero l’affilatissima, inseparabile jatagan, scimitarra bipunta.
La sala da ricevimento dove il sultano lo ricevette, il maglis, era un ambiente vivace e composito: arazzi e tappeti dei telai di Smirne, tappezzerie di Damasco, specchi di Venezia, maioliche di Napoli, tavolini inglesi e tendaggi persiani.
Il sultano e le persone che gli facevano da corte, erano sprofondati tra i cuscini dei molti divani; c’era anche il maggiore Honey.
“Allah vi tenga in buona salute!” salutò il principe Ben.
“Allah tenga in salute anche te, principe Ben.” rispose amabilmente Sayed e il giovane si chiese se avesse già dimenticato l’episodio del giardino. Si tolse il mantello e prese posto, come il sultano gli indicava, alla sua destra; alla sinistra sedeva Jezabel, la favorita.
Era una giovane donna dal volto velato, la cui bellezza pareva tutta concentrata negli occhi che lo jasmac faceva risaltare.
Lungi dal togliere bellezza ad un volto, quella finissima tela di mussola ne accresceva il fascino lasciando intravedere appena i contorni del volto, ma rendendoli desiderabili come un frutto proibito,
A quell’epoca la donna araba era totalmente, salvo poche eccezioni, analfabeta e completamente sottomessa all’uomo.
In proposito, il Corano recita:
“Agli uomini è data la preminenza sulle donne.”
Oppure ammonisce:
“Se temete la loro infedeltà, prima ammonitela, poi battetela!”
Per contro, se l’infedeltà è del tutto maschile. ecco, invece, il divino suggerimento:
“Se volete cambiare una donna con l’altra, non riprendete il suo indennizzo:”
In realtà, non troppo dissimile era la condizione della donna europea la quale proprio in quel periodo metteva i germogli di una coscienza personale ad un prezzo a volte davvero altissimo
L’addetto al servizio di palazzo introdusse un gruppo di danzatrici.
La “danza del ventre” sulle note di rebab ed alud, caratteristici strumenti musicali, riscosse particolare successo.
Concepita come forma di rappresentazione sacra, col passare degli anni aveva totalmente perso la sua innocenza per diventare una profana danza di piacere.
Il principe Ben, però, era l’unico ad apparire distratto. Con la destra accarezzava l’impugnatura della jatagan appesa al fianco e con la sinistra tormentava i bottoni della tunica aperta sul petto. I nerissimi occhi saettavano ogni volta che una porta si apriva.
Non aveva speranza di rivedere Jasmine, anzi, si doleva di averle causato, forse, qualche danno: l’offesa ad una donna si lavava col sangue.
Quello della donna!
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Il piccolo, però, non si mosse. Chino per terra, fissava i cocci biascicando qualcosa di incomprensibile.
“Guardate! – il maggiore dirottò l’attenzione di tutti su quei frammenti di terracotta – Guardate…”
Qualcosa di prodigioso stava avvenendo sotto i loro occhi: i cocci che si muovevano per terra.
“Tacete! – intimò il sultano – Lasciate che il ragazzo si concentri.”
Nel silenzio che seguì si udiva solo il respiro affannoso del piccolo e il tintinnio dei cocci che si accostavano e si urtavano, si univano e si allontanavano, si scomponevano per poi riavvicinarsi; il volto del ragazzo era pallido e madido di sudore.
I cocci finalmente si ricomposero, ma la forma era ancora scomposta, come in un gioco ad incastro in cui non si riesce a trovare il giusto ordine.
Il rumore di una porta che sbatteva fece sussultare il piccolo; lo sguardo magnetico abbandonò i frammenti, che tornarono a sparpagliarsi per terra.
“Silenzio! - tuonò il sultano - Ho detto di tacere!" tornò ad intimare; il ventre flaccido si muoveva stizzoso al ritmo delle parole e la tunica fluttuava sulla disarmonica pinguedine.
Nessuno badò al nuovo arrivato, un soldato coperto di ferite e sporco di sangue e sabbia.
I cocci tornarono a cercarsi, tintinnando e trovarono finalmente il giusto incastro: la tazza fu ricomposta e il piccolo la raccolse e la porse al sultano, poi sedette per terra, sfinito.
“Per Allah! Questo piccolo manigoldo è un mago!” sorrise Sayed Alì; evaporata ogni traccia di collera, che in quell’uomo doveva costituite l'emozione predominante, egli appariva contento e soddisfatto.
Il ragazzo si alzò. Tossiva, a causa della bevanda fortemente aromatizzata che gli avevano dato da bere.
Tutti gli si fecero intorno; tutti volevano sapere, poi, finalmente qualcuno si accorse del soldato, della sua veste a brandelli, delle armi inutilizzabili.
“Perché sei ferito?” domandò il sultano.
“Siamo stati assaliti… “ rispose quello, a fatica.
“Assaliti?” fece eco la voce alterata di Sayed.
“Ai margini … della pista dell’oasi... di Bir… la carovana… i predoni del deserto.” balbettava l’altro.
“E il carico? – tuonò il Sultano – Cosa ne è stato del carico di mirra, perle e seta?… Vi siete lasciati portar via tutto?… Imbelli… Maledetti incapaci!… "
La faccia paonazza d'ira, gli occhi neri, maligni, dal sembiante tutto trasparìva qualcosa di malvagio
"Ecco cosa intendevo parlando di quel maledetto predone…- proruppe, dirottando lo sguardo sul principe Ben e puntando l'indice accusatore sul malcapitato soldato - Guardate. Guardate, principe Ben… guardate, maggiore Honey… Tutto ha portato via, quel maledetto demonio…Tutto!”
Lo sguardo da animale braccato, il soldato si guardava intorno spaventato, ma quello sguardo precipitò nel terrore appena si posò sulla figura del principe Ben.
“Lui!… - urlò puntando un braccio nella sua direzione – Lui… lui è Rashid, il Rais dei Kinda!”
“Principe Ben…” Sayed si girò verso l’ospite, ma il falso Ben aveva già sfoderato la sua infallibile yatagan facendo il vuoto intorno a sé.
“Questo soldato ha ragione, Ben Sayed. - la voce beffarda del giovane lo inchiodò al suolo - Sì! Sono Rashid, il rais dei Kinda.”
Lo sguardo rapace, le straordinarie proporzioni fisiche, l’aspetto del giovane apparve d’un tratto terribile, selvaggio e quasi barbaro; un silenzio agghiacciato riempì la pausa che seguì, da lontano giungevano, come ovattati, i ruggiti delle belve incatenate alle ringhiere..
“Rashid! – proruppe infine il Sultano – Sei proprio Rashid, il Rais dei Kinda?”
Gli rispose un urlo agghiacciante: il grido d’assalto del grande predone del deserto di Ar-Rimal.
Con un balzo Rashid raggiunse la ringhiera di un ballatoio su cui si affacciavano diverse vetrate e con un colpo della scimitarra mandò i vetri in frantumi.
“Ci rivedremo ancora, Sayed Alì!… Tornerò e ti porterò via la tua pupilla... la principessa Jasmine!”
“Prendetelo… prendete quel predone…” urlò il sultano, paonazzo di collera.
“Vengo con te.” la voce di Akim, il piccolo mago, che di corsa lo aveva raggiunto in cima alla scalinata, colse alle spalle il grande predone.
“Aspetta!” continuò il piccolo, sollevando il pugno: immediatamente dopo una cortina di fumo intenso calò tra loro e gli inseguitori permettendo loro la fuga.
La Fortuna aiuta gli audaci, si dice. Al Rais dei Kinda che dell’audacia doveva essere un campione, la capricciosa Dea bendata non poteva non prestare attenzione: una porta si aprì sotto il colonnato e qualcuno li invitò ad entrare.
“Chi sei? Perché vuoi aiutarci?” domandò Rashid all’uomo, quaranta anni, la faccia olivastra e una luce cupa nello sguardo.
“Chi è nemico del Sultano è mio amico!” rispose quegli e con la testa fece un cenno.
Qualcuno alle sue spalle gettò la sua ombra in avanti: una ragazza, che tirò fuori dalle pieghe del mantello un moncherino.
“Ho giurato di vendicare mia figlia. – proruppe l’uomo – Ho la custodia dei cavalli e vi farò lasciare il Palazzo e la città.”
“Guardate! – il maggiore dirottò l’attenzione di tutti su quei frammenti di terracotta – Guardate…”
Qualcosa di prodigioso stava avvenendo sotto i loro occhi: i cocci che si muovevano per terra.
“Tacete! – intimò il sultano – Lasciate che il ragazzo si concentri.”
Nel silenzio che seguì si udiva solo il respiro affannoso del piccolo e il tintinnio dei cocci che si accostavano e si urtavano, si univano e si allontanavano, si scomponevano per poi riavvicinarsi; il volto del ragazzo era pallido e madido di sudore.
I cocci finalmente si ricomposero, ma la forma era ancora scomposta, come in un gioco ad incastro in cui non si riesce a trovare il giusto ordine.
Il rumore di una porta che sbatteva fece sussultare il piccolo; lo sguardo magnetico abbandonò i frammenti, che tornarono a sparpagliarsi per terra.
“Silenzio! - tuonò il sultano - Ho detto di tacere!" tornò ad intimare; il ventre flaccido si muoveva stizzoso al ritmo delle parole e la tunica fluttuava sulla disarmonica pinguedine.
Nessuno badò al nuovo arrivato, un soldato coperto di ferite e sporco di sangue e sabbia.
I cocci tornarono a cercarsi, tintinnando e trovarono finalmente il giusto incastro: la tazza fu ricomposta e il piccolo la raccolse e la porse al sultano, poi sedette per terra, sfinito.
“Per Allah! Questo piccolo manigoldo è un mago!” sorrise Sayed Alì; evaporata ogni traccia di collera, che in quell’uomo doveva costituite l'emozione predominante, egli appariva contento e soddisfatto.
Il ragazzo si alzò. Tossiva, a causa della bevanda fortemente aromatizzata che gli avevano dato da bere.
Tutti gli si fecero intorno; tutti volevano sapere, poi, finalmente qualcuno si accorse del soldato, della sua veste a brandelli, delle armi inutilizzabili.
“Perché sei ferito?” domandò il sultano.
“Siamo stati assaliti… “ rispose quello, a fatica.
“Assaliti?” fece eco la voce alterata di Sayed.
“Ai margini … della pista dell’oasi... di Bir… la carovana… i predoni del deserto.” balbettava l’altro.
“E il carico? – tuonò il Sultano – Cosa ne è stato del carico di mirra, perle e seta?… Vi siete lasciati portar via tutto?… Imbelli… Maledetti incapaci!… "
La faccia paonazza d'ira, gli occhi neri, maligni, dal sembiante tutto trasparìva qualcosa di malvagio
"Ecco cosa intendevo parlando di quel maledetto predone…- proruppe, dirottando lo sguardo sul principe Ben e puntando l'indice accusatore sul malcapitato soldato - Guardate. Guardate, principe Ben… guardate, maggiore Honey… Tutto ha portato via, quel maledetto demonio…Tutto!”
Lo sguardo da animale braccato, il soldato si guardava intorno spaventato, ma quello sguardo precipitò nel terrore appena si posò sulla figura del principe Ben.
“Lui!… - urlò puntando un braccio nella sua direzione – Lui… lui è Rashid, il Rais dei Kinda!”
“Principe Ben…” Sayed si girò verso l’ospite, ma il falso Ben aveva già sfoderato la sua infallibile yatagan facendo il vuoto intorno a sé.
“Questo soldato ha ragione, Ben Sayed. - la voce beffarda del giovane lo inchiodò al suolo - Sì! Sono Rashid, il rais dei Kinda.”
Lo sguardo rapace, le straordinarie proporzioni fisiche, l’aspetto del giovane apparve d’un tratto terribile, selvaggio e quasi barbaro; un silenzio agghiacciato riempì la pausa che seguì, da lontano giungevano, come ovattati, i ruggiti delle belve incatenate alle ringhiere..
“Rashid! – proruppe infine il Sultano – Sei proprio Rashid, il Rais dei Kinda?”
Gli rispose un urlo agghiacciante: il grido d’assalto del grande predone del deserto di Ar-Rimal.
Con un balzo Rashid raggiunse la ringhiera di un ballatoio su cui si affacciavano diverse vetrate e con un colpo della scimitarra mandò i vetri in frantumi.
“Ci rivedremo ancora, Sayed Alì!… Tornerò e ti porterò via la tua pupilla... la principessa Jasmine!”
“Prendetelo… prendete quel predone…” urlò il sultano, paonazzo di collera.
“Vengo con te.” la voce di Akim, il piccolo mago, che di corsa lo aveva raggiunto in cima alla scalinata, colse alle spalle il grande predone.
“Aspetta!” continuò il piccolo, sollevando il pugno: immediatamente dopo una cortina di fumo intenso calò tra loro e gli inseguitori permettendo loro la fuga.
La Fortuna aiuta gli audaci, si dice. Al Rais dei Kinda che dell’audacia doveva essere un campione, la capricciosa Dea bendata non poteva non prestare attenzione: una porta si aprì sotto il colonnato e qualcuno li invitò ad entrare.
“Chi sei? Perché vuoi aiutarci?” domandò Rashid all’uomo, quaranta anni, la faccia olivastra e una luce cupa nello sguardo.
“Chi è nemico del Sultano è mio amico!” rispose quegli e con la testa fece un cenno.
Qualcuno alle sue spalle gettò la sua ombra in avanti: una ragazza, che tirò fuori dalle pieghe del mantello un moncherino.
“Ho giurato di vendicare mia figlia. – proruppe l’uomo – Ho la custodia dei cavalli e vi farò lasciare il Palazzo e la città.”
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"Si parte!" sir Richard Alcot ripeté l'ordine.
Ritto in sella, la figura elegante ed atletica, al fianco il temibile gambiya, il pugnale yemenita, il lord la guardava passargli sotto gli occhi.
Sir Richard apparteneva ad una antica e nobile famiglia inglese ed era stato iniziato alla carriera militare per tradizione di famiglia. Mandato in Asia, il mito d'Arabia, che già cominciava a drogare il sangue di molta gioventù europea, lo aveva immediatamente conquistato.
Gli occhi ardenti, di un azzurro intenso, custodivano le irrequiete essenze di uno spirito vagabondo e di una spensierata giovinezza. Adoprava, nel parlare, un singolare miscuglio di arabo ed inglese con cui riusciva a farsi capire molto bene. Qualche volta perdeva quella flemma tutta britannica che accompagnava gesti e parole ed allora si esprimeva nei termini più pittoreschi suggeritigli dalla lingua araba e dalla vita di caserma lasciata ormai da tre anni, da quando, cioè, era partito dall'Europa.
Temerario e coraggioso, era, in realtà, un uomo prudente ed aveva già accompagnato una mezza dozzina di carovane attraverso quello del Sahara.
"Chi c'è in quell'alcova?" chiese, quando il cammello di Assan gli passò accanto, incuriosito dal baldacchino e dalla figura in riposo che si riusciva appena a scorgere..
"E' una ragazza.- spiegò laconico un portatore nubiano- L'abbiamo trovata ferita a Waqra ed Assan l'ha fatta curare"
I portatori, una dozzina, erano addetti al carico ed allo scarico delle merci al punto di arrivo e partenza delle carovane. A caricare e scaricare i cammelli durante il viaggio provvedevano i cammellieri, mentre a caricarle e scaricarle su treni, navi od ogni altro mezzo di trasporto, quando il cammello finiva il suo servizio, c'erano i portatori.
Il vice si accostò ai due.
"Qualcosa non va?" chiese.
"Tutto va bene!-rispose l'inglese- Mi ha incuriosito quella strana alcova e la ragazza che la occupa."
"Le ho salvato la vita. Penserò io a lei." spiegò Assan.
"Certamente." sir Richard spronò il cavallo e si allontanò; era stupito di quell'atto di generosità: conosceva assai bene Assan e il suo illimitato senso degli affari .La carovana viaggiava da alcune ore. Mano a mano che penetrava verso l'interno, un senso di vuoto e di solitudine cominciò a gravare sui tutti. Ar-Rimal! Gli Arabi chiamavano così il deserto di Rub-al-Kali: Le Sabbie. Oppure Quarto Vuoto. E mai nome fu più appropriato! Situato in una grande e desolata depressione, era quanto di più arido e soffocante potesse esistere. Implacabile ed inaccessibile. Lo testimoniava la presenza di ossa e avanzi sparsi un po’ ovunque. La temperatura in certi momenti della giornata toccava e superava i cinquanta gradi; al contrario, la notte era così gelida che non era raro trovare della brina alle primissime ore del mattino. Mancava poco al tramonto quando il capo ordinò la sosta. La carovana si fermò, al riparo di una barcana la cui forma a mezzaluna forniva eccellente protezione naturale per il riposo notturno. Si posero tutti al lavoro, ma un vento leggero e persistente disturbava ogni operazione, soprattutto il lavoro del cuoco; un gruppo di cammelli, intanto, s’era già posto alla ricerca di cibo: quegli straordinari animali trovavano sempre qualcosa da ruminare e quella vista rinfrancava gli uomini. Il primo ad interrompere il lavoro, giunta l'ora della Dhike, la preghiera serale, fu il vecchio Habib, il pellegrino diretto alla Mecca. Gli si fecero tutti intorno per dar corpo alla preghiera collettiva, che nel mondo islamico è assai importante. "Allah è grande..." La faccia rivolta alla Mecca, il sorriso sdentato e le mani all'altezza delle orecchie, secondo il rituale, nella notte che calava veloce il vecchio cominciò la preghiera; le fiamme di un grosso tripode, intanto, diffondevano bagliori nell'oscurità. Quella prima notte passò senza incidenti; il verso di animali notturni e più nulla, neppure il passo delle sentinelle, attutito dalla sabbia. L'alba si avvicinò, ma la luna rimase ancora sovrana maestosa sopra le tende,in un cielo di un blu intenso, sconosciuto ad altre latitudini, poi il chiarore, sceso improvviso e di un brillante accecante, riverberò sulla sabbia. All'orizzonte la linea che separava cielo e sabbia si allargava sempre più in una opalescenza cangiante e sfumata, eppure, in quello scenario maestoso e solenne, creato apposta per suscitare emozioni e stupori, il cuore era turbato e soffocato da un immenso vuoto senza confini. Ibrahim, già in sella, attraversò il campo da un capo all'altro. Smontate le tende e someggiati i cammelli, erano tutti pronti per una nuova, lenta giornata di marcia. La carovana si mosse.
Ritto in sella, la figura elegante ed atletica, al fianco il temibile gambiya, il pugnale yemenita, il lord la guardava passargli sotto gli occhi.
Sir Richard apparteneva ad una antica e nobile famiglia inglese ed era stato iniziato alla carriera militare per tradizione di famiglia. Mandato in Asia, il mito d'Arabia, che già cominciava a drogare il sangue di molta gioventù europea, lo aveva immediatamente conquistato.
Gli occhi ardenti, di un azzurro intenso, custodivano le irrequiete essenze di uno spirito vagabondo e di una spensierata giovinezza. Adoprava, nel parlare, un singolare miscuglio di arabo ed inglese con cui riusciva a farsi capire molto bene. Qualche volta perdeva quella flemma tutta britannica che accompagnava gesti e parole ed allora si esprimeva nei termini più pittoreschi suggeritigli dalla lingua araba e dalla vita di caserma lasciata ormai da tre anni, da quando, cioè, era partito dall'Europa.
Temerario e coraggioso, era, in realtà, un uomo prudente ed aveva già accompagnato una mezza dozzina di carovane attraverso quello del Sahara.
"Chi c'è in quell'alcova?" chiese, quando il cammello di Assan gli passò accanto, incuriosito dal baldacchino e dalla figura in riposo che si riusciva appena a scorgere..
"E' una ragazza.- spiegò laconico un portatore nubiano- L'abbiamo trovata ferita a Waqra ed Assan l'ha fatta curare"
I portatori, una dozzina, erano addetti al carico ed allo scarico delle merci al punto di arrivo e partenza delle carovane. A caricare e scaricare i cammelli durante il viaggio provvedevano i cammellieri, mentre a caricarle e scaricarle su treni, navi od ogni altro mezzo di trasporto, quando il cammello finiva il suo servizio, c'erano i portatori.
Il vice si accostò ai due.
"Qualcosa non va?" chiese.
"Tutto va bene!-rispose l'inglese- Mi ha incuriosito quella strana alcova e la ragazza che la occupa."
"Le ho salvato la vita. Penserò io a lei." spiegò Assan.
"Certamente." sir Richard spronò il cavallo e si allontanò; era stupito di quell'atto di generosità: conosceva assai bene Assan e il suo illimitato senso degli affari .La carovana viaggiava da alcune ore. Mano a mano che penetrava verso l'interno, un senso di vuoto e di solitudine cominciò a gravare sui tutti. Ar-Rimal! Gli Arabi chiamavano così il deserto di Rub-al-Kali: Le Sabbie. Oppure Quarto Vuoto. E mai nome fu più appropriato! Situato in una grande e desolata depressione, era quanto di più arido e soffocante potesse esistere. Implacabile ed inaccessibile. Lo testimoniava la presenza di ossa e avanzi sparsi un po’ ovunque. La temperatura in certi momenti della giornata toccava e superava i cinquanta gradi; al contrario, la notte era così gelida che non era raro trovare della brina alle primissime ore del mattino. Mancava poco al tramonto quando il capo ordinò la sosta. La carovana si fermò, al riparo di una barcana la cui forma a mezzaluna forniva eccellente protezione naturale per il riposo notturno. Si posero tutti al lavoro, ma un vento leggero e persistente disturbava ogni operazione, soprattutto il lavoro del cuoco; un gruppo di cammelli, intanto, s’era già posto alla ricerca di cibo: quegli straordinari animali trovavano sempre qualcosa da ruminare e quella vista rinfrancava gli uomini. Il primo ad interrompere il lavoro, giunta l'ora della Dhike, la preghiera serale, fu il vecchio Habib, il pellegrino diretto alla Mecca. Gli si fecero tutti intorno per dar corpo alla preghiera collettiva, che nel mondo islamico è assai importante. "Allah è grande..." La faccia rivolta alla Mecca, il sorriso sdentato e le mani all'altezza delle orecchie, secondo il rituale, nella notte che calava veloce il vecchio cominciò la preghiera; le fiamme di un grosso tripode, intanto, diffondevano bagliori nell'oscurità. Quella prima notte passò senza incidenti; il verso di animali notturni e più nulla, neppure il passo delle sentinelle, attutito dalla sabbia. L'alba si avvicinò, ma la luna rimase ancora sovrana maestosa sopra le tende,in un cielo di un blu intenso, sconosciuto ad altre latitudini, poi il chiarore, sceso improvviso e di un brillante accecante, riverberò sulla sabbia. All'orizzonte la linea che separava cielo e sabbia si allargava sempre più in una opalescenza cangiante e sfumata, eppure, in quello scenario maestoso e solenne, creato apposta per suscitare emozioni e stupori, il cuore era turbato e soffocato da un immenso vuoto senza confini. Ibrahim, già in sella, attraversò il campo da un capo all'altro. Smontate le tende e someggiati i cammelli, erano tutti pronti per una nuova, lenta giornata di marcia. La carovana si mosse.
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![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/1461702.jpg)
Uno strano personaggio cavalcava al fianco di Ibrahim. Era l'unico a vestire all'europea, casacca color kaki ed un gran cappello per proteggersi dal sole. Nonostante la precauzione, però, il volto era abbronzatissimo.
"Avete trovato qualcosa di utile per le vostre ricerche, professore?" domandò Ibrahim.
"Non ancora.- sospirò l'altro- Le rocce di queste barcane, però, sono geologicamente assai interessanti."
"Che cosa c'è di interessante in questo mare di sabbia?" replicò l'altro.
"Questo mare di sabbia, amico mio, potrebbe custodire tesori."
Marco Starti, che tutti chiamavano confidenzialmente Il Professore, aveva quasi trent'anni, ma ne mostrava molti di meno, a causa della simpatica zazzera che gli copriva la fronte o forse della svagata espressione del volto.
"Quali tesori?" domandò l'altro, più stupito, forse, che interessato.
"Giacimenti di minerali, l'età delle rocce o altro. - Marco indicò le protuberanze rocciose affioranti dalla barcana - Ma sopratutto le tracce del passato." aggiunse.
Ibrahim lo guardò sorpreso, concentrò lo sguardo sul livido orizzonte e domandò:
"Quelle rocce nascondono segreti?"
"Non li nascondono… - Marco sorrise, come si fa con un fanciullo alle prime scoperte - Sono come un libro aperto. Ogni strato, ogni colore, ogni forma di quelle rocce ha un'età!"
"Per la Barba del Profeta!...Ma cosa mi dite!"
"Prima che il sole inaridisse ogni cosa, questo posto era un Paradiso.- Marco si schiarì la gola, la sabbia che entrava dappertutto - Prima che prati e foreste affondassero e che le acque scomparissero nelle profondità, cacciatori e pastori giravano per questi luoghi."
Ibrahim era davvero stupito e guardava il compagno con l'intensità con cui si guarda un prodigio,
"Oh!- disse infine - Da venti anni attraverso questo deserto, eppure non lo conosco bene come voi, professore."
"Questo non è vero, Ibrahim, amico mio.La vostra esperienza è stata preziosa per il mio lavoro."
"Dite davvero? Ne sono lieto. Voi siete un archeologo, vero? Uno che riporta in vita cose che sono morte e sepolte!"
"Ah,ah,ah.- Marco sorrise ed accennò di sì col capo- Niente riesce a custodire le proprie memorie meglio delle dune di un deserto."
Marco era un tipo interessante: occhi chiari, capelli e colorito scuri, mascella volitiva, sguardo un po’ svagato. Ma era, ad un tempo, uomo di pensiero e d'azione, un po’ poeta ed un po’ soldato. Aveva mani forti e grandi, più atte ad impugnare un'arma che una penna; più adatte ad usare pale e badili. Di lui non si sapeva molto, solo che era italiano e doveva raggiungere una spedizione archeologica in Egitto.
L'unico a conoscere di lui altre vaghe notizie era sir Richard, il quale se n'era fatta un'opinione del tutto personale dettata da piccoli indizi: un perseguitato politico, forse un esule, certamente un fuggiasco.
La mattinata avanzava e la carovana procedeva lenta. La sabbia cominciava a riscaldare e presto sarebbe diventata rovente; anche l'aria lo sarebbe diventata e fatta eccezione della poca ombra prodotta da qualche duna, l'arsura divenne presto l'elemento predominante.
Quella gente, però, paziente e tenace, avanzava senza lamentarsi. E quelli più poveri, come il pellegrino, gli schiavi e i portatori, aspettavano che gli altri, quelli che possedevano una cavalcatura, la cedessero loro per qualche tempo: in certi momenti, sotto quella sferza di fuoco, il procedere a piedi diventava meno tormentoso che lo stare in sella.
Viaggiavano da più di tre ore, con l'orizzonte che pareva fuggire davanti a loro e la Frusta di Allah che diventata più rovente che mai.
D'un tratto alcune ombre presero vita tra il riverbero della luce sulla sabbia: certamente un miraggio, ma una voce da lontano, rintronante e possente, rotolò e rimbalzò nel vuoto:
"Ehi!...Voi della carovana!"
"Naufraghi!..." esclamò sir Richard, puntando il binocoloo.
"Avete trovato qualcosa di utile per le vostre ricerche, professore?" domandò Ibrahim.
"Non ancora.- sospirò l'altro- Le rocce di queste barcane, però, sono geologicamente assai interessanti."
"Che cosa c'è di interessante in questo mare di sabbia?" replicò l'altro.
"Questo mare di sabbia, amico mio, potrebbe custodire tesori."
Marco Starti, che tutti chiamavano confidenzialmente Il Professore, aveva quasi trent'anni, ma ne mostrava molti di meno, a causa della simpatica zazzera che gli copriva la fronte o forse della svagata espressione del volto.
"Quali tesori?" domandò l'altro, più stupito, forse, che interessato.
"Giacimenti di minerali, l'età delle rocce o altro. - Marco indicò le protuberanze rocciose affioranti dalla barcana - Ma sopratutto le tracce del passato." aggiunse.
Ibrahim lo guardò sorpreso, concentrò lo sguardo sul livido orizzonte e domandò:
"Quelle rocce nascondono segreti?"
"Non li nascondono… - Marco sorrise, come si fa con un fanciullo alle prime scoperte - Sono come un libro aperto. Ogni strato, ogni colore, ogni forma di quelle rocce ha un'età!"
"Per la Barba del Profeta!...Ma cosa mi dite!"
"Prima che il sole inaridisse ogni cosa, questo posto era un Paradiso.- Marco si schiarì la gola, la sabbia che entrava dappertutto - Prima che prati e foreste affondassero e che le acque scomparissero nelle profondità, cacciatori e pastori giravano per questi luoghi."
Ibrahim era davvero stupito e guardava il compagno con l'intensità con cui si guarda un prodigio,
"Oh!- disse infine - Da venti anni attraverso questo deserto, eppure non lo conosco bene come voi, professore."
"Questo non è vero, Ibrahim, amico mio.La vostra esperienza è stata preziosa per il mio lavoro."
"Dite davvero? Ne sono lieto. Voi siete un archeologo, vero? Uno che riporta in vita cose che sono morte e sepolte!"
"Ah,ah,ah.- Marco sorrise ed accennò di sì col capo- Niente riesce a custodire le proprie memorie meglio delle dune di un deserto."
Marco era un tipo interessante: occhi chiari, capelli e colorito scuri, mascella volitiva, sguardo un po’ svagato. Ma era, ad un tempo, uomo di pensiero e d'azione, un po’ poeta ed un po’ soldato. Aveva mani forti e grandi, più atte ad impugnare un'arma che una penna; più adatte ad usare pale e badili. Di lui non si sapeva molto, solo che era italiano e doveva raggiungere una spedizione archeologica in Egitto.
L'unico a conoscere di lui altre vaghe notizie era sir Richard, il quale se n'era fatta un'opinione del tutto personale dettata da piccoli indizi: un perseguitato politico, forse un esule, certamente un fuggiasco.
La mattinata avanzava e la carovana procedeva lenta. La sabbia cominciava a riscaldare e presto sarebbe diventata rovente; anche l'aria lo sarebbe diventata e fatta eccezione della poca ombra prodotta da qualche duna, l'arsura divenne presto l'elemento predominante.
Quella gente, però, paziente e tenace, avanzava senza lamentarsi. E quelli più poveri, come il pellegrino, gli schiavi e i portatori, aspettavano che gli altri, quelli che possedevano una cavalcatura, la cedessero loro per qualche tempo: in certi momenti, sotto quella sferza di fuoco, il procedere a piedi diventava meno tormentoso che lo stare in sella.
Viaggiavano da più di tre ore, con l'orizzonte che pareva fuggire davanti a loro e la Frusta di Allah che diventata più rovente che mai.
D'un tratto alcune ombre presero vita tra il riverbero della luce sulla sabbia: certamente un miraggio, ma una voce da lontano, rintronante e possente, rotolò e rimbalzò nel vuoto:
"Ehi!...Voi della carovana!"
"Naufraghi!..." esclamò sir Richard, puntando il binocoloo.
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![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/7216610.jpg?295)
immagine tratta da copertina di Grand Hotel - rivista
Il tramonto scendeva veloce dal cielo.
Marco si aggirava tra i numerosi affioramenti che costituivano la parte più suggestiva dell'oasi: ovunque monoliti monchi o altrimenti sfregiati; una gran quantità di sterpaglia aggrediva avanzi di antiche glorie che ancora sfidavano il deserto ed i suoi oltraggi.
Qualcosa lo attirava fatalmente.
Forse il racconto di Ben.
Era così immerso nelle ricerche che non si avvide dell'ombra che avanzava alle spalle, poi una voce dolcissima lo scosse:
"Marco, mio signore."
Era Atena, la figlia di Aristos Gallas , il mercante greco.
Il volto proteso, gli occhi scuri e luminosi cui gli ultimi raggi del sole morente traevano bagliori, Atena era bellissima. La figura, sotto la veste di seta celeste a fiori si indovinava slanciata ed aggraziata; si chinò al fianco del giovane.
"Non sono il tuo signore, cara, ma l'uomo che ti ama." sorrise il giovane allargando le braccia.
"Le tue dolci parole non diminuiscono la mia pena.- disse la ragazza- Mio padre è ingiusto!"
"Non tuo padre, mio tesoro, ma le vostre leggi!" replicò il giovane.
"Non voglio dare un dispiacere a mio padre. - sospirò la ragazza - Però non è bello scambiarsi di nascosto promesse d'amore come fossimo ladri."
"Arriverà anche il nostro momento, mio bene. " la rassicurò Marco.
"Ma quando?" sospirò ancora lei, offrendogli lelabbra su cui il giovane posò le sue con tenerezza e passione.
"Quando tuo padre si convincerà che la felicità di sua figlia è accanto a me e non a quel vecchio e ricco nababbo a cui vuole darti in moglie."
"Lui non si convincerà mai. Ha dato la sua parola... ma ora devo andare, mio bene. La mia assenza potrebbe essere notata. Neppure tu dovresti restare qui. E' così tenebroso questo posto."
"Hai ascoltato anche tu il racconto del mercante Ben?... Ma non c'è nulla di pauroso qui, se non le parole di Ben, ah,ah,ah..."scherzò Marco, ma Atena non rise e rispose gravemente:
"Io ho paura. Ho la sensazione che occhi malvagi ci stiano osservando. Forse sono gli spiriti degli infelici sacrificati fra queste pietre."
"Tutti i ruderi - spiegò il giovane -sono pieni di mistero, fino a quando questi non vengono completamente riportati alla luce. Sì! E' vero! C'è qualcosa di misterioso fra queste pietre ed io ho solo questa notte per scoprirlo. Ho qui la lampada per far luce quando sarà calata la notte."
"Ma..." tentò di replicare la ragazza.
"Vai tranquilla, mio tesoro.- Marco la salutò con un bacio- Non è la prima volta che passo la notte tra antiche rovine."
Rimasto da solo Marco si rimise al lavoro; uno sciacallo lontano ululava alla luna.
Non erano solo le rovine ad attirarlo. Lo aveva preso quell'ansia febbrile che precede una scoperta e, armato di quella sensazione, Marco cominciò a scavare dappertutto; dappertutto, però, solo sterpaglia, ferri arrugginiti o pilastri sfregiati.
Improvvisamente un particolare colpì la sua attenzione: i monoliti, o quel che ne restava, erano tutti rivolti ad Ovest. Tutti meno uno.
Incuriosito, il giovane decise di dargli un’occhiata più da vicino ed intanto pensava a bassa voce:
"Come sempre, intorno ai resti di un antico insediamento si affollano misteri e segreti... E questa oasi ha certamente il suo segreto da nascondere...E questo che cos'è?"
Pareve una levetta e la tirò, con delicatezza. Con un piccolo cigolio, il rudere si spostò sul lato con tutto il supporto, mettendo in mostra una botola nel terreno.
Marco s’inginocchiò sul bordo per guardarvi dentro.
Là sotto era buio pesto. Sporse la lampada e vide dei gradini. Gli parve di udire dei ruggiti provenire da lì sotto. Si alzò e cominciò a scendere. Contò i gradini; qualcosa come venti o ventuno, prima di incontrare la superficie piana.
Avanzava guardingo; la luce della torcia fendeva l'oscurità ed andò ad illuminare una galleria di quattro o cinque metri di diametro.
"Questo budello deve essere l'antico corso di pietra di un fiume sotterraneo scomparso chissà da quanto tempo. - pensò toccando le pareti sporgenti che i depositi salini avevano formato nei millenni di attività - Queste concrezioni, fra qualche millennio finiranno per chiudersi e seppelliranno per sempre i segreti custoditi quaggiù. Sì!...ma quali segreti?"
Improvvisamente la luce tremolante della torcia illuminò qualcosa: vasi, bacili, cocci di ceramica antica… molto antica!
"Vasi.- pensò il giovane archeologo - Vasi rotti in onore di qualche divinità sconosciuta."
Poi una macabra scoperta: ossa umane e più in là lo scheletro di un ragazzo o forse di una donna.
"Misericordia divina!...Sacrifici umani. Non c'è dubbio! Questi sono resti di sacrifici umani... Sono, forse, capitato tra le rovine di..."
Un fruscio alle spalle, che non gli dette il tempo di portare a termine la riflessione, nè gli consentì di voltarsi e subito dopo, un gran colpo alla testa lo sprofondò nel nulla.
Intanto che nei sotterranei dei ruderi accadeva tutto questo, fuori, con le prime luci dell'alba, Ibrahim e sir Richard, attirati all'aperto da una inspiegabile inquietudine, si aggiravano fra le tende; da lontano giungeva l'eco prolungata di ruggiti.
“Avete sentito anche voi, Ben? - domandò il lord inglese - Sta accadendo qualcosa di strano, qui."
"Questo posto non mi piace." replicò l'arabo.
"Sarebbe meglio andar via." suggerì Assan, che li aveva raggiunti; l’aria fredda strappava alle bocche sbuffi di vapori.
Inutile proposta, erano già tutti in piedi e pronti a partire. Qualcuno, d’un tratto, mandò un urlo:
"Là...una pantera."
Si girarono tutti nella direzione indicata.
L'inglese imbracciò il fucile, ma la fiera era già scomparsa tra le palme dell'oasi.
La cercarono nell'interno, ma giunti in prossimità di un laghetto ebbero un'agghiacciante sorpresa: gli avanzi di un corpo umano divorato dalle belve; solo gli abiti, laceri ed insanguinati, rivelavano il nome dell'infelice: Marco Starti, l’archeologo.
"Via. Non è spettacolo per voi." il capo allontanò le donne.
"Che cosa c'è di tanto spaventoso?" domandò una di loro.
"C'è il corpo del professore divorato dalle fiere."
"La Maledizione! – proruppe il piccolo Akim, sopraggiunto di corsa, - La maledizione dei Figli della Morte lo ha colpito... Ha bevuto l'acqua maligna."
Akim distolse lo sguardo dall'orribile spettacolo e si girò per allontanarsi; appena in tempo per vedere Atena, alle sue spalle, lasciarsi cadere a terra priva di sensi, senza un gemito né una parola,
Letizia, la sorella, la raccolse tra le braccia.
Marco si aggirava tra i numerosi affioramenti che costituivano la parte più suggestiva dell'oasi: ovunque monoliti monchi o altrimenti sfregiati; una gran quantità di sterpaglia aggrediva avanzi di antiche glorie che ancora sfidavano il deserto ed i suoi oltraggi.
Qualcosa lo attirava fatalmente.
Forse il racconto di Ben.
Era così immerso nelle ricerche che non si avvide dell'ombra che avanzava alle spalle, poi una voce dolcissima lo scosse:
"Marco, mio signore."
Era Atena, la figlia di Aristos Gallas , il mercante greco.
Il volto proteso, gli occhi scuri e luminosi cui gli ultimi raggi del sole morente traevano bagliori, Atena era bellissima. La figura, sotto la veste di seta celeste a fiori si indovinava slanciata ed aggraziata; si chinò al fianco del giovane.
"Non sono il tuo signore, cara, ma l'uomo che ti ama." sorrise il giovane allargando le braccia.
"Le tue dolci parole non diminuiscono la mia pena.- disse la ragazza- Mio padre è ingiusto!"
"Non tuo padre, mio tesoro, ma le vostre leggi!" replicò il giovane.
"Non voglio dare un dispiacere a mio padre. - sospirò la ragazza - Però non è bello scambiarsi di nascosto promesse d'amore come fossimo ladri."
"Arriverà anche il nostro momento, mio bene. " la rassicurò Marco.
"Ma quando?" sospirò ancora lei, offrendogli lelabbra su cui il giovane posò le sue con tenerezza e passione.
"Quando tuo padre si convincerà che la felicità di sua figlia è accanto a me e non a quel vecchio e ricco nababbo a cui vuole darti in moglie."
"Lui non si convincerà mai. Ha dato la sua parola... ma ora devo andare, mio bene. La mia assenza potrebbe essere notata. Neppure tu dovresti restare qui. E' così tenebroso questo posto."
"Hai ascoltato anche tu il racconto del mercante Ben?... Ma non c'è nulla di pauroso qui, se non le parole di Ben, ah,ah,ah..."scherzò Marco, ma Atena non rise e rispose gravemente:
"Io ho paura. Ho la sensazione che occhi malvagi ci stiano osservando. Forse sono gli spiriti degli infelici sacrificati fra queste pietre."
"Tutti i ruderi - spiegò il giovane -sono pieni di mistero, fino a quando questi non vengono completamente riportati alla luce. Sì! E' vero! C'è qualcosa di misterioso fra queste pietre ed io ho solo questa notte per scoprirlo. Ho qui la lampada per far luce quando sarà calata la notte."
"Ma..." tentò di replicare la ragazza.
"Vai tranquilla, mio tesoro.- Marco la salutò con un bacio- Non è la prima volta che passo la notte tra antiche rovine."
Rimasto da solo Marco si rimise al lavoro; uno sciacallo lontano ululava alla luna.
Non erano solo le rovine ad attirarlo. Lo aveva preso quell'ansia febbrile che precede una scoperta e, armato di quella sensazione, Marco cominciò a scavare dappertutto; dappertutto, però, solo sterpaglia, ferri arrugginiti o pilastri sfregiati.
Improvvisamente un particolare colpì la sua attenzione: i monoliti, o quel che ne restava, erano tutti rivolti ad Ovest. Tutti meno uno.
Incuriosito, il giovane decise di dargli un’occhiata più da vicino ed intanto pensava a bassa voce:
"Come sempre, intorno ai resti di un antico insediamento si affollano misteri e segreti... E questa oasi ha certamente il suo segreto da nascondere...E questo che cos'è?"
Pareve una levetta e la tirò, con delicatezza. Con un piccolo cigolio, il rudere si spostò sul lato con tutto il supporto, mettendo in mostra una botola nel terreno.
Marco s’inginocchiò sul bordo per guardarvi dentro.
Là sotto era buio pesto. Sporse la lampada e vide dei gradini. Gli parve di udire dei ruggiti provenire da lì sotto. Si alzò e cominciò a scendere. Contò i gradini; qualcosa come venti o ventuno, prima di incontrare la superficie piana.
Avanzava guardingo; la luce della torcia fendeva l'oscurità ed andò ad illuminare una galleria di quattro o cinque metri di diametro.
"Questo budello deve essere l'antico corso di pietra di un fiume sotterraneo scomparso chissà da quanto tempo. - pensò toccando le pareti sporgenti che i depositi salini avevano formato nei millenni di attività - Queste concrezioni, fra qualche millennio finiranno per chiudersi e seppelliranno per sempre i segreti custoditi quaggiù. Sì!...ma quali segreti?"
Improvvisamente la luce tremolante della torcia illuminò qualcosa: vasi, bacili, cocci di ceramica antica… molto antica!
"Vasi.- pensò il giovane archeologo - Vasi rotti in onore di qualche divinità sconosciuta."
Poi una macabra scoperta: ossa umane e più in là lo scheletro di un ragazzo o forse di una donna.
"Misericordia divina!...Sacrifici umani. Non c'è dubbio! Questi sono resti di sacrifici umani... Sono, forse, capitato tra le rovine di..."
Un fruscio alle spalle, che non gli dette il tempo di portare a termine la riflessione, nè gli consentì di voltarsi e subito dopo, un gran colpo alla testa lo sprofondò nel nulla.
Intanto che nei sotterranei dei ruderi accadeva tutto questo, fuori, con le prime luci dell'alba, Ibrahim e sir Richard, attirati all'aperto da una inspiegabile inquietudine, si aggiravano fra le tende; da lontano giungeva l'eco prolungata di ruggiti.
“Avete sentito anche voi, Ben? - domandò il lord inglese - Sta accadendo qualcosa di strano, qui."
"Questo posto non mi piace." replicò l'arabo.
"Sarebbe meglio andar via." suggerì Assan, che li aveva raggiunti; l’aria fredda strappava alle bocche sbuffi di vapori.
Inutile proposta, erano già tutti in piedi e pronti a partire. Qualcuno, d’un tratto, mandò un urlo:
"Là...una pantera."
Si girarono tutti nella direzione indicata.
L'inglese imbracciò il fucile, ma la fiera era già scomparsa tra le palme dell'oasi.
La cercarono nell'interno, ma giunti in prossimità di un laghetto ebbero un'agghiacciante sorpresa: gli avanzi di un corpo umano divorato dalle belve; solo gli abiti, laceri ed insanguinati, rivelavano il nome dell'infelice: Marco Starti, l’archeologo.
"Via. Non è spettacolo per voi." il capo allontanò le donne.
"Che cosa c'è di tanto spaventoso?" domandò una di loro.
"C'è il corpo del professore divorato dalle fiere."
"La Maledizione! – proruppe il piccolo Akim, sopraggiunto di corsa, - La maledizione dei Figli della Morte lo ha colpito... Ha bevuto l'acqua maligna."
Akim distolse lo sguardo dall'orribile spettacolo e si girò per allontanarsi; appena in tempo per vedere Atena, alle sue spalle, lasciarsi cadere a terra priva di sensi, senza un gemito né una parola,
Letizia, la sorella, la raccolse tra le braccia.