IL RAIS
Amori fra le Dune
(cap. VI - IX)
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Ombre furtive, intanto, sgusciavano alle sue spalle, protette dalle tenebre; strisciavano sulla sabbia silenziose e minacciose come il naja-naja, il più velenoso dei serpenti del deserto.
Hammad non s'avvide di nulla.
Altre ombre, decine, mimetizzate al biancore giallastro delle sabbie o al buio, avanzavano verso il campo, sbucando da ogni lato della grande barcana, come un esercito di formiche.
Un luccichio attrasse finalmente lo sguardo di Hammad, un bagliore metallico proveniente dall’alto della barcana.
La sentinella balzò in piedi puntando il fucile in quella direzione, ma, prima che il colpo partisse, un violento colpo alla testa lo sprofondò nel nulla.
Un urlo si levò improvviso nella notte, un urlo possente, pauroso, ed un cavaliere ammantellato, in sella ad un cavallo arabo, il volto seminascosto da una keffiew bianca, apparve sulla cima più più alta della barcana; la lama della sua jatagan brillava sinistra. Sfidando ogni legge di equilibrio, il suo cavallo scendeva spericolato giù per il ripidissimo pendio sabbioso.
Conoscevano tutti, nel deserto, quel grido: era il grido di attacco del grande predone di Ar-Rimal.
Un altro temerario lo seguiva: lo sceicco Harith, pervaso dalla stessa furia. I loro volti splendevano, implacabili, inondati dalla luce fredda e precoce dell'alba che avanzava veloce.
"All'attacco!... Il campo è nostro!"
La voce del rais risuonò come un tuono in mezzo all'uragano.
"Il campo è nostro!...Allah è con noi!" urlavano i predoni e come acque che straripano e rompono gli argini che le trattengono, così quella fiumana umana si riversò tra le tende, travolgendo cose o persone.
Sorpresi, assonnati, seminascosti in caftani e coperte, gli uomini della carovana si affacciavano sugli imbocchi delle tende inermi e disarmati.
I primi a cercare di arginare l'impeto degli assalitori furono Ibrahim e il suo vice, Assan, ma ben presto sotto le tende non rimase nessuno. Tutti erano impegnati in una furiosa lotta per difendere la vita ed i beni.
Il primo pensiero del capo fu di mettere in salvo il carico di oro, ma era già stato preceduto: Rashid aveva gia inviato sul posto un suo uomo.
Tre, quattro, cinque lame incrociarono la scimitarra del rais, che, irresistibile, falciava quell'erba umana ondeggiante e spaurita, creando il vuoto intorno a sé..
"Avanti. Avanti!...Chi vuol misurarsi con me si faccia avanti." urlava.
Nessuno, però, osava contrastarlo e quelli che cercavano di trattenere il poco coraggio che la figura paurosa e lo sguardo temporalesco del predone disperdeva come nebbia di sole, dopo timidi cenni di attacco se la davano a gambe. Invano Assan, correndo per il capo, con lusinghe e minacce, cercava di trattenerli.
La lotta fu breve; superiori per numero e per valore, i predoni ebbero presto la meglio.
Hammad non s'avvide di nulla.
Altre ombre, decine, mimetizzate al biancore giallastro delle sabbie o al buio, avanzavano verso il campo, sbucando da ogni lato della grande barcana, come un esercito di formiche.
Un luccichio attrasse finalmente lo sguardo di Hammad, un bagliore metallico proveniente dall’alto della barcana.
La sentinella balzò in piedi puntando il fucile in quella direzione, ma, prima che il colpo partisse, un violento colpo alla testa lo sprofondò nel nulla.
Un urlo si levò improvviso nella notte, un urlo possente, pauroso, ed un cavaliere ammantellato, in sella ad un cavallo arabo, il volto seminascosto da una keffiew bianca, apparve sulla cima più più alta della barcana; la lama della sua jatagan brillava sinistra. Sfidando ogni legge di equilibrio, il suo cavallo scendeva spericolato giù per il ripidissimo pendio sabbioso.
Conoscevano tutti, nel deserto, quel grido: era il grido di attacco del grande predone di Ar-Rimal.
Un altro temerario lo seguiva: lo sceicco Harith, pervaso dalla stessa furia. I loro volti splendevano, implacabili, inondati dalla luce fredda e precoce dell'alba che avanzava veloce.
"All'attacco!... Il campo è nostro!"
La voce del rais risuonò come un tuono in mezzo all'uragano.
"Il campo è nostro!...Allah è con noi!" urlavano i predoni e come acque che straripano e rompono gli argini che le trattengono, così quella fiumana umana si riversò tra le tende, travolgendo cose o persone.
Sorpresi, assonnati, seminascosti in caftani e coperte, gli uomini della carovana si affacciavano sugli imbocchi delle tende inermi e disarmati.
I primi a cercare di arginare l'impeto degli assalitori furono Ibrahim e il suo vice, Assan, ma ben presto sotto le tende non rimase nessuno. Tutti erano impegnati in una furiosa lotta per difendere la vita ed i beni.
Il primo pensiero del capo fu di mettere in salvo il carico di oro, ma era già stato preceduto: Rashid aveva gia inviato sul posto un suo uomo.
Tre, quattro, cinque lame incrociarono la scimitarra del rais, che, irresistibile, falciava quell'erba umana ondeggiante e spaurita, creando il vuoto intorno a sé..
"Avanti. Avanti!...Chi vuol misurarsi con me si faccia avanti." urlava.
Nessuno, però, osava contrastarlo e quelli che cercavano di trattenere il poco coraggio che la figura paurosa e lo sguardo temporalesco del predone disperdeva come nebbia di sole, dopo timidi cenni di attacco se la davano a gambe. Invano Assan, correndo per il capo, con lusinghe e minacce, cercava di trattenerli.
La lotta fu breve; superiori per numero e per valore, i predoni ebbero presto la meglio.
CAP. VII - Nel vortice del Sem
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Al riparo di una sporgenza rocciosa, lo sceicco Harith e i suoi uomini, stavano disponendo per trasportare il bottino all'oasi di Sahab.
Furono radunati gli uomini, quelli che avevano preferito arrendersi e non restare con Assan, il vice carovana; le donne, invece, furono affidate alla custodia di un paio di predoni: era costume che scegliessero per se stessi quelle che preferivano e le conducessero sotto le loro tende. Agli uomini era riservata diversa sorte: il riscatto o a possibilità di restare e unirsi alla tribù.
Se il bottino di merci era stato fruttuoso, quello delle donne risultò piuttosto scarso: meno di una dozzina, ma tutte giovani e carine.
Letizia ed Atena, le figlie del mercante greco, furono contese da un gruppo di uomini che attesero di tornare al campo per potersele disputare in regolare combattimento; il povero Aristeo Gallas venne sepolto nello stesso posto dove era stato ucciso, tra il pianto costernato delle due figlie.
Nei confronti di Zaira, diverse erano le mire, ma nessuno osò farsi avanti , ben sapendo che la ragazza godeva della protezione del piccolo Akim e di conseguenza, di quella di Rashid, ma, soprattutto, sapendo che Harith in persona, il loro sceicco, aveva posto gli occhi su di lei.
Al galoppo, Rashid cominciò a percorrere il campo da un capo all'altro: aspettava il sam, la sola forza capace di contrastare il suo dominio sul deserto.
Una gran calma era calata; una immobilità totale.
Non un fremito d’ali, né un ronzio d’insetti . Non un granello si muoveva: la sabbia pareva pressata, incollata al suolo.
"Che il potente Visnù abbia pietà di noi.!”
Akim si guardò intorno in cerca di un riparo; lo seguivano Zaira e le due figlie del mercante greco e dietro di loro, distanziate di qualche passo, le due giovanissime schiave di Bibal, il mercante di schiavi, sfuggite alla vigilanza del padrone.
“Il sam ci spazzerà via tutti come fuscelli." riprese il ragazzo, circondando con gesto di grande affetto la bella figlia di Mayrama e cercando di farle scudo col suo corpo. Zaira, d’altro canto, faceva lo stesso con lui, cosicché, avanzavano con passo incerto, ostacolati dalle prime violente folate di vento, ma sorreggendosi l’un l’altra. Lo stesso facevano Letizia e sua sorella Atena alle loro spalle e così le due piccole schiave ed Akim ogni tanto si voltava indietro per sincerarsi della loro presenza.
"Restate uniti e aggrappatevi agli animali." il rais esortava la sua gente; i garretti del suo cavallo affondavano nella sabbia ma questa, sollevandosi, ricadeva e restava quasi immota nell’aria. Ferma.
Il sam si fece vicino.
Prima con moto quasi impercettibile, poi con vivacità, la sabbia cominciò a muoversi, a sollevarsi da sola, senza apparente sollecitudine, accompagnata da un sibilo leggero.
"Sta arrivando. -gridò Harith - Tenetevi pronti a..."
Lo sceicco non riuscì a terminare la frase: un soffio improvviso, potente e rovente, sollevò la sabbia e lo investì, ricacciandogli in gola le parole.
Il vento cresceva insieme al caldo. Divenne vigoroso e bruciante e i turbini presero a succedersi ad un ritmo così serrato da provocare vertigini.
Parlare non era possibile, la sabbia penetrava nella bocca e si fermava tra i denti.
"Guardate là!" gridò Ibrahim con quanto fiato aveva in gola, tendendo un braccio verso l'orizzonte.
Chi riuscì ad udirlo, il vento copriva ogni suono, si girò verso la direzione indicata e l’enorme fascia rosa opaca, una gigantesca nuvola che sbarrava un cielo incredibilmente azzurro.
Sir Richard, che fino a quel momento si era tenuto discretamente in disparte, non seppe trattenere la sua emozione di fronte a tanta veemenza, tanta terrificante bellezza e indugiò a contemplare con estasiato stupore la natura che si esaltava :
"Corpo di mille balene! - urlò, affascinato, più che atterrito, da tanta selvaggia, seducente potenza - Che spettacolo… Quale grandioso spettacolo!"
"Cosa dite, sir?" Rashid, al suo fianco, urlò anch’egli per farsi udire.
"Mai visto uno spettacolo simile!" continuò ad emozionarsi il lord, letteralmente stregato dal richiamo della natura.
“Al riparo. – lo invitò Rashid , sempre urlando – Mettetevi al riparo, sir… insieme al vostro cavallo.” aggiunse smontando di sella, egli per primo.
Sir Richard lo imitò immediatamente; tutti gli altri erano già a terra, chi sdraiato, chi in piedi, tutti attaccati agli animali e tutti che guardavano nella stessa direzione: ad est, dove la fascia funesta allargando, s'andava sfrangiando come un enorme ventaglio sfilacciato.
Illuminate dal sole, le frange, abbaglianti e fragorose come mille fulmini, giunsero presto a crepitare sulle loro teste e alte lingue di fuoco parvero aver inondato il deserto di una luce spessa e densa, che aveva il riflesso della morte.
L’immensa nuvola si avvicinò. Più vicino. Sempre più vicino. Giunse, infine, gigantesca, apocalittica, a coprire il cielo, preceduta dal suo urlo agghiacciante.
Tremendo, inarrestabile, l’immenso vortice urlava e minacciava; la sua incontenibile furia spazzava ogni cosa al suo passaggio.
Era il signore del deserto e la natura si curvava al suo cospetto.
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Aggredito, vinto, asfissiato dall'aspro odore di zolfo, l'uomo si arrendeva.
Piccola creatura impastata di terra e lacrime, nulla poteva contro quella forza terribile.
Bocconi, schiacciato contro il suolo dalla sabbia torrefatta, stretto nel mantello conteso dal vento in un vorticoso volteggiare di pieghe, consapevole della propria debolezza e fragilità, si nascondeva, preda del proprio terrore.
Anche gli animali erano presi da uguale terrore; le froge spalancate, le teste sotto il ventre, si cercavano, si accostavano, si univano gli uni agli altri con le criniere al vento ritte e confuse.
La Natura ardeva e tremava. Le dune si scioglievano come neve e le poche palme rinsecchite di quella che doveva essere stata un tempo un'oasi, gemevano inquiete; i rami ricurvi toccavano la sabbia e la spazzavano. Il sole, scomparso dietro la fitta coltre opaca ed a tratti sanguigna, aveva richiamato indietro la notte. Senza quella visione contorta e gemente, ogni cosa sarebbe parsa morta.
Il vento trasportava lontano ogni cosa: oggetti, sassi, arbusti e correndo via lasciava dietro di sé la sua eco agghiacciante, assordante, forte, ma sempre più prolungata.
Era il segnale atteso: quel sibilo lacerante, ma sempre più sottile, indicava l'allontanarsi del sam.
Lentissimamente, la coltre cominciò a perdere il tetro, nefasto grigiore; timidi raggi di sole la squarciarono qua e là. Il vento divenne meno asfissiante, l'aria meno rovente ed appestata.
Con difficoltà, ma si poteva alfine respirare e guardare il sinistro fantasma non ancora pago, né sazio, correre lontano verso altri luoghi da straziare e distruggere.
Silenzio! Un silenzio profondo dopo il fragore. Tutto taceva nella vallata morta. Il silenzio calato improvviso era ancora più sinistro del clamore.
Ogni cosa era coperta da una sottile coltre calda, lucente, impalpabile.
Un primo cenno di vita: una mano incerta, uno sguardo dilatato. Uomini ed animali si destavano come da un torpore di morte; si guardavano increduli.
"Siamo ancora vivi?" sir Richard si scrollò di dosso la sabbia, ma era sforzo inutile, questa era ovunque: sotto il burnus, sotto la keffiew, negli occhi, nelle orecchie, nella bocca.
"Maledetta sabbia. - anche Akim stava destandosi - Si è infilata ovunque." si lamentava.
Vedendo le sue contorsioni Rashid, egli pure in piedi a scrollarsi di dosso la sabbia, era scoppiato in una bella risata che aveva trascinato gli altri nella scia.
"Tu ridi! - disse il ragazzo spazientito- Ma questa sabbia è più fastidiosa di un esercito di pulci."
Anche Harith sorrideva; anche lui era sorto da sotto il suo mantello e tutti gli altri, uno dopo l'altro, parevano svegliarsi da lungo sonno.
"Siamo vivi!" esclamò Rashid.
"Sì! Ma non sappiamo in quanti." gli fece eco il suo sceicco, assumendo un'espressione preoccupata.
Neppure Rashid, ora, sorrideva più; il volto era incupito e la fronte increspata da timori. Si staccò da Akim, che solo in quel momento parve accorgersi dell’assenza della figlia di Mayrama.
“Dov’è Zaira?… Dove sono le ragazze? Erano qui con me… Perché non sono più qui? Che cosa è successo loro? – proruppe – Devo cercare Zaira e anche le ragazze che erano con lei.” aggiunse e si allontanò di corsa.
Anche Rashid e il suo sceicco, Harith, si allontanarono in fretta per passare in rassegna il campo. Per fortuna solo qualche lieve ferito e diverse casse andate distrutte. Con una sola grave eccezione: il cavallo di Gamal, uno dei più giovani cavalieri di Harith, che ne uscì con un garretto spezzato.
Gamal fu costretto ad abbatterlo e lo fece tra i singhiozzi, non lasciando al altri il penoso compito.
Sir Richard ne restò assai impressionato e Rashid gli parlò di quanto preziosa fosse la compagnia di un animale per gente come loro. Gli spiegò che era proprio al cavallo che Dio aveva legato il destino del Beduino: alla possanza del suo dorso ed alla forza del suo garretto ed all’allegria della sua criniera al vento.
“Ama il tuo cavallo come una parte del tuo cuore, ci ha insegnato il Profeta.” concluse il rais.
Il cavallo di Gamal fu seppellito sotto la sabbia: nessuno avrebbe mangiato mai la sua carne.
I cammelli, intanto, acquattati per terra, docili e fermi, legati gli uni agli altri per non farli scappare, si lasciavano caricare del bottino; non senza brontolii: l’aria era satura dei loro versi gutturali e rochi.
Piccola creatura impastata di terra e lacrime, nulla poteva contro quella forza terribile.
Bocconi, schiacciato contro il suolo dalla sabbia torrefatta, stretto nel mantello conteso dal vento in un vorticoso volteggiare di pieghe, consapevole della propria debolezza e fragilità, si nascondeva, preda del proprio terrore.
Anche gli animali erano presi da uguale terrore; le froge spalancate, le teste sotto il ventre, si cercavano, si accostavano, si univano gli uni agli altri con le criniere al vento ritte e confuse.
La Natura ardeva e tremava. Le dune si scioglievano come neve e le poche palme rinsecchite di quella che doveva essere stata un tempo un'oasi, gemevano inquiete; i rami ricurvi toccavano la sabbia e la spazzavano. Il sole, scomparso dietro la fitta coltre opaca ed a tratti sanguigna, aveva richiamato indietro la notte. Senza quella visione contorta e gemente, ogni cosa sarebbe parsa morta.
Il vento trasportava lontano ogni cosa: oggetti, sassi, arbusti e correndo via lasciava dietro di sé la sua eco agghiacciante, assordante, forte, ma sempre più prolungata.
Era il segnale atteso: quel sibilo lacerante, ma sempre più sottile, indicava l'allontanarsi del sam.
Lentissimamente, la coltre cominciò a perdere il tetro, nefasto grigiore; timidi raggi di sole la squarciarono qua e là. Il vento divenne meno asfissiante, l'aria meno rovente ed appestata.
Con difficoltà, ma si poteva alfine respirare e guardare il sinistro fantasma non ancora pago, né sazio, correre lontano verso altri luoghi da straziare e distruggere.
Silenzio! Un silenzio profondo dopo il fragore. Tutto taceva nella vallata morta. Il silenzio calato improvviso era ancora più sinistro del clamore.
Ogni cosa era coperta da una sottile coltre calda, lucente, impalpabile.
Un primo cenno di vita: una mano incerta, uno sguardo dilatato. Uomini ed animali si destavano come da un torpore di morte; si guardavano increduli.
"Siamo ancora vivi?" sir Richard si scrollò di dosso la sabbia, ma era sforzo inutile, questa era ovunque: sotto il burnus, sotto la keffiew, negli occhi, nelle orecchie, nella bocca.
"Maledetta sabbia. - anche Akim stava destandosi - Si è infilata ovunque." si lamentava.
Vedendo le sue contorsioni Rashid, egli pure in piedi a scrollarsi di dosso la sabbia, era scoppiato in una bella risata che aveva trascinato gli altri nella scia.
"Tu ridi! - disse il ragazzo spazientito- Ma questa sabbia è più fastidiosa di un esercito di pulci."
Anche Harith sorrideva; anche lui era sorto da sotto il suo mantello e tutti gli altri, uno dopo l'altro, parevano svegliarsi da lungo sonno.
"Siamo vivi!" esclamò Rashid.
"Sì! Ma non sappiamo in quanti." gli fece eco il suo sceicco, assumendo un'espressione preoccupata.
Neppure Rashid, ora, sorrideva più; il volto era incupito e la fronte increspata da timori. Si staccò da Akim, che solo in quel momento parve accorgersi dell’assenza della figlia di Mayrama.
“Dov’è Zaira?… Dove sono le ragazze? Erano qui con me… Perché non sono più qui? Che cosa è successo loro? – proruppe – Devo cercare Zaira e anche le ragazze che erano con lei.” aggiunse e si allontanò di corsa.
Anche Rashid e il suo sceicco, Harith, si allontanarono in fretta per passare in rassegna il campo. Per fortuna solo qualche lieve ferito e diverse casse andate distrutte. Con una sola grave eccezione: il cavallo di Gamal, uno dei più giovani cavalieri di Harith, che ne uscì con un garretto spezzato.
Gamal fu costretto ad abbatterlo e lo fece tra i singhiozzi, non lasciando al altri il penoso compito.
Sir Richard ne restò assai impressionato e Rashid gli parlò di quanto preziosa fosse la compagnia di un animale per gente come loro. Gli spiegò che era proprio al cavallo che Dio aveva legato il destino del Beduino: alla possanza del suo dorso ed alla forza del suo garretto ed all’allegria della sua criniera al vento.
“Ama il tuo cavallo come una parte del tuo cuore, ci ha insegnato il Profeta.” concluse il rais.
Il cavallo di Gamal fu seppellito sotto la sabbia: nessuno avrebbe mangiato mai la sua carne.
I cammelli, intanto, acquattati per terra, docili e fermi, legati gli uni agli altri per non farli scappare, si lasciavano caricare del bottino; non senza brontolii: l’aria era satura dei loro versi gutturali e rochi.
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![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/9084992.jpg?351)
Sahab apparve all'orizzonte del lungo corridoio su cui scorreva la pista carovaniera. I cavalli galoppavano veloci sotto la spinta degli irrequieti cavalieri e la sabbia rimbalzava sotto gli zoccoli per ricadere, iridescente, davanti alle zampe dell'animale che seguiva; il feidy attutiva lo scalpittio degli zoccoli.
Feidy, così era chiamato il corridoio sabbioso e profondo creato dall'azione dello scirocco.
In quel punto del deserto, la mancata alimentazione di sabbia e la rapida opera del vento, avevano provocato una rottura al centro della grande duna e si erano formate lunghe catene parallele che si allargavano verso le estremità seguendo la direzione del vento; numerosi widian asciutti si seguivano e si intersecavano. L'intera regione di Ar-Rimal era percorsa da una quantità di ormai asciutti corsi fluviali, ricordo di una remotissima, ma assai diversa epoca climatica. Dopo violente e brevi precipitazioni, questi widian si riempivano di acqua, ma l'evaporazione e l'assorbimento della sabbia, mettevano ben presto fine alla splendida esplosione di fiori che ne seguiva.
"Tra poco potremo ristorarci." esordì Rashid girando il capo in direzione di sir Richard.
"Deve essere bella. - disse il lord- E quell'alone che la circonda?" domandò.
"E' il riverbero dell'acqua. - spiegò Harith, che cavalcava alla sua sinistra - Sahab è ricca d'acqua."
Un colpo di fucile rimbombò nel lungo corridoio.
"Ci hanno visti.”
Rashid sollevò il fucile e lasciò partire un colpo poi si lanciò, seguito dagli altri, in un galoppo che non ebbe sosta neppure quando il sabbioso corridoio fu superato e si entrò in una piatta e gialla distesa da cui spuntava la prima vegetazione.
Si trattava, invero, di piccoli cespugli spinosi che la sabbia copriva e scopriva nel carosello imposto dallo scirocco, ma che si trasformavano, man mano che si avanzava e diventavano sempre più numerosi; al contrario della sabbia, che andava diradando e che lasciava posto ad un fondo ciottoloso e stepposo. Una prima palma, un tamarindo, segnava il confine tra l'oasi e il deserto. L'aria aveva perso l'accecante ed intensa luminosità, fenomeno proprio di luoghi secchi ed asciutti. Anche la riverberazione, causa dell'evaporazione quasi totale dell'umidità contenuta nell'aria, era cessata; perfino la distesa superficie, che a causa del fenomeno della irradiazione era parsa più estesa di quanto non fosse in realtà, venne riportata alle giuste dimensioni.
L'aria divenne dolce; di sapore quasi marino.
"Se non sapessi di essere nel deserto, direi che questo è odore di salsedine." disse sir Richard.
"E' l'umidità delle foglie e delle radici delle palme a produrre questo odore." spiegò il rais.
"Confesso di sentirmene inebriato."
"Vi capisco, sir." disse il beduino e alzò il capo per respirò a pieni polmoni l'aria della sua oasi; le teste fasciate da mindil e keffiew, i cavalieri percorsero l'ultimo tratto.
La gente dell'oasi s’era riversata tutta fuori delle tende. Le donne avevano lasciato fusi e lana, telai ed arcolai, per correre incontro ai loro uomini; i bambini, chiassosi e seminudi, avevano smesso di giocare per precipitarsi verso i cavalieri e questi dovevano fare ricorso alla loro proverbiale perizia, per evitare di schiacciarli sotto gli zoccoli degli animali. Incuranti del pericolo, i piccoli si insinuavano tra le gambe dei cavalli, si attaccavano alle loro code e saltavano sulle groppe.
Ma non erano i soli a manifestare la gioia con tanta esuberanza: l'intera tribù era invasa da eguale eccitazione. Tutti instancabili ed operosi nell’aiutare a scaricare asini e cammelli.
Le prime cure furono riservate proprio agli animali, feriti o disidratati; ai primi provvedevano le donne con una poltiglia di erbe medicinali e dei secondi si facevano carico i più giovani della tribù.
Sahab era davvero un posto incantevole. Piccola, non si estendeva oltre i quattro chilometri, era ricca di pozzi intorno ai quali, cosa assai insolita per un popolo nomade, c'era un accenno di agricoltura. C’erano piante, a Sahab, dai tronchi spessi quanto il torace di un uomo, le cui radici dovevano spingersi a tale profondità sotto la sabbia, da raggiungere falde acquifere quasi irraggiungibili.
Numerosissime le tende; un vero villaggio. Erano nere o a strisce colorate e sostenute da brevi paletti infissi nel terreno. Erano fatte di pelo di capra e di cammello, animali di cui, unitamente ad asini, cavalli e dromedari, erano pieni gli steccati. Su molte di esse posava una stuoia coloratissima che le donne producevano e che doveva sfidare per decenni le ingiurie del deserto.
Sulla soglia di una di quelle tende, una donna si fece da parte per lasciar entrare lo sceicco; i capelli erano bianchi e la vecchiaia le causava un tremito continuo, ma gli occhi brillavano di gioia.
"Sii il benvenuto nella tua tenda, Harith.- disse tendendo un vassoio con piccole tazze d'argento, che reggeva con mani malferme - Ed anche a te, straniero, se sei ospite del mio signore." disse rivolta all'inglese.
"Allah sia con te." la ringraziò Harith con un sorriso affettuoso.
"Grazie della cortesia." anche l'inglese ringraziò.
"Allah sia anche con te, Rashid."anche il rais ebbe il saluto della donna ed anche lui rispose con un sorriso.
"Allah sia pure con te, Fatima."
L'interno della tenda, che si estendeva più per lunghezza che per larghezza, era diviso da un telone in due parti; la prima, comunicante con l'esterno, era riservata agli uomini e serviva per ricevere gli ospiti; la seconda era riservata alle donne ed un profumo di caffè proveniva da quella parte.
Il caffè, però, doveva essere il complemento di un banchetto, che le donne avevano già preparato. Sulla tovaglia bianca stesa per terra, infatti, posavano vassoi stracolmi di cibo: un segno di riguardo verso l'ospite, una tavola riccamente imbandita!
Terminate le abluzioni, sostituiti gli abiti impolverati, sedettero tutti sulla grande stuoia e il pranzo ebbe inizio, servito da due giovani donne; l'allegro coro di voci femminili proveniente da dietro il telone, andò infittendosi sempre più.
Finalmente venne servito il caffè.
Era un vero rito. Riuniva gli amici ed era pretesto per scambio di notizie, opinioni, consigli e preghiere. Per essere perfetto bisognava che fosse: amaro come la notte, caldo come il sole e dolce come l'amore!
La tostatura veniva fatta al momento ed i chicchi venivano ridotti in finissima polvere in uno staio di ottone; solo così, acquistava quel profumo inimitabile. Onde evitare che fondi di polvere potessero trovarsi nella tazza, soprattutto in quella di un ospite, una volta giunto ad ebollizione, veniva lasciato depositare e poi era travasato in un'altra caffettiera. A questo punto, dopo averlo riportato ad alta temperatura ed aromatizzato con spezie varie, il caffè era, finalmente, pronto per essere servito.
Feidy, così era chiamato il corridoio sabbioso e profondo creato dall'azione dello scirocco.
In quel punto del deserto, la mancata alimentazione di sabbia e la rapida opera del vento, avevano provocato una rottura al centro della grande duna e si erano formate lunghe catene parallele che si allargavano verso le estremità seguendo la direzione del vento; numerosi widian asciutti si seguivano e si intersecavano. L'intera regione di Ar-Rimal era percorsa da una quantità di ormai asciutti corsi fluviali, ricordo di una remotissima, ma assai diversa epoca climatica. Dopo violente e brevi precipitazioni, questi widian si riempivano di acqua, ma l'evaporazione e l'assorbimento della sabbia, mettevano ben presto fine alla splendida esplosione di fiori che ne seguiva.
"Tra poco potremo ristorarci." esordì Rashid girando il capo in direzione di sir Richard.
"Deve essere bella. - disse il lord- E quell'alone che la circonda?" domandò.
"E' il riverbero dell'acqua. - spiegò Harith, che cavalcava alla sua sinistra - Sahab è ricca d'acqua."
Un colpo di fucile rimbombò nel lungo corridoio.
"Ci hanno visti.”
Rashid sollevò il fucile e lasciò partire un colpo poi si lanciò, seguito dagli altri, in un galoppo che non ebbe sosta neppure quando il sabbioso corridoio fu superato e si entrò in una piatta e gialla distesa da cui spuntava la prima vegetazione.
Si trattava, invero, di piccoli cespugli spinosi che la sabbia copriva e scopriva nel carosello imposto dallo scirocco, ma che si trasformavano, man mano che si avanzava e diventavano sempre più numerosi; al contrario della sabbia, che andava diradando e che lasciava posto ad un fondo ciottoloso e stepposo. Una prima palma, un tamarindo, segnava il confine tra l'oasi e il deserto. L'aria aveva perso l'accecante ed intensa luminosità, fenomeno proprio di luoghi secchi ed asciutti. Anche la riverberazione, causa dell'evaporazione quasi totale dell'umidità contenuta nell'aria, era cessata; perfino la distesa superficie, che a causa del fenomeno della irradiazione era parsa più estesa di quanto non fosse in realtà, venne riportata alle giuste dimensioni.
L'aria divenne dolce; di sapore quasi marino.
"Se non sapessi di essere nel deserto, direi che questo è odore di salsedine." disse sir Richard.
"E' l'umidità delle foglie e delle radici delle palme a produrre questo odore." spiegò il rais.
"Confesso di sentirmene inebriato."
"Vi capisco, sir." disse il beduino e alzò il capo per respirò a pieni polmoni l'aria della sua oasi; le teste fasciate da mindil e keffiew, i cavalieri percorsero l'ultimo tratto.
La gente dell'oasi s’era riversata tutta fuori delle tende. Le donne avevano lasciato fusi e lana, telai ed arcolai, per correre incontro ai loro uomini; i bambini, chiassosi e seminudi, avevano smesso di giocare per precipitarsi verso i cavalieri e questi dovevano fare ricorso alla loro proverbiale perizia, per evitare di schiacciarli sotto gli zoccoli degli animali. Incuranti del pericolo, i piccoli si insinuavano tra le gambe dei cavalli, si attaccavano alle loro code e saltavano sulle groppe.
Ma non erano i soli a manifestare la gioia con tanta esuberanza: l'intera tribù era invasa da eguale eccitazione. Tutti instancabili ed operosi nell’aiutare a scaricare asini e cammelli.
Le prime cure furono riservate proprio agli animali, feriti o disidratati; ai primi provvedevano le donne con una poltiglia di erbe medicinali e dei secondi si facevano carico i più giovani della tribù.
Sahab era davvero un posto incantevole. Piccola, non si estendeva oltre i quattro chilometri, era ricca di pozzi intorno ai quali, cosa assai insolita per un popolo nomade, c'era un accenno di agricoltura. C’erano piante, a Sahab, dai tronchi spessi quanto il torace di un uomo, le cui radici dovevano spingersi a tale profondità sotto la sabbia, da raggiungere falde acquifere quasi irraggiungibili.
Numerosissime le tende; un vero villaggio. Erano nere o a strisce colorate e sostenute da brevi paletti infissi nel terreno. Erano fatte di pelo di capra e di cammello, animali di cui, unitamente ad asini, cavalli e dromedari, erano pieni gli steccati. Su molte di esse posava una stuoia coloratissima che le donne producevano e che doveva sfidare per decenni le ingiurie del deserto.
Sulla soglia di una di quelle tende, una donna si fece da parte per lasciar entrare lo sceicco; i capelli erano bianchi e la vecchiaia le causava un tremito continuo, ma gli occhi brillavano di gioia.
"Sii il benvenuto nella tua tenda, Harith.- disse tendendo un vassoio con piccole tazze d'argento, che reggeva con mani malferme - Ed anche a te, straniero, se sei ospite del mio signore." disse rivolta all'inglese.
"Allah sia con te." la ringraziò Harith con un sorriso affettuoso.
"Grazie della cortesia." anche l'inglese ringraziò.
"Allah sia anche con te, Rashid."anche il rais ebbe il saluto della donna ed anche lui rispose con un sorriso.
"Allah sia pure con te, Fatima."
L'interno della tenda, che si estendeva più per lunghezza che per larghezza, era diviso da un telone in due parti; la prima, comunicante con l'esterno, era riservata agli uomini e serviva per ricevere gli ospiti; la seconda era riservata alle donne ed un profumo di caffè proveniva da quella parte.
Il caffè, però, doveva essere il complemento di un banchetto, che le donne avevano già preparato. Sulla tovaglia bianca stesa per terra, infatti, posavano vassoi stracolmi di cibo: un segno di riguardo verso l'ospite, una tavola riccamente imbandita!
Terminate le abluzioni, sostituiti gli abiti impolverati, sedettero tutti sulla grande stuoia e il pranzo ebbe inizio, servito da due giovani donne; l'allegro coro di voci femminili proveniente da dietro il telone, andò infittendosi sempre più.
Finalmente venne servito il caffè.
Era un vero rito. Riuniva gli amici ed era pretesto per scambio di notizie, opinioni, consigli e preghiere. Per essere perfetto bisognava che fosse: amaro come la notte, caldo come il sole e dolce come l'amore!
La tostatura veniva fatta al momento ed i chicchi venivano ridotti in finissima polvere in uno staio di ottone; solo così, acquistava quel profumo inimitabile. Onde evitare che fondi di polvere potessero trovarsi nella tazza, soprattutto in quella di un ospite, una volta giunto ad ebollizione, veniva lasciato depositare e poi era travasato in un'altra caffettiera. A questo punto, dopo averlo riportato ad alta temperatura ed aromatizzato con spezie varie, il caffè era, finalmente, pronto per essere servito.
**********
![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/602417.jpg?268)
Mentre a Doha si ordivano tranelli, a Sahab l'episodio dell'espulsione di Alì era già dimenticata..
Albeggiava, il primo chiarore apparve all'orizzonte tra il cessare della notte e l'approssimarsi dell'aurora e le stelle andarono impallidendo inghiottite da quell'incerto biancore.
L'oasi era ancora avvolta nel silenzio, quello che segue il clangore e il fragore di una festa ed il vento assediava le tende.
Letizia, la figlia minore del mercante greco, era già in piedi: ogni volta, quel magico momento del risveglio del giorno la trovava sveglia e la spingeva fuori della tenda; gli splendidi occhi ancora assonnati, ma avidi di nutrirsi della struggente bellezza di quel magico momento.
La ragazza lasciò cadere alle spalle il lembo che fungeva da entrata della tenda che divideva con la sorella e le due piccole schiave di Bibal, ma restò ferma dov'era: qualcun altro l'aveva preceduta.
Il cuore le balzò in gola nel riconocere l figura di harith, lo sceicco de Kinda, nobile e prestante, fiero, nell'atteggiamento dall'eleganza felina: dell'audace leopardo del deserto e dall'intrepido leone di montagna. Non certo del vanitoso pavone, pensava con occhi sognanti e sfavillanti.
Letizia era una sognatrice. Sempre persa, diceva con indulgenza sua sorella Atena, dietro sogni e fantasticherie; sempre attratta da mondi sconosciuti e lontani e da persone cariche di fascino e mistero, lontane dal suo ambiente: il principe Harith, bello e irraggiungibile, era proprio la figura giusta per alimentare i suoi sogni e le sue fantasie.
Protetta dalla penombra, Letizia seguiva affascinata ogni suo gesto mentre Fatima, la nutrice, gli posava sulle spalle la Ksa, il bianco mantello svolazzsnte, che tanto faceva sognare le donne europee... e non solo quelle.
Fatima rientrò sotto la tenda e Harith fece qualche passo in avanti, ma si fermò subito e si girò, quasi avesse sentito il richiamo di quello sguardo balenante.
"Letizia! - esclamò andandole incontro a lunghi passi e fermandoi davanti alla ragazza; sopra le cime piumate delle palme, la luna brillava ancora, ma le stelle andavano velocemente impallidendo e il fuoco del bivacco più vicino ardeva basso - Il tuo nome è Letizia? E' così che ti chiami? ... Letizia e gioia per lo sguardo... - sorrise, mettendo in mostra una chiostra di denti da giovane leopardo poi aggiunse, dopo breve pausa - Sei mattiniera, bella Letizia e l'Aurora ha le tue sembianze ."
Lei abbassò gli occhi e per coprire il rossore di cui s'era cosparso il bellissimovolto, si calò il trasparentissimo velo. Sapeva, lo ripeteva sempre ad entrambe, a lei e ad Atena, il caro padre compianto, da quando erano scesi dalla nave che li aveva portati da Atene, di coprirsi il volto in presenza di un estraneo, se di fede islamica, perché, diceva, "... qui è considerato indecente il permesso ai cristiani di permettere alle donne di mostrare il volto."
Harith sorrise al gesto: le donne, beduine non usavano coprire e nascondere i loro bellissimi volti, così come era imposto alle donne di città e della costa. Però non disse nulla: gli occhi di quella creatura, pensava, di quell'azzurro intenso rubato al cielo, erano sufficienti a sconvolgere i suoi sensi e lo trafiggevano come strali luminosi fin nel più intimo dell'animo.
"Amo questo momento del giorno. - la sentì dire - Mi permette di scrutare nei meandri più nascosti del mio spirito e di dare spazio i miei sogni e ai miei desideri."
"Sogni e desideri? - sorrise ancora lui - Se Letizia mi confida i suoi sogni e i suoi desideri, io le confiderò i miei." aggiunse posandole dolcemente una mano sulla spalla e sospingendola delicatamente in avanti.
Proseguirono per breve tratto, poi lei si fermò e sollevò su di lui gli straordinari occhi azzurri.
"Oh! Io ho pochi desideri e molti sogni. - confessò - Io vivo di sogni."
"Ma... - replicò Hrith, completamtne ammaliato dal balenio azzurro di quegli aocchi - Io desidero tutto quello che sogno."
"Oh, no! - soggiunse Letizia - I desideri sono realizzabili, ma i sogni sono irraggiungibili. Ecco perché i miei desideri sono modesti e i sogni, invece, assai grandiosi... I miei sogni - sorrise - non hanno limiti né orizzonti... Non hanno tempo... Sono sogni!"
"Ma i sogni possono diventare realtà, piccola Letizia. Esprimi i tuoi sogni e i tuoi desideri e forse..."
"I miei desideri? - sussurrò lei - Io desidero incontrare Alma, la nipotina che ancora non conosco."
"Sono certo che la incontrerai un giorno."
Harith le sfiorò con la punta delle dita il volto proteso e nascosto dal velo; Letizia fremette e riprese:
"Vorrei... Vorrei anche tornare in Italia, un gionro. - una lieve incrinazione nella voce - Vorrei tornare a Torino, la città dove sono nata."
"Ma... - trasecolò il giovane - Non sei nata ad Atene? E' da quella terra, mi dicono, che il mercante Aristo Gallas sia arrivato a Doha assieme alle sue due figlie."
"Io sono la figlia di Vittorio Bosio, archeologo e collega del professor Marco Starti, amico di Aristeo Gallas. Avevo dodici anni quando mio padre morì... insieme a mia madre... Aristeo si prese cura di me e mi adottò... Atena non è mia sorella di sangue, ma è molto più che lo fosse."
Letizia si calò giù il velo quasi con civetteria, ma lo tenne sulle labbra mentre rispondeva, con occhi colmi di magico splendore.
"Io non ho mai smesso di sognare. - sussurrò - Quando ero bambina e leggevo i libri di favole, sognavo giungle e Templi misteriosi... deserti ed isole sperdute e sognavo... e sogno ancora..."
Letizia s'interruppe; nello sguardo un pizzico di splendida malizia che conquistò definitivamente il cuore del bel predone - Non... non sorriderai del mio sogno se te lo confido?"
"Non sorriderò. - lui la gurdava incantato, come si guarda un prodigio - E ti confiderò il mio sogno."
"Io sogno ancora il principe delle favole senza macchia né paura che mi rapisce sul suo cavallo bianco e mi porta lontano, in un luogo incantato."
"Splendido sogno, dolcissima Letizia. - tornò a sorridere lui - Io non ti dirò qual è il mio sogno, ma te lo mostrerò... dopo che avremo fatto onore al caffé ed alle ciambelle al miele della cara Fatima."
Il sole, intanto, comparso all'orizzonte, stava lacerando l'ultima foschia del crepuscolo del mattino, permettendo al giorno di avanzare veloce.
Harith fece un cenno e un giovane si avvicinò; lo sceicco gli bisbigliò qualcosa all'orecchio e quello si allontnò veloce.
Un profumo di caffé e di ciambelle fritte saturava l'aria tutt'intorno, proveniente dalla zona riservata agli ospiti nella tenda dello sceicco.
Il giovane passò intorno alla vita della ragazza il braccio forte e solido come una colonna e un fremito di piacere la percorse tutta; il corpo ancora rigidoo, Letizia non sapeva quasi dirsi se a procurarle quei fremiti fosse l'aria fresca del mattino oppure la violenza delle sue emozioni.
Harith si tolse il mantello e lo posò con delicatezza sulle spalle di lei; lei sollevò su di lui gli stupendi occhi bsfavillanti sotto le lunghisime ciglia setose e da cui il sole appena nascente riusciva già a trarre bagliori.
Con un sorriso lo ringraziò; lui la fissava con tenera sollecitudine.
Ogni tanto lei sbirciava verso di lui, il naso adunco e il mento da animale da preda, il profilo sottolinato da una breve barba, che nel loro 'insieme gli conferivano una certa somiglianza con le i simulacri di antichi guerrieri: bellissimo e un po' selvaggio.
Richiamato dal suo sguardo, Harith si chinò sul suo capo; a lei parve che vi avesse deposto un bacio e tornò a fremere.
"Vieni." la sollecitò.
Il caffé era già pronto quando raggiunsero la tenda di Harith e la vecchia Fatima già pronta a servirli. La ragazza, però, si liberò del mantello, che restituì al giovane e prese dalle mani della vecchia il prezioso vassoio, poi, e muovendosi agile aggraziata nella veste di seta ucida color cipria e sotto lo sguardo compiaciuto di Harith, cominciò a servire; offrì prima il caffé poi le ciambelle ancora calde e sfrigolanti, scegliendole, una per una, con le lunghe dita da artista e deponendole nel piatto davanti al giovane. Dopo, sedette accanto a lui e si servì da sé.
Fatima la scrutava, tra l'incuriosita e la sospettosa, ma Letizia le chiese del dolcificante con un sorriso così radioso, che il volto rugoso della vecchia si distese immediatamente.
Quando nei piatti e nelle tazze non ci fu più nulla, lasciare una pur minima traccia di cibo era irrispettoso per l'ospite e la cuoca, Harith si pulì la bocca sul dorso della mano e si alzò.
Letizia lo imitò; ringraziò entrambi, Harith e la sua nutrice e fece l'atto di allontanarsi.
Harith la trattenne per un braccio, mentre con l'altro si sistemava il mantello.
"Aspetta, Letizia. - disse - Ho una sorpresa per te."
"Una sorpresa?"
Lei si fermò, lui fece un cenno affermativo del capo e la prese per mano guidandola verso l'esterno; alle spalle, la vecchia Fatima le mise uno scialle sulle spalle. La ragazza si girò per ringraziarla con un sorriso, poi seguì il giovame. che, in silenzio, proprio come chi pregusta il sapore di una sorpresa, le fece attraversare il campo, quasi del tutto deserto ancora, salvo sentinelle e qualche mattiniero.
Albeggiava, il primo chiarore apparve all'orizzonte tra il cessare della notte e l'approssimarsi dell'aurora e le stelle andarono impallidendo inghiottite da quell'incerto biancore.
L'oasi era ancora avvolta nel silenzio, quello che segue il clangore e il fragore di una festa ed il vento assediava le tende.
Letizia, la figlia minore del mercante greco, era già in piedi: ogni volta, quel magico momento del risveglio del giorno la trovava sveglia e la spingeva fuori della tenda; gli splendidi occhi ancora assonnati, ma avidi di nutrirsi della struggente bellezza di quel magico momento.
La ragazza lasciò cadere alle spalle il lembo che fungeva da entrata della tenda che divideva con la sorella e le due piccole schiave di Bibal, ma restò ferma dov'era: qualcun altro l'aveva preceduta.
Il cuore le balzò in gola nel riconocere l figura di harith, lo sceicco de Kinda, nobile e prestante, fiero, nell'atteggiamento dall'eleganza felina: dell'audace leopardo del deserto e dall'intrepido leone di montagna. Non certo del vanitoso pavone, pensava con occhi sognanti e sfavillanti.
Letizia era una sognatrice. Sempre persa, diceva con indulgenza sua sorella Atena, dietro sogni e fantasticherie; sempre attratta da mondi sconosciuti e lontani e da persone cariche di fascino e mistero, lontane dal suo ambiente: il principe Harith, bello e irraggiungibile, era proprio la figura giusta per alimentare i suoi sogni e le sue fantasie.
Protetta dalla penombra, Letizia seguiva affascinata ogni suo gesto mentre Fatima, la nutrice, gli posava sulle spalle la Ksa, il bianco mantello svolazzsnte, che tanto faceva sognare le donne europee... e non solo quelle.
Fatima rientrò sotto la tenda e Harith fece qualche passo in avanti, ma si fermò subito e si girò, quasi avesse sentito il richiamo di quello sguardo balenante.
"Letizia! - esclamò andandole incontro a lunghi passi e fermandoi davanti alla ragazza; sopra le cime piumate delle palme, la luna brillava ancora, ma le stelle andavano velocemente impallidendo e il fuoco del bivacco più vicino ardeva basso - Il tuo nome è Letizia? E' così che ti chiami? ... Letizia e gioia per lo sguardo... - sorrise, mettendo in mostra una chiostra di denti da giovane leopardo poi aggiunse, dopo breve pausa - Sei mattiniera, bella Letizia e l'Aurora ha le tue sembianze ."
Lei abbassò gli occhi e per coprire il rossore di cui s'era cosparso il bellissimovolto, si calò il trasparentissimo velo. Sapeva, lo ripeteva sempre ad entrambe, a lei e ad Atena, il caro padre compianto, da quando erano scesi dalla nave che li aveva portati da Atene, di coprirsi il volto in presenza di un estraneo, se di fede islamica, perché, diceva, "... qui è considerato indecente il permesso ai cristiani di permettere alle donne di mostrare il volto."
Harith sorrise al gesto: le donne, beduine non usavano coprire e nascondere i loro bellissimi volti, così come era imposto alle donne di città e della costa. Però non disse nulla: gli occhi di quella creatura, pensava, di quell'azzurro intenso rubato al cielo, erano sufficienti a sconvolgere i suoi sensi e lo trafiggevano come strali luminosi fin nel più intimo dell'animo.
"Amo questo momento del giorno. - la sentì dire - Mi permette di scrutare nei meandri più nascosti del mio spirito e di dare spazio i miei sogni e ai miei desideri."
"Sogni e desideri? - sorrise ancora lui - Se Letizia mi confida i suoi sogni e i suoi desideri, io le confiderò i miei." aggiunse posandole dolcemente una mano sulla spalla e sospingendola delicatamente in avanti.
Proseguirono per breve tratto, poi lei si fermò e sollevò su di lui gli straordinari occhi azzurri.
"Oh! Io ho pochi desideri e molti sogni. - confessò - Io vivo di sogni."
"Ma... - replicò Hrith, completamtne ammaliato dal balenio azzurro di quegli aocchi - Io desidero tutto quello che sogno."
"Oh, no! - soggiunse Letizia - I desideri sono realizzabili, ma i sogni sono irraggiungibili. Ecco perché i miei desideri sono modesti e i sogni, invece, assai grandiosi... I miei sogni - sorrise - non hanno limiti né orizzonti... Non hanno tempo... Sono sogni!"
"Ma i sogni possono diventare realtà, piccola Letizia. Esprimi i tuoi sogni e i tuoi desideri e forse..."
"I miei desideri? - sussurrò lei - Io desidero incontrare Alma, la nipotina che ancora non conosco."
"Sono certo che la incontrerai un giorno."
Harith le sfiorò con la punta delle dita il volto proteso e nascosto dal velo; Letizia fremette e riprese:
"Vorrei... Vorrei anche tornare in Italia, un gionro. - una lieve incrinazione nella voce - Vorrei tornare a Torino, la città dove sono nata."
"Ma... - trasecolò il giovane - Non sei nata ad Atene? E' da quella terra, mi dicono, che il mercante Aristo Gallas sia arrivato a Doha assieme alle sue due figlie."
"Io sono la figlia di Vittorio Bosio, archeologo e collega del professor Marco Starti, amico di Aristeo Gallas. Avevo dodici anni quando mio padre morì... insieme a mia madre... Aristeo si prese cura di me e mi adottò... Atena non è mia sorella di sangue, ma è molto più che lo fosse."
Letizia si calò giù il velo quasi con civetteria, ma lo tenne sulle labbra mentre rispondeva, con occhi colmi di magico splendore.
"Io non ho mai smesso di sognare. - sussurrò - Quando ero bambina e leggevo i libri di favole, sognavo giungle e Templi misteriosi... deserti ed isole sperdute e sognavo... e sogno ancora..."
Letizia s'interruppe; nello sguardo un pizzico di splendida malizia che conquistò definitivamente il cuore del bel predone - Non... non sorriderai del mio sogno se te lo confido?"
"Non sorriderò. - lui la gurdava incantato, come si guarda un prodigio - E ti confiderò il mio sogno."
"Io sogno ancora il principe delle favole senza macchia né paura che mi rapisce sul suo cavallo bianco e mi porta lontano, in un luogo incantato."
"Splendido sogno, dolcissima Letizia. - tornò a sorridere lui - Io non ti dirò qual è il mio sogno, ma te lo mostrerò... dopo che avremo fatto onore al caffé ed alle ciambelle al miele della cara Fatima."
Il sole, intanto, comparso all'orizzonte, stava lacerando l'ultima foschia del crepuscolo del mattino, permettendo al giorno di avanzare veloce.
Harith fece un cenno e un giovane si avvicinò; lo sceicco gli bisbigliò qualcosa all'orecchio e quello si allontnò veloce.
Un profumo di caffé e di ciambelle fritte saturava l'aria tutt'intorno, proveniente dalla zona riservata agli ospiti nella tenda dello sceicco.
Il giovane passò intorno alla vita della ragazza il braccio forte e solido come una colonna e un fremito di piacere la percorse tutta; il corpo ancora rigidoo, Letizia non sapeva quasi dirsi se a procurarle quei fremiti fosse l'aria fresca del mattino oppure la violenza delle sue emozioni.
Harith si tolse il mantello e lo posò con delicatezza sulle spalle di lei; lei sollevò su di lui gli stupendi occhi bsfavillanti sotto le lunghisime ciglia setose e da cui il sole appena nascente riusciva già a trarre bagliori.
Con un sorriso lo ringraziò; lui la fissava con tenera sollecitudine.
Ogni tanto lei sbirciava verso di lui, il naso adunco e il mento da animale da preda, il profilo sottolinato da una breve barba, che nel loro 'insieme gli conferivano una certa somiglianza con le i simulacri di antichi guerrieri: bellissimo e un po' selvaggio.
Richiamato dal suo sguardo, Harith si chinò sul suo capo; a lei parve che vi avesse deposto un bacio e tornò a fremere.
"Vieni." la sollecitò.
Il caffé era già pronto quando raggiunsero la tenda di Harith e la vecchia Fatima già pronta a servirli. La ragazza, però, si liberò del mantello, che restituì al giovane e prese dalle mani della vecchia il prezioso vassoio, poi, e muovendosi agile aggraziata nella veste di seta ucida color cipria e sotto lo sguardo compiaciuto di Harith, cominciò a servire; offrì prima il caffé poi le ciambelle ancora calde e sfrigolanti, scegliendole, una per una, con le lunghe dita da artista e deponendole nel piatto davanti al giovane. Dopo, sedette accanto a lui e si servì da sé.
Fatima la scrutava, tra l'incuriosita e la sospettosa, ma Letizia le chiese del dolcificante con un sorriso così radioso, che il volto rugoso della vecchia si distese immediatamente.
Quando nei piatti e nelle tazze non ci fu più nulla, lasciare una pur minima traccia di cibo era irrispettoso per l'ospite e la cuoca, Harith si pulì la bocca sul dorso della mano e si alzò.
Letizia lo imitò; ringraziò entrambi, Harith e la sua nutrice e fece l'atto di allontanarsi.
Harith la trattenne per un braccio, mentre con l'altro si sistemava il mantello.
"Aspetta, Letizia. - disse - Ho una sorpresa per te."
"Una sorpresa?"
Lei si fermò, lui fece un cenno affermativo del capo e la prese per mano guidandola verso l'esterno; alle spalle, la vecchia Fatima le mise uno scialle sulle spalle. La ragazza si girò per ringraziarla con un sorriso, poi seguì il giovame. che, in silenzio, proprio come chi pregusta il sapore di una sorpresa, le fece attraversare il campo, quasi del tutto deserto ancora, salvo sentinelle e qualche mattiniero.
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![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/9802638.jpg?290)
Vicino alla Fontana del Fico, quasi al centro del campo, trovarono il giovane con cui Harith poco prima aveva scambiato qualche parola.
Reggeva le briglie di uno splendido cavallo bianco che tese al suo sceicco prima di allontanarsi.
"Ecco, piccola Letizia. - Harith la inondò di uno sguardo unico e particolare, quello da cui la scintilla del desiderio sprigiona già al primo incontro... al primo incrociarsi di sguardi. - Il tuo sogno!... Il principe delle favole, senza macchia né paura, che col suo cavallo bianco ti rapisce e ti conduce in un luogo incantato!... Io ho qualche macchia, forse, ma non ho paura e sono qui per realizzare il tuo sogno e condurti in quel luogo incantato!"
"Oh, Harith! - proruppe lei colta di sorpresa, mentre un lieve rossore le scivolava lungo le guance rilucenti del riflesso del primo sole del mattino - Io non so che dire..."
Lui la guardava incantato.
"Posso aiutarti a montare?" domandò.
Lei fece un cenno affermativo del capo; aspettava il fuggevole attimo in cui si sarebbe consumato il contatto dei loro corpi... Era preparata ad emozione e turbamenti, eppure, per la seconda volta, si lasciò cogliere dalla sorpresa: non s'aspettava quell'eccitazione, quel vellutato piacere, quando lui le cinse la vita con entrambe le mani e nel sollevarla la tenne così vicino a sé da confondere sguardi e respiri; non s'spettava la indicibile eccitazione prodotta dal seno serrato e palpitante contro il petto di lui mentre la portava più in alto, prima di deporla sulla sella.
Per un attimo, lei lo guardò dall'alto poi, con un balzo, lui le montò alle spalle e le insinuò le braccia sotto le sue braccia, intorno al busto, per attirarla a sé e lei si trovò seduta con le ginocchia sul collo dell'animale e con le gambe sulle ginocchia di lui.
Trattenne il respiro, sotto l'empito di una violenta emozione, rigida e tesa, nelle braccia di lui che con una mano la sosteneva per la vita e con l'altra reggeva le briglie.
Fu solo allora, quando lo sguardo cadde sulle sue mani, che Letizia si accorse drlla ferita ricucita e ancora fresca tra il polso e il dorso della mano sinistra.
"Ti la sei procurato questa ferita battendoti con si Richard per me, sceicco?" domandò.
"Chiamami Harith, piccola Letizia. Sì! - assentì lui con un sorriso - Te l'ho detto, dolce gazzella, sono pronto ad affrontare un'intera tribù per i tuoi occhi azzurri."
Lei girò il capo per guardarlo in volto; le guance, poi le labbra si sfiorarono.... pochi secondi, ma lei ammutolì... e non solo per l'emozione, ma per lo stupore: si aspettava che Harith la baciasse e la stringesse forte, ma Harith non lo fece, nonostante negli occhi gli brillasse quella luce irrequieta con cui nessuno l'aveva mai guardata prima.
"Sir Richard si è battuto per mia sorella. - interloquì con voce quasi incolore - Adesso Atena è una donna libera che può decidere della propria vita come ha sempre fatto, ma... ma io, Harith? - una lieve incrinazione nella voce - Cosa sono io? Quale sarà il mio destino?"
"Oh,Letizia! Luce degli Occhi Miei! - proruppe lui, fermando il cavallo e lasciando andare le redini sul collo dell'animale - Non hai ancora capito che non è il tuo Destino ad essere nelle mie mani, ma è il mio Destino ad essere nelle tue?" le mormorò sulla bocca, poi l'avvolse stretta nelle braccia, le gambe avvinte alle sue, in un spasmodico di braccia, mani, bocche. Il seno di lei palpitava contro il torace di lui tambureggiante.
Harith appoggiò la guancia a quella di lei, s'inabissò nel fulgore azzuro dei suoi occhi e le liberò il capo del velo; lei lo lasciò fare.
Inebriato, lui le tirò indietro la massa setosa e bionda dei lunghi capelli e la baciò; prima sulla fronte, poi sugli occhi e sulle guancia, per tornare ancora alle palpebre, che lei aveva abbassato, ma che lo facevano impazzire per il tesoro che vi nascindevano. Finalmente si fermò sulle labbra.
Lei fremeva e in lui il desiderio premeva, durissimo, come un fiore che spinge per aprirsi.
Nelle labbra di lei semiaperte, egli vi trovò sapore di latte e miele; lo stesso che era nella sua bocca. Pago, ma non sazio, passò alla gola e al collo ed a quella tenera curva, proprio fra gola e collo, irresistibile richiamo dei suoi sensi eccitatissimi.
Per qualche attimo lei restò ancora immobile a ricevere amore, intimorita dall'audacia di lui ma anche timorosa che smettesse; la bocca di lui continuava a cercarla, insieme alle mani e la percorreva tutta con grande delicatezza. Poi, egli le prese una mano, che portò su di sé.
Prima timidamente e timorosamente, poi con più sicurezza, lei si lasciò guidare nella scoperta e conoscenza del corpo di lui... ricerca e scoperta eccitante, terrificantemente meravigliosa. Continuò a "cercarlo" ed a scoprire la sua diversità e lui le lasciò la mano... libera di esplorare da sola.
Tornò da lei. Cominciò sbottonandole la veste di seta aperta sul davanti; uno per uno, i numerosi bottoncini si arresero sotto le dita eccitate. Il corpetto della veste, aperto, scivolò sulla spalla sinistra, mostrando il tesoro nascosto.
Lui si chinò per saziarsi di baci e inebrirsi del profumo di quella pelle bianca e morbida; le abbassò le bretelle che reggevano il seno, ma lei lo trattenne.
"No! - solo un monosillabo, ma riuscì a fermare il grande predone - No!"
Harith allentò la stretta; un lieve bacio sui capelli, poi le sistemò la veste.
"Non temere. - la rassicurò - Non temere, Luce degli Occhi Miei! Non farei nulla che non volessi anche tu."
"Non... non hai risposto alla mia domanda, Harith. Io... io vengo da una terra dove le donne non si mettono più in vendita e non so se sono, oppure no, una donna ancora libera."
"E io ti ho risposto, mio bene infinito! - il grande predone si chinò a sfiorarle una volta ancora la guancia - Capisco, però, le tue paure, ma... ricorda, mio bene, le donne di Sahab sono donne libere." aggiunse, poi, afferrate le redini, lanciò il cavallo al galopo.
Lei lasciò correre un lungo istante prima di chiedere:
"Vuoi dire, Harith, che se il lord inglese non fosse riuscito a battere quell'Alì, mia sorella Atena avrebbe potuto rifiutare di diventare la sua terza donna... quell'Alì... mi dicono, abbia già due mogli. Perché ne voleva una terza?" domandò la ragazza in tutta ingenuità.
"Ah.ah.ah"... - rise il giovane, poi spiegò - Allah gli permette di avere quattro mogli... se può mantenerle dignitosamente, ma... forse, queste cose , tu non puoi ancora capirle, piccola Letizia." sospirò il giovane, sfiorandole i capelli con le labbra in un gesto tenero e insieme assai sensuale.
Lei fece l'atto di prendere la parola, ma esitò; lui continuava a sfiorarle la nuca con la bocca e lei proruppe:
"Non le capisco, infatti e non le capirò mai. Quando l'amore busserà al mio cuore sarà per sempre e l'amore sarà tutto per una sola persona ed a nessun'altra donna sarà permesso..."
Harith non la lasciò finire.
"Ah.ah... -sorrise ancora, stringendola così forte da farla gemere; sentiva, attraverso il sottile tessuto di seta della sua veste, le pulsazioni affrettate del cuore e del sangue nelle vene , all'unisono con il ritmo delle proprie e gli comunicavano un leggero stordimento - Ah, piccola Letizia... - sospirò, poi, colpo ,mutando tono nella voce esclamò - Guarda davanti a te, Letizia... Ecco il mio sogno!"
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![Immagine](/uploads/5/4/5/6/5456389/690258.jpg?281)
"Sapevo di trovarti qui."
La voce dello sceicco Harith, straordinariamente dolce e tenera, sorprese Letizia alle spalle.
"Davvero?" fece lei senza neppure voltarsi, ma permettendo ad un brivido di percorrerla lungo tutto il corpo.
Stava seduta su una sporgenza rocciosa, al limitare dell'oasi; davanti a sé l'irraggiungibile orizzonte continuava a fuggire e dietro di sé l'eco di rumori, voci, grida e risate, si staccavano gioiose dal piazzale dove la gente di Sahab raccolta in festa.
Lei si alzò, continuandogli a dare le spalle e il giovane l'attirò tra le braccia.
"Non toccarmi! - gli ingiunse lei con voce tranquilla, ma ferma - Non mi toccare. Non voglio!"
Lui ritirò le braccia a mezz'aria; lei si girò.
Con profondo sgomento, Harith vide, concentrata negli splendidi occhi asciutti della ragazza, tutta la tristezza, la malinconia e la profonda solitudine del deserto. Lei sfuggiva il suo sguardo, ma lui lo stesso riuscì a penetrarvi e quando questo accadde, "sentì" quella tristezza, quella malinconia e quella solitudine penetrare dentro di lui come la sabbia di una clessidra che passa da un'ampolla all'altra e una sensazione di sgomento l'afferrò e l'indolente momento toccato dall'ultimo struggente chiarore del giorno, lo turbò.
"Mi dispiace, Letizia! Mi dispiace! Mi dispiace che tu lo abbia saputo in questo modo!" le sussurrò chinandosi e posando le labbra sulla cascata morbida dei capelli: senza velo né orpelli, lei ostentava quasi con sfida la sua straordinaria, incomparabile bellezza.
"Lo so!" rispose con disarmante semplicità.
"Sei arrabbiata con me e..."
"No! - lo interruppe lei sorridendo: un sorriso che conservava intatta tutta la dolcezza, ma che era triste come una lanterna spenta sulla parete di una casa violata - Non potrei mai essere arrabbiata con te, Harith, perché tu sei e resterai per sempre il mio "sogno"... Io mi sento, invece, amareggiata e umiliata."
"Oh, no! - proruppe lui con voce sinceramente contrita - No, Luce degli Occhi Miei! Io ti avrei parlato di Fatima... ti avrei detto che solo il dovere e non l'amore mi lega a lei e..."
"Ho qualcosa che ti appartiene, Harith. - lo interruppe lei, tendendogli quacosa che aveva in mano e accompagnando il gesto con quel sorriso senza gioia che tanta afflizione procurava al giovane, proseguì - Di certo appartiene alla tua promessa sposa, ma, non so come... è finita nella mia tenda."
Si trattava di una collana: un gioiello degno di una principessa. Una luccicante cascata di diamanti trattenuta da una maglia d'oro puro, che racchiudeva al suo interno un enorme, preziosissimo, sanguigno rubino rosso; opera eccellente della oreficeria della più pura tradizione araba.
"Oh, no! Mio bene! - gli occhi nero africano del giovane, profondi e sempre più turbati, l'avvolsero come in una carezza, le sue mani cercarono il bel volto chino di lei e lo sollevarono, le braccia l'attirarono a sé - Questo gioiello è proprio per te, mia dolce gazzella e non si trovava per sbaglio sotto la tua tenda."
Lei non rispose, né lo respinse e lui la strinse ancora più forte, certo che la resa fosse vicina: lei era così disarmata e vulnerabile e lui non voleva che si sentisse in alcun modo costretta e desiderava che l'inclinazione verso di lui avvenisse per sua stessa volontà, pur sapendo che a sublimare la meravigliosa sensualità di lei, erano proprio il suo comportamento e la sua pazienta attesa.
"E' un gioiello molto prezioso. - udì infine la voce di lei, dolce e ferma insieme - Oro e pietre preziose: il dono per una "Promessa sposa" o una "Favorita" ed io non sono né l'una né l'altra cosa."
Colto di sorpresa, mentre lei tentava di sciogliersi dalla stretta, Harith cercò di trattenerla ; intorno a loro era tutto silenzio, il clamore era lontano e loro due erano soli.
Ferita, umiliata, ma femminilmente implacabile, lei lo ferì a sua volta:
"Mi hai messa sul banco e vinta in regolare combattimento... - proferì - Non so se per farmi prigioniera o rendermi la libertà... Se sono prigioniera, comportati pure come un padrone, Harith... se, invece, sono libera,... torna dalla tua donna."
Quella notte stessa Atena e Letizia lasciavano Sahab; con loro portavano un cammello e un fucile, ma in cambio lasciavano una collana di topazi, unico oggetto della ricchezza paterna, sottratto alla cupidigia dei predoni e di Bibal, il mercante di schiave, il cui valore era sicuramente superiore.
Le cercarono inutilmente per due giorni.
La voce dello sceicco Harith, straordinariamente dolce e tenera, sorprese Letizia alle spalle.
"Davvero?" fece lei senza neppure voltarsi, ma permettendo ad un brivido di percorrerla lungo tutto il corpo.
Stava seduta su una sporgenza rocciosa, al limitare dell'oasi; davanti a sé l'irraggiungibile orizzonte continuava a fuggire e dietro di sé l'eco di rumori, voci, grida e risate, si staccavano gioiose dal piazzale dove la gente di Sahab raccolta in festa.
Lei si alzò, continuandogli a dare le spalle e il giovane l'attirò tra le braccia.
"Non toccarmi! - gli ingiunse lei con voce tranquilla, ma ferma - Non mi toccare. Non voglio!"
Lui ritirò le braccia a mezz'aria; lei si girò.
Con profondo sgomento, Harith vide, concentrata negli splendidi occhi asciutti della ragazza, tutta la tristezza, la malinconia e la profonda solitudine del deserto. Lei sfuggiva il suo sguardo, ma lui lo stesso riuscì a penetrarvi e quando questo accadde, "sentì" quella tristezza, quella malinconia e quella solitudine penetrare dentro di lui come la sabbia di una clessidra che passa da un'ampolla all'altra e una sensazione di sgomento l'afferrò e l'indolente momento toccato dall'ultimo struggente chiarore del giorno, lo turbò.
"Mi dispiace, Letizia! Mi dispiace! Mi dispiace che tu lo abbia saputo in questo modo!" le sussurrò chinandosi e posando le labbra sulla cascata morbida dei capelli: senza velo né orpelli, lei ostentava quasi con sfida la sua straordinaria, incomparabile bellezza.
"Lo so!" rispose con disarmante semplicità.
"Sei arrabbiata con me e..."
"No! - lo interruppe lei sorridendo: un sorriso che conservava intatta tutta la dolcezza, ma che era triste come una lanterna spenta sulla parete di una casa violata - Non potrei mai essere arrabbiata con te, Harith, perché tu sei e resterai per sempre il mio "sogno"... Io mi sento, invece, amareggiata e umiliata."
"Oh, no! - proruppe lui con voce sinceramente contrita - No, Luce degli Occhi Miei! Io ti avrei parlato di Fatima... ti avrei detto che solo il dovere e non l'amore mi lega a lei e..."
"Ho qualcosa che ti appartiene, Harith. - lo interruppe lei, tendendogli quacosa che aveva in mano e accompagnando il gesto con quel sorriso senza gioia che tanta afflizione procurava al giovane, proseguì - Di certo appartiene alla tua promessa sposa, ma, non so come... è finita nella mia tenda."
Si trattava di una collana: un gioiello degno di una principessa. Una luccicante cascata di diamanti trattenuta da una maglia d'oro puro, che racchiudeva al suo interno un enorme, preziosissimo, sanguigno rubino rosso; opera eccellente della oreficeria della più pura tradizione araba.
"Oh, no! Mio bene! - gli occhi nero africano del giovane, profondi e sempre più turbati, l'avvolsero come in una carezza, le sue mani cercarono il bel volto chino di lei e lo sollevarono, le braccia l'attirarono a sé - Questo gioiello è proprio per te, mia dolce gazzella e non si trovava per sbaglio sotto la tua tenda."
Lei non rispose, né lo respinse e lui la strinse ancora più forte, certo che la resa fosse vicina: lei era così disarmata e vulnerabile e lui non voleva che si sentisse in alcun modo costretta e desiderava che l'inclinazione verso di lui avvenisse per sua stessa volontà, pur sapendo che a sublimare la meravigliosa sensualità di lei, erano proprio il suo comportamento e la sua pazienta attesa.
"E' un gioiello molto prezioso. - udì infine la voce di lei, dolce e ferma insieme - Oro e pietre preziose: il dono per una "Promessa sposa" o una "Favorita" ed io non sono né l'una né l'altra cosa."
Colto di sorpresa, mentre lei tentava di sciogliersi dalla stretta, Harith cercò di trattenerla ; intorno a loro era tutto silenzio, il clamore era lontano e loro due erano soli.
Ferita, umiliata, ma femminilmente implacabile, lei lo ferì a sua volta:
"Mi hai messa sul banco e vinta in regolare combattimento... - proferì - Non so se per farmi prigioniera o rendermi la libertà... Se sono prigioniera, comportati pure come un padrone, Harith... se, invece, sono libera,... torna dalla tua donna."
Quella notte stessa Atena e Letizia lasciavano Sahab; con loro portavano un cammello e un fucile, ma in cambio lasciavano una collana di topazi, unico oggetto della ricchezza paterna, sottratto alla cupidigia dei predoni e di Bibal, il mercante di schiave, il cui valore era sicuramente superiore.
Le cercarono inutilmente per due giorni.