LA DECIMA LEGIONE
Uno spaccato di vita della Roma Antica in epoca imperiale, quando il Cristianesimo vi approdò assieme a molti altri culti orientali, mettendovi definitivamente radici.
Cristiani e pagani, imperatori e generali, vestali e prostitute, gladiatori e pretoriani, tribuni e senatori, schiavi e liberti, filosofi e pedagoghi, mercanti e fuorilegge.
Roma antica: una città che riservava infinite sorprese, muovendosi tra vicoli malfamati, strade elegantissime e sontuose dimore.
Forti emozioni, travolgenti colpi di scena... immergetevi nelle pagine di questi libri e ne uscirete solo alla fine della lettura:
- LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses Vol. I
- LA DECIMA LEGIONE - La caduta del Tempio Vol. II
Brevi cenni sull'autrice
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Presentazione del I° volume
LA DECIMA LEGIONE
Panem et Circenses
Volume I
Correva l’anno 882-883. il 68-69 dell’era cristiana: l’anno più lungo di tutta la storia dell’Antica Roma, che vide la cruenta fine di quattro imperatori.
Anno di violenze e congiure, la “Capitale del Mondo” fu campo di battaglie private e pubbliche; teatro di complotti ed intrighi: pretoriani e senatori, legionari e gladiatori, filosofi e letterati, schavi e liberti, vestali e prostitute, maghi e fuorilegge.
Fu anche l’anno in cui il Cristianesimo, approdato a Roma assieme a molti altri culti orientali, metteva i primi germogli, pur tra sospetti, speranze e persecuzioni.
Intrappolati nelle maglie delle tante manovre civili, politiche e militari, si trovarono anche il tribuno Marco Valerio e il
centurione Fabio, il filosofo Lucilio e il pedagogo Cleonte, i gladiatori Milos e Seilace e il taverniere Trebonio, la vestale Ottavia e la prigioniera di guerra Tracia, il piccolo fuorilegge Aquilinus e la giovane ereditiera Livilla, l’ostaggio Lucilla e tanti altri ancora.
Uno spaccato di vita nella Roma d’epoca imperiale in cui il potere sul popolo si esercitava assicurandogli:
PANEM ET CIRCENSES
ossia:
Pane e gioghi gladiatori, fino a quando….
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Alcuni brani tratti dal libro
Uccelli di rapina
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.Come sempre, c’era grande animazione in giro a quell’ora del mattino. Marco Valerio, l’indomani, stava
tornando a casa dal Campo Marzio, dopo una visita ai suoi uomini.
Sciami di ragazzini si muovevano in gruppi di cinque o sei, come stormi di uccelli in migrazione, spostandosi qua e là per i vicoli.
Uno di loro lo fissò con insistenza e lo urtò all’altezza della spalla, proprio mentre smontava di
sella, davanti a casa. Si accorse subito che la phalera attaccata al petto sul lato sinistro della lorica era sparita. Affidate
le redini del cavallo a uno schiavo, si girò; il ladruncolo andava per la sua strada, ostentando tranquillità.
Marco lo raggiunse e l’afferrò per il cordino di pelle che gli assicurava al collo la bulla
infantile e gli fece fare una piroetta.
“No! No! – disse in tono ironico – Non è la tattica giusta! Il tocco è leggero e veloce, sì… ma va perfezionato
con un po’ più di morbidezza. E sorridi. Un sorriso distoglie sempre l’attenzione…”
L’altro ascoltava impassibile.
“Guarda in faccia la preda, ma non portare mai lo sguardo su ciò che vuoi portarle via…- riprese - Ed ora,
tira fuori la mia phalera.”
“Quale phalera?” fece il piccolo, per tutta risposta, abbozzando un’espressione smarrita e innocente.
“Quella che nascondi sotto gli stracci. Quella borchia mi è costata questa ferita. – Marco, che in altra
circostanza lo avrebbe mandato a gambe levate, si limitò a mostrargli lavistosa cicatrice al braccio sinistro – Come ti chiami?”
chiese.
“Mi chiamo Vinicio. – rispose quello con una scrollatina di spalle e due occhietti furbi sulla faccia sporca,
accesi come faretti – Ma anche Valerio o Giulio… perciò, tribuno, chiamami come ti pare.”
Marco lo ascoltava esterrefatto e ammirato insieme: quella piccola canaglia non mostrava il minimo segno di
rispetto o timore, il timbro della voce era sfacciato e lo sguardo disincantato.
“… ma gli amici mi chiamano Aquilinus – lo sentì riprendere - e ti concedo di chiamarmi così! Tra uccelli
di rapina ci si comprende.”
“Ah.ah.ah… - Marco non riuscì proprio a trattenere una sonora risata – Non sono tuo amico e…”
“Vuoi consegnarmi alle guardie?" l’interruppe quello.
“E’ quello che meriteresti, insieme ad una buona dose di frustate… ma oggi sono magnanimo e mi basta
riavere la mia phalera… Uccelli di rapina… Che mi tocca sentire… - l’altro tese la borchia d’oro – Vai, ora. Corri… prima che ci ripensi… Uccelli di rapina!”
Aquilinus si dileguò immediatamente.
“Uccelli di rapina! – continuava a ripetere sottovoce il giovane –Ah.ah.ah… se è vero! Quella piccola canaglia
ha proprio ragione! Quella volta tra i Rostri…”
Quanto tempo era passato? Quanti anni? Era ancora ragazzo e il tempo per lasciare la bulla infantile era ancora lontano. Si aggiravano, ricordò, tra le viuzze del mercato, lui e quella banda di oziosi e prepotenti, vestiti come servi, ghignando e
sbeffeggiando. Chi erano i compagni di quelle scorribande? Otone, Silio, Metello e… e Cesare, naturalmente. Sua madre, ricordò, gli aveva proibito quella licenziosa compagnia. Si lasciò andare un sospiro, poi si girò verso lo schiavo
atriense e chiese di Lucillla. Gli dissero che era andata al mercato, ma udì la voce della ragazza provenire da una delle entrate di servizio.
Si portò verso quella parte della casa e la trovò circondata da una turba di ragazzini, cinque, sei o sette
anni, seminudi, malvestiti e scalzi. Stava distribuendo loro, aiutata dal piccolo Lucio, i lauti avanzi del banchetto.
La piccola turbolenta masnada era divisa in due file in impaziente attesa. Gli uni in faccia agli altri.
Alcuni inforcavano bastoni di legno o grossi rami ricurvi, a mò di cavalcatura, altri avevano in mano palle di pezza, riempite con sabbia. All’infuori di un paio di loro, che portavano al collo la bulla con gli amuleti, indossavano tutti lacere tuniche dai colori incerti e dalle taglie troppo grandi.
Erano i piccoli rifiuti della società: esposti dalle famiglie ed emarginati dalla società. C’era anche una bambina tra loro, vestita solamente di una specie di largo, informe camicione tenuto attorno all’esile vita da una corda sfilacciata.
Esporre un figlio era ancora una pratica legale ed accettata. Rientrava nei poteri del pater familias riconoscere e accettare un figlio oppure non riconoscerlo e abbandonarlo: accettarlo sollevandolo da terra, dove la levatrice lo deponeva al
momento della nascita, o esporlo fuori della porta di casa, tra i rifiuti. Il più delle volte, però, era abbandonato ai piedi della Colonna
Lattariae, per quanto strano potesse essere, erano proprio le famiglie patrizie a ricorrere più spesso a quel
costume.
Lucilla li conosceva tutti e li chiamava tutti per nome. Scherzando, il vecchio Licinio diceva che quella era
la sua “corte di clienti”.
Lucilla conosceva le loro storie. Come quella di Marcus, fatto esporre dal padrone di sua madre. O
quella di Vibio, che una patrizia aveva messo al mondo senza contrarre matrimonio.
La storia più triste, però, era quella di Citia, diminutivo di Spurcitia, che doveva il nome al luogo dove era stata trovata e dove era
cresciuta. Era una bambina bellissima, dai tratti nobili e fini: di certo, il frutto di qualche illecita relazione amorosa.
(continua)
brano tratto dal libro LA DECIMA LEGIONE Panem et Circenses VOL. I
tornando a casa dal Campo Marzio, dopo una visita ai suoi uomini.
Sciami di ragazzini si muovevano in gruppi di cinque o sei, come stormi di uccelli in migrazione, spostandosi qua e là per i vicoli.
Uno di loro lo fissò con insistenza e lo urtò all’altezza della spalla, proprio mentre smontava di
sella, davanti a casa. Si accorse subito che la phalera attaccata al petto sul lato sinistro della lorica era sparita. Affidate
le redini del cavallo a uno schiavo, si girò; il ladruncolo andava per la sua strada, ostentando tranquillità.
Marco lo raggiunse e l’afferrò per il cordino di pelle che gli assicurava al collo la bulla
infantile e gli fece fare una piroetta.
“No! No! – disse in tono ironico – Non è la tattica giusta! Il tocco è leggero e veloce, sì… ma va perfezionato
con un po’ più di morbidezza. E sorridi. Un sorriso distoglie sempre l’attenzione…”
L’altro ascoltava impassibile.
“Guarda in faccia la preda, ma non portare mai lo sguardo su ciò che vuoi portarle via…- riprese - Ed ora,
tira fuori la mia phalera.”
“Quale phalera?” fece il piccolo, per tutta risposta, abbozzando un’espressione smarrita e innocente.
“Quella che nascondi sotto gli stracci. Quella borchia mi è costata questa ferita. – Marco, che in altra
circostanza lo avrebbe mandato a gambe levate, si limitò a mostrargli lavistosa cicatrice al braccio sinistro – Come ti chiami?”
chiese.
“Mi chiamo Vinicio. – rispose quello con una scrollatina di spalle e due occhietti furbi sulla faccia sporca,
accesi come faretti – Ma anche Valerio o Giulio… perciò, tribuno, chiamami come ti pare.”
Marco lo ascoltava esterrefatto e ammirato insieme: quella piccola canaglia non mostrava il minimo segno di
rispetto o timore, il timbro della voce era sfacciato e lo sguardo disincantato.
“… ma gli amici mi chiamano Aquilinus – lo sentì riprendere - e ti concedo di chiamarmi così! Tra uccelli
di rapina ci si comprende.”
“Ah.ah.ah… - Marco non riuscì proprio a trattenere una sonora risata – Non sono tuo amico e…”
“Vuoi consegnarmi alle guardie?" l’interruppe quello.
“E’ quello che meriteresti, insieme ad una buona dose di frustate… ma oggi sono magnanimo e mi basta
riavere la mia phalera… Uccelli di rapina… Che mi tocca sentire… - l’altro tese la borchia d’oro – Vai, ora. Corri… prima che ci ripensi… Uccelli di rapina!”
Aquilinus si dileguò immediatamente.
“Uccelli di rapina! – continuava a ripetere sottovoce il giovane –Ah.ah.ah… se è vero! Quella piccola canaglia
ha proprio ragione! Quella volta tra i Rostri…”
Quanto tempo era passato? Quanti anni? Era ancora ragazzo e il tempo per lasciare la bulla infantile era ancora lontano. Si aggiravano, ricordò, tra le viuzze del mercato, lui e quella banda di oziosi e prepotenti, vestiti come servi, ghignando e
sbeffeggiando. Chi erano i compagni di quelle scorribande? Otone, Silio, Metello e… e Cesare, naturalmente. Sua madre, ricordò, gli aveva proibito quella licenziosa compagnia. Si lasciò andare un sospiro, poi si girò verso lo schiavo
atriense e chiese di Lucillla. Gli dissero che era andata al mercato, ma udì la voce della ragazza provenire da una delle entrate di servizio.
Si portò verso quella parte della casa e la trovò circondata da una turba di ragazzini, cinque, sei o sette
anni, seminudi, malvestiti e scalzi. Stava distribuendo loro, aiutata dal piccolo Lucio, i lauti avanzi del banchetto.
La piccola turbolenta masnada era divisa in due file in impaziente attesa. Gli uni in faccia agli altri.
Alcuni inforcavano bastoni di legno o grossi rami ricurvi, a mò di cavalcatura, altri avevano in mano palle di pezza, riempite con sabbia. All’infuori di un paio di loro, che portavano al collo la bulla con gli amuleti, indossavano tutti lacere tuniche dai colori incerti e dalle taglie troppo grandi.
Erano i piccoli rifiuti della società: esposti dalle famiglie ed emarginati dalla società. C’era anche una bambina tra loro, vestita solamente di una specie di largo, informe camicione tenuto attorno all’esile vita da una corda sfilacciata.
Esporre un figlio era ancora una pratica legale ed accettata. Rientrava nei poteri del pater familias riconoscere e accettare un figlio oppure non riconoscerlo e abbandonarlo: accettarlo sollevandolo da terra, dove la levatrice lo deponeva al
momento della nascita, o esporlo fuori della porta di casa, tra i rifiuti. Il più delle volte, però, era abbandonato ai piedi della Colonna
Lattariae, per quanto strano potesse essere, erano proprio le famiglie patrizie a ricorrere più spesso a quel
costume.
Lucilla li conosceva tutti e li chiamava tutti per nome. Scherzando, il vecchio Licinio diceva che quella era
la sua “corte di clienti”.
Lucilla conosceva le loro storie. Come quella di Marcus, fatto esporre dal padrone di sua madre. O
quella di Vibio, che una patrizia aveva messo al mondo senza contrarre matrimonio.
La storia più triste, però, era quella di Citia, diminutivo di Spurcitia, che doveva il nome al luogo dove era stata trovata e dove era
cresciuta. Era una bambina bellissima, dai tratti nobili e fini: di certo, il frutto di qualche illecita relazione amorosa.
(continua)
brano tratto dal libro LA DECIMA LEGIONE Panem et Circenses VOL. I
Le Feste Floralie
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...in onore della dea Flora, avevano inizio il ventotto di aprile e si protraevano
per sei giorni: una grande manifestazione di giubilo che la gente del Tevere
tributava alla Dea che salutava il risveglio della natura. I festeggiamenti
avvenivano all’interno del Circo Massimo; partivano dall’Aventino e
trasformavano le strade in tappeti di petali di fiori e foglie. Già alle prime
luci dell’alba, il simulacro della Dea, sepolto da ghirlande, era portato in
processione per la città.
In quei giorni ognuno dimenticava guai e disgrazie e si dava all’allegria più sfrenata: i padroni fraternizzavano con gli schiavi, i giovani intrecciavano idilli e tutti si scambiavano doni.
Il Foro era affollatissimo; canti e danze erano iniziati già dalla sera precedente e stavano per
ricominciare dopo la pausa mattutina.
Lucilla si era alzata presto per recarsi al mercato a comprare fiori; quelli del giardino erano belli, mimose,
primule e margherite, ma era un peccato reciderli per farne ghirlande.
La processione comparve in fondo alla Via Sacra; sul carro una giovane lanciava rose; Lucilla si fermò ed anche
lei ne ricevette una mezza dozzina, poi si lasciò attirare dalla gente assiepata davanti alla spelonca di Caco, alle spalle del Tempio di Diana.
Nell’antro dimorava un indovino e la gente era in paziente attesa che l’uomo degli Dei interpretasse il volere
divino attraverso il volo degli uccelli, lo stormire delle foglie o attraverso altri fenomeni ancora.
A Roma si rideva dell superstizione, ma poi, tutti si accalcavano davanti a quelle spelonche.
Lucilla, in prima fila, ascoltava attenta quanto l’indovino andava profetizzando all’uomo che le era di
spalle; aveva sentito la domanda e ascoltò la risposta.
“Un figlio settimino è una benedizione degli Dei! - stava spiegando l’indovino - E’ un eletto che la mano
sacra di Giunone ha guidato verso la luce in un tempo che non è dato a tutti.”
Lucilla ascoltava e sbirciava nell’ombra, nella speranza di vedere il volto dell’uomo ispirato. Poteva
vedere, ma a malapena, una faccia pallida e dai tratti irregolari, due occhi azzurri e capelli bianchi che un tempo dovevano essere stati biondi.
Tese l’orecchio.
“Un figlio settimino è una benedizione! - la voce dell’indovino era vibrante e forte - Hai forse motivo di
lagnarti di tua moglie?” lo udì chiedere, in tono quasi di rimprovero.
“No! No! - si affrettò a chiarire l’uomo - E’ ubbidiente e bella. Molto bella!” aggiunse dopo una lieve
pausa, quasi di incertezza.
“Torna a casa e guarda tuo figlio: troverai un po’ di te in lui.”
Il tono della voce era un ordine e l’uomo, rassicurato, tese le due galline che aveva con sé, legate per i
piedi: il prezzo, pensò Lucilla, per cancellare un dubbio. Nel voltarsi per andar via, l’uomo le passò vicino; una mano intanto era comparsa alla destra del sacerdote per afferrare i due volatili.
“Oh Dei! - esclamò Lucilla sottovoce, ma non tanto da non farsi udire dall’indovino - E’ così brutto.”
L’inquietante angolosità di quel volto, come tagliato a colpi di accetta, la pelle cosparsa di foruncoli,
paonazza per uno sciagurato o forse necessario, trasporto per il vino, pur
senza essere veramente brutto, l’uomo appariva davvero di aspetto ripugnante.
“E’ per questo che dubita della moglie. - la sorprese la voce del sacerdote - Se ne sente indegno e per questo l’accusa.”
Lucilla dirottò lo sguardo verso l’indovino e il suo sorriso accattivante; l’espressione del suo volto, però, le
parve troppo furba. Mani e braccia, per di più, avevano il vigore di un uomo non ancora vecchio. I capelli erano bianchi, come le sopracciglia e la barba, ma nessuna ruga gli solcava la faccia e il collo. Le mani, appoggiate a un corto ramo di quercia, non erano nocchiute come quelle di un vecchio, nè venose; lo sguardo, poi, era rapido e scattante come quello di un rapace e da
tutta la fisionomia traspariva qualcosa di innaturale e ingannevole.
“Gli uomini sono davvero sciocchi! – sentenziò; dietro di lei qualcuno spingeva - Se hanno una donna
inferiore a loro la trattano con disprezzo, se invece la donna è superiore la trattano con sospetto. Gli uomini sono sciocchi e presuntuosi!”
“Sei molto acuta, figliuola mia.”sorrise l’altro.
“E i figli? Sono le donne che li portano alla luce dopo averli tenuti in grembo per nove mesi. Sono le donne che
dovrebbero decidere dei figli ed invece basta che un bambino nasca un po’ prima del tempo consentito dagli Dei ed ecco che... Oh! - s’interruppe, col volto in fiamme – Oh, perdonami, uomo degli Dei. Perdonami. Non volevo importunarti.-”
“Non hai nulla chiedere per te?”
La voce dell’indovino era cordiale e pareva anche divertita.
“Oh! Da chiedere avrei tante cose, ma non potrei sdebitarmi con te né con gli Dei. Oltre quello che mi vedi
addosso non ho niente. Ti potrei dare questa collanina...ma che te ne fai? Non vale niente!”
“E se invece ti dicessi che per me è preziosa perché a portarla al collo è una Dea travestita da schiava?”
sorrise l’indovino.
“Ti direi che sei pazzo!” rispose candidamente la ragazza.
”Ah,ah. - rise quegli, poi continuò - Fammi la domanda.”
(continua)
brano tratto dal libro di Maria PACE. LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses
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Di che cosa parlavano i maschi romani alle Terme?
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Recarsi alle Terme era per Marco solo un pretesto per incontrare gli amici ma, all’infuori di Sabino, non avevano incontrato altri.
Dopo una breve sosta nel frigidarium, nelle cui acque si rinfrescarono, decisero di raggiungere il Gymnasium.
Ridiscesero in cortile e raggiunsero la Basilica, un grandioso edificio a forma di cupola che ospitava biblioteche e sale di conversazione. Si fermarono in una sala molto simile a un triclinio, con una via-vai di schiavi carichi di vassoi pieni di salsicce, pizze e focacce provenienti direttamente dai thermopolium.
Quello dei termopulai a Roma era uno dei mestieri più lucrosi!
Quattro colonne di marmo reggevano il soffitto decorato. Vicino alla terza colonna, sdraiato sul primo dei quattro lettini trovarono Cleonte il greco, impegnato con Metello Fabrio in una controversa conversazione sulla plebe e il suo “rancore sociale”. Il suo gesticolare impediva a una spaurita e incauta Psiche, sulla parete alle sue spalle, di contemplare le splendide fattezze di Amore. Accanto alla pittura, una scritta dissacrante recitava: “Cornelio Lepido è il finocchio del suo schiavo Rodomonte.”
“Per Ercole! Mi piacerebbe veder nudo il focoso Rodomonte.” rise Sabino, trascinandosi dietro la risata degli altri, che si divisero subito nel giudizio come se si trattasse di un gioco combinato.
“Merito alla Legge Scantinia, senza la quale certe sfrontatezze porterebbero al degrado dell’Amore.” osservò Marco che, provenendo dall’ambiente militare, mal tollerava l’omosessualità.
La Lex Scantinia era un insieme di norme che regolavano il dilagare delle pratiche omosessuali in Roma.
“Amore? - replicò Sabino - Ma quale Amore?”
“Chiediamolo al pedagogo Cleonte. - interloquì Metello - Chiediamogli se è Amore quello per una donna, necessario a perpetrare la specie o quello per un giovine, sollecitato da libido.”
“La Natura riesce sempre a far bene il suo mestiere.- esordì il
greco, chiamato in causa - L’Amore per donne e fanciulle?... La Natura suscita frenetiche passioni nei riguardi di donne e fanciulle, ma accende anche irrefrenabili ardori verso altri uomini o fanciulli.... E’ un altro, il richiamo da ignorare: quello che si prende nelle vesti o nel letto di qualcuno che ti è indifferente.... Quello il solo delitto in Amore!”
“L’intimità con un maschio è indecenza solo se la compiacenza fosse strappata con la violenza!”
“E Rodomonte? - domandò Sabino - Non mi pareva che approvassi il legame di Rodomonte con Cornelio.”
“E’ l’approccio che è disdicevole. - rettificò il filosofo - Per Cornelio Lepido è riprovevole subire gli appetiti del suo schiavo!”
“Soprattutto oggi che servi e schiavi accampano sempre nuove pretese. Parlano di giustizia e libertà... parole che hanno sempre ubriacato la gente!” fece osservare l’altro.
“Non ubriacato, ma dato la spinta a malumori apparentemente sonnacchiosi e pronti a sfociare in rivolta.” replicò Lucilio.
“Grano, spettacoli e robuste catene: così si tengono sopiti i malumori della plebe.” Silio Italico s’inserì nel dialogo fra il filosofo e il Prefetto.
“Malumori… rancori sociali! – interloquì Marco - Io sono un soldato e combatto con la spada, non con la parola, ma so che
esistono Leggi che danno regole alla società!”
“Leggi che assicurano privilegi a chi ne hà già!” replicò Cleonte.
“Ecco cosa intendevo! - intervenne il filosofo – E’ giusto che alcuni sperperino senza misura e ad altri manchi il necessario? Che alcuni si prendano potenza, onore e ricchezze lasciando agli altri processi e condanne? – una pausa, ma solo per riprendere fiato, poi Lucilio continuò, con parole, gesti e pause ben dosati - Il malcostume scende dall’alto, ma è dal basso che il malumore si manifesta per primo: liberti arroganti, strozzini, senatori asserviti e... e dall’altro versante, contadini scacciati dalle terre, gente strozzata da debiti… ”
“Basta così! - lo interruppe Metello - Sei sapiente nell’affilare le tue parole, ma hai offeso tutti, qui! Siamo nobili e senatori e non siamo come ci dipingi tu.”
“Io non dico nulla che non sia già stato detto con i fatti. Svegliatevi! Solo un atto di coraggio può fermare questa cancrena e togliere il male alla radice. Molti la pensano così, ma pochi hanno il coraggio di affermarlo.”
“E’ l’ordine attuale, quello che tu contesti, Lucilio. - insinuò il Prefetto - E’ il sovvertimento delle regole.”
“Parole pericolose per te che le dici come per noi che le ascoltiamo. - Silio serrò in una espressione minacciosa le gia strette fessure che erano i suoi occhi - Se continui a snocciolare il tuo “rancore sociale” con tanta sicumera, finirai male. Per cosa è che metti in gioco la tua vita, filosofo?”
“Metto in gioco la mia vita per qualcosa di molto prezioso!”
“E cosa sarebbe?” domandarono tutti in coro.
“La libertà di pensare! – rispose lapidario il filosofo - La capacità di liberarsi delle catene dello strozzino e del capestro degli interessi.... che poi è quello di cui avete bisogno voi tutti, se non sbaglio!… Per questo parlo di coraggio. Ci vuole coraggio per abbattere il malcostume. Il buon Seneca… gli Dei l’abbiano in gloria… diceva: Cum mori est nobis nullo auxilio sumus. E...”
“La tua lingua si muove troppo liberamente! - anche Metello lo ammonì, mentre continuava a battere nervosamente il coltello contro la coppa che gli stava davanti – Tienila a freno. Hai bevuto a troppe coppe imbevute di stoicismo: provvedi e non strozzarti!”
In fondo alla stanza, sull’uscio della grande porta d’accesso ai sotterranei, uomini sudati, sporchi di carbone, sepolti sotto carichi di legna, andavano e venivano gettando loro addosso stanche occhiate. Lucilio li additava di tanto in tanto, come a significare che era a gente come quella che si riferiva, ma quelli non si degnavano neppure di voltarsi a guardare.
“I fulmini della tua eloquenza vagano incontrollati - ancora Italico - e minacciano di incenerire questa allegra compagnia.”
“Le vostre sono solo pomposità verbali che servono a nascondere i vizi dei tempi in cui viviamo. – Lucilio era ormai lanciato - Parlate ma non dite! Spiegatemi... chi di voi ha scritto di Cornelio e del suo schiavo? E stato uno di voi... così, per ridere, ma non avete nemmeno il coraggio di attribuirvi ciò che dite per far ridere!”
“Lucilio mette sempre troppa passione nelle dispute.” intervenne a questo punto Marco, nel tentativo di allontanare l’amico dalla pericolosa logomachia in cui minacciava di affondare; dentro di sé, però, pensava che si commettevano più infamie là dentro nel giro di una giornata che in qualunque altro posto e temeva per l’amico.
Dopo una breve sosta nel frigidarium, nelle cui acque si rinfrescarono, decisero di raggiungere il Gymnasium.
Ridiscesero in cortile e raggiunsero la Basilica, un grandioso edificio a forma di cupola che ospitava biblioteche e sale di conversazione. Si fermarono in una sala molto simile a un triclinio, con una via-vai di schiavi carichi di vassoi pieni di salsicce, pizze e focacce provenienti direttamente dai thermopolium.
Quello dei termopulai a Roma era uno dei mestieri più lucrosi!
Quattro colonne di marmo reggevano il soffitto decorato. Vicino alla terza colonna, sdraiato sul primo dei quattro lettini trovarono Cleonte il greco, impegnato con Metello Fabrio in una controversa conversazione sulla plebe e il suo “rancore sociale”. Il suo gesticolare impediva a una spaurita e incauta Psiche, sulla parete alle sue spalle, di contemplare le splendide fattezze di Amore. Accanto alla pittura, una scritta dissacrante recitava: “Cornelio Lepido è il finocchio del suo schiavo Rodomonte.”
“Per Ercole! Mi piacerebbe veder nudo il focoso Rodomonte.” rise Sabino, trascinandosi dietro la risata degli altri, che si divisero subito nel giudizio come se si trattasse di un gioco combinato.
“Merito alla Legge Scantinia, senza la quale certe sfrontatezze porterebbero al degrado dell’Amore.” osservò Marco che, provenendo dall’ambiente militare, mal tollerava l’omosessualità.
La Lex Scantinia era un insieme di norme che regolavano il dilagare delle pratiche omosessuali in Roma.
“Amore? - replicò Sabino - Ma quale Amore?”
“Chiediamolo al pedagogo Cleonte. - interloquì Metello - Chiediamogli se è Amore quello per una donna, necessario a perpetrare la specie o quello per un giovine, sollecitato da libido.”
“La Natura riesce sempre a far bene il suo mestiere.- esordì il
greco, chiamato in causa - L’Amore per donne e fanciulle?... La Natura suscita frenetiche passioni nei riguardi di donne e fanciulle, ma accende anche irrefrenabili ardori verso altri uomini o fanciulli.... E’ un altro, il richiamo da ignorare: quello che si prende nelle vesti o nel letto di qualcuno che ti è indifferente.... Quello il solo delitto in Amore!”
“L’intimità con un maschio è indecenza solo se la compiacenza fosse strappata con la violenza!”
“E Rodomonte? - domandò Sabino - Non mi pareva che approvassi il legame di Rodomonte con Cornelio.”
“E’ l’approccio che è disdicevole. - rettificò il filosofo - Per Cornelio Lepido è riprovevole subire gli appetiti del suo schiavo!”
“Soprattutto oggi che servi e schiavi accampano sempre nuove pretese. Parlano di giustizia e libertà... parole che hanno sempre ubriacato la gente!” fece osservare l’altro.
“Non ubriacato, ma dato la spinta a malumori apparentemente sonnacchiosi e pronti a sfociare in rivolta.” replicò Lucilio.
“Grano, spettacoli e robuste catene: così si tengono sopiti i malumori della plebe.” Silio Italico s’inserì nel dialogo fra il filosofo e il Prefetto.
“Malumori… rancori sociali! – interloquì Marco - Io sono un soldato e combatto con la spada, non con la parola, ma so che
esistono Leggi che danno regole alla società!”
“Leggi che assicurano privilegi a chi ne hà già!” replicò Cleonte.
“Ecco cosa intendevo! - intervenne il filosofo – E’ giusto che alcuni sperperino senza misura e ad altri manchi il necessario? Che alcuni si prendano potenza, onore e ricchezze lasciando agli altri processi e condanne? – una pausa, ma solo per riprendere fiato, poi Lucilio continuò, con parole, gesti e pause ben dosati - Il malcostume scende dall’alto, ma è dal basso che il malumore si manifesta per primo: liberti arroganti, strozzini, senatori asserviti e... e dall’altro versante, contadini scacciati dalle terre, gente strozzata da debiti… ”
“Basta così! - lo interruppe Metello - Sei sapiente nell’affilare le tue parole, ma hai offeso tutti, qui! Siamo nobili e senatori e non siamo come ci dipingi tu.”
“Io non dico nulla che non sia già stato detto con i fatti. Svegliatevi! Solo un atto di coraggio può fermare questa cancrena e togliere il male alla radice. Molti la pensano così, ma pochi hanno il coraggio di affermarlo.”
“E’ l’ordine attuale, quello che tu contesti, Lucilio. - insinuò il Prefetto - E’ il sovvertimento delle regole.”
“Parole pericolose per te che le dici come per noi che le ascoltiamo. - Silio serrò in una espressione minacciosa le gia strette fessure che erano i suoi occhi - Se continui a snocciolare il tuo “rancore sociale” con tanta sicumera, finirai male. Per cosa è che metti in gioco la tua vita, filosofo?”
“Metto in gioco la mia vita per qualcosa di molto prezioso!”
“E cosa sarebbe?” domandarono tutti in coro.
“La libertà di pensare! – rispose lapidario il filosofo - La capacità di liberarsi delle catene dello strozzino e del capestro degli interessi.... che poi è quello di cui avete bisogno voi tutti, se non sbaglio!… Per questo parlo di coraggio. Ci vuole coraggio per abbattere il malcostume. Il buon Seneca… gli Dei l’abbiano in gloria… diceva: Cum mori est nobis nullo auxilio sumus. E...”
“La tua lingua si muove troppo liberamente! - anche Metello lo ammonì, mentre continuava a battere nervosamente il coltello contro la coppa che gli stava davanti – Tienila a freno. Hai bevuto a troppe coppe imbevute di stoicismo: provvedi e non strozzarti!”
In fondo alla stanza, sull’uscio della grande porta d’accesso ai sotterranei, uomini sudati, sporchi di carbone, sepolti sotto carichi di legna, andavano e venivano gettando loro addosso stanche occhiate. Lucilio li additava di tanto in tanto, come a significare che era a gente come quella che si riferiva, ma quelli non si degnavano neppure di voltarsi a guardare.
“I fulmini della tua eloquenza vagano incontrollati - ancora Italico - e minacciano di incenerire questa allegra compagnia.”
“Le vostre sono solo pomposità verbali che servono a nascondere i vizi dei tempi in cui viviamo. – Lucilio era ormai lanciato - Parlate ma non dite! Spiegatemi... chi di voi ha scritto di Cornelio e del suo schiavo? E stato uno di voi... così, per ridere, ma non avete nemmeno il coraggio di attribuirvi ciò che dite per far ridere!”
“Lucilio mette sempre troppa passione nelle dispute.” intervenne a questo punto Marco, nel tentativo di allontanare l’amico dalla pericolosa logomachia in cui minacciava di affondare; dentro di sé, però, pensava che si commettevano più infamie là dentro nel giro di una giornata che in qualunque altro posto e temeva per l’amico.
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A CENA CON I ROMANI
“Libi tibi - Marco aprì il banchetto e versò gocce di vino in onore degli Dei - Bacco consenta
numerose coppe!”
Una schiava gli pose sul capo una corona di foglie e fiori che legò con un nastro dietro la nuca; anche lei
portava sul capo rose e foglie intrecciate: un grazioso ornamento che doveva tenere lontano la sbornia. Nessuno ci credeva, naturalmente, ma quelle ghirlande appagavano il senso estetico e tanto bastava!
Tutti i convitati ebbero le loro ghirlande e tutti furono pronti a “lavorare di mascella”, come, poco
prosaicamente, diceva Lucilio.
Arrivarono le prime portate: uova servite con molluschi e frutta ripiena; seguirono altri antipasti e un
arrosto di vitello con funghi stufati al coriandolo. Fu la volta di galletti alla salsa di laserpizio dall’odore nauseabondo, ma di straordinario successo sulle tavole dei più ricchi. Il vino non mancò: tante coppe da mandare giù; tante quante erano le lettere contenute nel nome dell’ospite.
“I tuoi cuochi sono veramente bravi, Marco.” esordì Silone.
“Ne sono lusingato. - rispose Marco - Hanno voluto compiacere questo povero soldato che dei piaceri della
tavola non aveva più ricordo. Assaggia questo.” disse e spedì al tavolo del liberto un cosciotto d’oca.
Affrancato attraverso una congrua manumissio, Silone era riuscito con spirito di iniziativa a farsi un buon patrimonio, ma era rimasto fedele e assiduo frequentatore della casa dell’antico padrone.
Pur non avendo diritti politici, i liberti erano uomini liberi a tutti gli effetti. Nerone e soprattutto Claudio, a costoro avevano affidato importanti cariche amministrative tanto da formare un vero corteggio intorno alla figura del sovrano. Erano potenti e
influenti; potenti al punto da permettersi di trattare i padroni con irriverenza e perfino arroganza, tanto da costringere il Senato a discutere di provvedimenti da adottare.
“Non avete ancora assaggiato questo porcellum hortolanum. - interloquì il senatore Cimbro Appio, buongustaio e frequentatore abituale della tavola di Marco, indicando il grande vassoio che due schiavi stavano appoggiando al tavolino centrale attorno
a cui erano collocati i lettini - Verdure di prima scelta e liquamen di prima qualità, per questo porcello fatto ingrassare al punto
giusto!”
Liquamen, salsa tipica, ottenuta dalla macerazione del pesce.
Con un cenno Marco ordinò di servirglielo per primo e Cimbro non si fece pregare e poi trasferì una parte dal suo piatto a quello di un giovane seduto su uno sgabello ai piedi del suo lettino.
“Prendi, Crispino e dimmi il tuo parere su questa salsa deliziosa.”
Crispino, giovane poeta, era giunto a Roma da poco con una lettera di raccomandazione per farsi annoverare
nella clientela della famiglia Appia. C’erano altri giovani seduti su sgabelli, l’effeminato Fausto, l’insofferente Sorano, l’astuto Casperio, e ancora altri, tutti clienti al seguito dei patroni.
“Anche il vino è ottimo!”
Lucilio sollevò la coppa poi la tese alla schiava, una giovane tracia assai avvenente, bionda e procace, accorsa a sistemargli sul lettino la augusticlavia, la veste che con l’ anulus aureus e il cavallo, costituivano il distintivo dell’Ordine Equestre di cui faceva parte.
Familiarizzare con le schiave era d’obbligo durante i festini ed era un piacere a cui non avrebbe mai rinunciato.
“Orsù, belle. – diceva, rivelandosi anche seguace di Epicuro - Correte tra le braccia di Lucilio e scacciate le sue malinconie.”
Un invito che compiacenti schiave non si fecero ripetere: quelle non impegnate a vezzeggiare Milos, l’ospite più celebrato,
letteralmente soffocato dalle loro effusioni.
Marco Valerio, che da buon padrone di casa si preoccupava che nulla mancasse a ognuno dei suoi ospiti, sorrideva indulgente.
“L’amico Lucilio- pensava- deve aver proprio ragione: quel trace è proprio un “puellarum suspirium”.Varrà la pena, forse, fare il tifo per lui ai giochi gladiatori.”
Quasi gli avesse letto nel pensiero, una delle ancelle gli domandò:
“Dicono che affronterai il toro più cattivo che si sia mai visto.” i
“Sarà una sorpresa.- rispose per lui il lanista - Ho promesso a Cesare uno spettacolo che resterà negli annali gladiatori.”
Crescens era il lanista più noto non solo a Roma, ma in tutto l’impero. Gli uomini della sua “scuderia” erano i migliori atleti. Per di più, era anche onesto, non come certi impresari che promettevano campioni ed offrivano brocchi. Nessuno dei munera,
committenti dei giochi, si era lagnato mai dei suoi atleti.
“Non finisca come Proculo, incornato dal suo primo toro! – interloquì Cimbro tracannando con indifferenza–
Sia la mia ultima coppa se mento affermando che è il miglior vino che il mio palato abbia gustato mai. Neanche il vino di Bacco è
così inebriante!”
Cimbro apparteneva a quel patriziato, l’hordo senatorius. che, pur restando il ceto più elevato tra i cittadini di Roma, era avviato verso una progressiva decadenza.
“Vuoi suscitare l’ira di Bacco?”lo redarguì qualcuno.
”Oh,no…no! Quand’anche sia convinto che se gli Dei tutti precipitassero dall’Olimpo solo Bacco vi resterebbe…”
“Cimbro! Cimbro! - lo ammonì Lucilio - Non burlarti degli Dei!”
“Per Nettuno! - il vino scioglieva la lingua - Non voglio sfidare gli Dei né burlarmi di loro. Voglio invece invitarli a questo banchetto. Più che nettare è questo vino!.. Ne convieni anche tu, Calpurnia?”
“Oh, Cimbro! - ridacchiò la donna- Sei irriverente con gli Dei!”
“E perché mai? – insisté quello -Ti sei mai chiesto perché i nostri padri abbiano inventato un Dio unico per ladri e mercanti?”
“Cimbro! Cimbro!... “
Non più giovane, giunonica, le labbra petulanti e strette, la donna cercò di ammansirlo. Vestiva con ricercatezza ed eleganza; sulla tunica di porpora ricamata in oro, ostentava una palla, un mantello verde di preziosa sete. Era sommersa da gioielli e
ammantata di un profumo dolciastro e penetrante.
Sporgendosi per prendere un fico da un cesto fuori del circolo dei letti, raccolse la lunga collana che le pendeva dal collo, un raffinatissimo gioiello depredato in terra lontana: Dacia, forse, Dalmazia o Bretagna.
“Vengono dalla Giudea questi fichi?” domandò a Marco Valerio, abbandonandosi languida sul petto del compagno.
“Sono molto gustosi.” Marco assentì col capo; guardandola pensò che da quando la moda permetteva alle donne di prender posto sdraiate accanto agli uomini invece che sedute, i banchetti finivano sempre per trasformarsi in orge.
“Come le donne ebree..ah,ah...” seguì la grassa risata di Cimbro.
“E le romane? - insinuò Calpurnia- Come sono le donne romane?”
“Belle e piene di virtù nascoste.- rispose per lui Cimbro - E la virtù maggiore è non essere affatto virtuose - rise, strabuzzando
gli occhi. Poi alzò il braccio e levò la coppa in direzione di Fabio che non aveva ancora preso parte alla conversazione e se ne stava seduto in silenzio - Chiediamolo a Fabio. Anche lui conosce le donne ebree. Amico, dove hai nascosto le tue belle ebree?”
Risate, grida e sospiri, ma il centurione rispose con gravità:
“E’ mai possibile che le mie orecchie debbano sentir parlare solo di femmine lussuriose da quando ho rimesso
piede qui a Roma?”
“E’ mai possibile – replicò l’altro - che sia Fabio Cimbro a parlare così? Per tutti gli Dei! Che cosa ha mutato in acqua il sangue che ti scorreva nelle vene?”
“Suvvia, Fabio, - intervenne la donna - metti a tacere questa malalingua e vieni a sedere al mio fianco.”
I calici intanto continuavano a vuotarsi, riempirsi e vuotarsi ancora e così i vassoi; qualche lettino era ancora semivuoto..
Giunse Calvia Crispinilla accompagnata dal suo ultimo amante, il console Metello Fabrio, della gloriosa e nobile ma, ahimè, troppo decaduta famiglia dei Metello, che, come altre famiglie patrizie di vecchia data, si trovava esclusa dai giochi del potere e
legata ai ceppi dei debiti: squattrinati, neghittosi e nemici irriducibili di qualsiasi operosità!
“Novella Elena! La tua bellezza è fresca come un bocciolo.” disse andandole incontro; sapeva che certe donne amavano sentirsi adulare anche con le bugie: Calvia Crispinilla non era più un“bocciolo” da molto tempo. Gli occhi della donna, però, scintillarono lo
stesso.
“Vieni nelle braccia del tuo schiavo.” la invitò, ignorando lo sguardo furioso del compagno e conducendolaal suo lettino dove la fece sedere indicando a Metello il lettino attiguo, su cui prese posto anche Lucio, sfrattato da quello del padrone.
Il filosofo indirizzò alla nuova arrivata un profondo inchino:
“Ti cedo il mio posto, domina. Il mio cuore te l’ho ceduto da sempre.” disse con voce impastata d’alcool; Calvia rise, compiaciuta.
Cugina del senatore Salvio Otone, magistra libidinumNeronis, come ebbe a dire Tacito nelle sue Storie, della sregolatezza della donna romana in epoca imperiale era il più bell’esempio e Metello, era il suo aspirante quarto marito. Occhi bistrati di fuligo, labbra e faccia accesa di purpurissum, un vistoso neo sul lato sinistro del mento, la parrucca bionda cosparsa di polvere dorata, Calvia era una delle donne più potenti di Roma. Ventisette anni, bella, elegante, ricchissima. Sembrava portare addosso tutta la ricchezza delle terre conquistate da Roma.
“Mesci, fanciulla. - Marco sollevò il calice che una schiava si affrettò a riempire - Dobbiamo essere lieti… e tu, dove vai?” domandò a Fabio che si era alzato e aveva tutta l’aria di voler abbandonare il festino.
“Perdona la mia franchezza, Marco. - Fabio si voltò - Sono oppresso dalla noia. Meglio deporre lontano questo fardello.”
“Per l’Ancile di Marte! Da qualche tempo non riesco più a capirti, amico mio. Confesso, però, che in questo momento vorrei seguirti. Questi noiosi festini annoiano anche me... Attento alle strade di Roma! Dicono che sia ragionevole fare testamento prima
di uscire di notte. Ah.Ah.”rise.
“Gia!- rise anche Fabio - Così dicono!”
(brano tratto dal libro : LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses Volume I
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I GLADIATORI
Brano tratto dal libro:
LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses Vol. I
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Le trombe annunciarono il combattimento più atteso della giornata: Seilace, l’atleta che sfidava i Cesari e Spiculo, l’atleta preferito dei Cesari.
Marco e Milos raggiunsero gli amici.
“Come sta Valentinus?” “La ferita è grave?” “Si salverà?”
Queste ed altre le domande; la risposta, una soltanto: “E’ morto!”
Unanime il cordoglio, ma la figura di Seilace che era comparsa nel vano della settima arcata dell’Oppido, dirottò veso l’arena le emozioni di tutti.
“Seilace!” mormorò Tracia a fil di voce restando seduta.; tutti gli altri, l’intera arena, erano balzati in piedi.
Una sola, l’ovazione: “Seilace!”
Dietro di lui avanzò l’avversario. Anche per lui: “Spiculo!”
Spiculo era un secutore tra i più famosi. Venti combattimenti e dodici vittorie; sei, quelli finiti in parità e due sole le sconfitte, subite con onore e tale sprezzo della morte da meritarsi la vita.
Sull’arena era piombato il silenzio: quello che precede le grandi emozioni.
I due atleti si staccarono l’uno dall’altro e si fermarono, come per studiarsi e cercare i punti deboli; gli splendidi corpi immobili e statuari, solidi come colonne, potenti come baluardi, splendevano al sole come marmo brunito.
Seilace assunse la posizione di spaccata: gambe divaricate,
ginocchia piegate e busto teso in avanti; sul casco spiccava il cimiero a forma di pesce, lo scudo attaccato al braccio destro e il gladio nella mano sinistra: era mancino.
Spiculo per primo si fece avanti. Lo scudo appoggiato al fianco, schiniere di bronzo intorno alla gamba sinistra, spada in pugno, visiera calata, partì all’attacco di corsa.
“Figlio di un cane! - dalle tribune udirono le sue provocazioni- Ti spedirò a raccogliere sassi lungo le rive dello Stige!”
Seilace non raccolse e attese l’impatto, che non tordò ad arrivare.
Il cozzo degli scudi fece balzare la platea: quelli seduti scattarono in piedi, quelli in piedi saltavano e le scommesse salivano.
Dopo l’impatto delle armi, seguì quello dei corpi: spalla contro spalla, fianco contro fianco, ginocchio contro ginocchio.
Seilace era più alto dell’avversario, ma entrambi erano forti e potenti nei muscoli armoniosamente distribuiti. Ondeggiarono come due tori, spostandosi insieme sul terreno in avanti e indietro e ora di lato. Parvero sul punto di perdere l’equilibrio.
Anche la folla ondeggiava. A destra. A sinistra. Indietro. Di nuovo
a destra. Quando i due si staccarono, Spiculo sanguinava dalla spalla destra e il sangue eccitò la folla.
“Spedisci a Plutone quel sannita che voleva mandarti a raccoglier sassi nell’Averno.” gridavano.
Ma anche Seilace sanguinava da una ferita al petto.
Nuovamente ai ferri corti; le visiere calate.
La folla non poteva vedere le loro facce nè le loro espressioni. I più vicini al recinto, però, riuscivano a sentirne le parole.
“Hai fatto testamento? A chi hai donato i tuoi schiavi, eh,eh,eh!..”
Insultava Spiculo, a cui Seilace opponeva sprezzante silenzio.
Il corpo a corpo si fece serrato. Le spalle tese premevano l’una contro l’altra, i cimieri si confondevano, simili a grovigli di corna di cervi in lotta. Passo dopo passo, Seilace spinse l’avversario verso la Spina, riuscendo ad immobilizzarlo contro la murata. La presa, tenace e implacabile, dimostrava quanta forza fosse nascosta nel fisico elegante ed atletico del principe dei Siluri; al confronto, quello del sannita sembrava il corpo di un minotauro.
Con un urlo selvaggio, Spiculo riuscì a liberare il braccio armato di spada ed a vibrare un colpo. Seilace lasciò la presa e fece un salto indietro; lo stridore della spada che scivolava sul suo scudo fece rabbrividere le tribune.
Spiculo barcollò.
Seilace tornò all’attacco: un formidabile colpo di scudo e la spada sfuggì dalle mani dell’avversario, che sbandò. Seilace ne approfittò per assestargli sul capo una violenta piattonata con la parte piatta del gladio.
Spiculo barcollò ancora ed ansimò.
“Ci siamo? - rise nervosamente, cadendo a terra - Questa volta nell’Averno ci vado io. – cercò di rialzarsi su un ginocchio - Ma non da solo, per Venere Libitinense!...” scandì a denti stretti.
“Non agitarti, imbecille! – Seilace lo ricacciò a terra - Non vedi che sto tentando di salvarti la pelle? - disse schiacciandogli il piede sul petto, poi si girò verso la folla col braccio levato in segno di vittoria e attendere il verdetto; ai suoi piedi giacevano le armi dell’avversario - Chiedi grazia. Solleva la sinistra. Chiedi grazia!”
Spiculo sollevò la sinistra.
Un boato salì dalle tribune. Seilace si girò verso Cesare, ma la folla non voleva il verdetto di Cesare. La folla voleva quello del vincitore. La folla, bestia sanguinaria abituata ai colpi di scena del suo beniamino, aspettava la sua sentenza. Lo voleva arbitro della vita dell’avversario e pendeva dal suo pollice.
Il pollice del principe dei Siluri si levò in segno di grazia.
Toccava a Cesare, adesso.
Tutti si aspettavano o, forse, speravano di vedere abbassato il pollice imperiale: volevano vedere all’opera, una volta ancora, il gladiatore che sfidava i Cesari. Ma anche Galba sollevò il suo pollice. E fece di più! Lanciò nell’arena la rudis, la spada di legno: raccogliendola, Seilace non era più un ostaggio di Roma, ma un libero cittadino romano.
Tra osanna e lanci di rose e monete, il bellissimo atleta si chinò a raccogliere quell’oggetto che cambiava la sua vita, poi sollevò un braccio al cielo e dalla fossa partì l’urlo più strepitoso e potente che si fosse mai udito: “Missum!” (Libero!).
I GLADIATORI